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Autore: hileel    05/09/2022    2 recensioni
(dal testo)
Lentamente, il bambino schiuse gli occhi e si ritrovò pressato da centinaia, migliaia di corpi ammassati gli uni agli altri, che si scatenavano e saltavano sul posto facendo tremare l'aria infuocata e il suolo sotto i piedi. Un biancore accecante puntato direttamente sul viso lo portò a schermarselo con un braccio, sul quale si proiettarono all'istante i meravigliosi giochi di luce che conferivano al Garden l'aspetto di un limbo sospeso fra il cielo e la terra che sfondava totalmente spazio, tempo e gravità. Il piccolo Eddie si guardò attorno, incredulo, e ben presto si lasciò travolgere dall'eccitazione di quella mandria imbestialita che, come lui, evidentemente scoppiava dall'emozione di veder realizzato il sogno di una vita: assistere al più grande concerto metal della storia.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dustin Henderson, Eddie Munson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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Where's the dreams that I've been after?





A Eddie Munson piaceva sognare.

Eddie non ricordava un singolo istante della sua vita in cui non avesse sognato, in cui non avesse chiuso gli occhi nel silenzio del vento della sera quando, nella sua stanza, l'abbraccio tra la luce giallastra della lampada e la tela scrostata del soffitto davano vita a ombre che, lui lo sapeva, sarebbero rimaste per sempre solo tali: proiezioni e disegni bugiardi, il doppio fittizio e impalpabile di qualcosa che non sarebbe mai diventato realtà, destinato a rimanere ancorato all'interno della sua testa.

In realtà, Eddie chiudeva gli occhi anche quando non era solo, quando era immerso in una fiumana di gente pronta ad additarlo per i capelli che gli ricadevano sulle spalle e le catene che gli tintinnavano addosso, per la viscerale passione per "Dungeons&Dragons" o per il serpaio in cui viveva assieme allo zio. Anche prima di trasferirsi lí a Forest Hills, li aveva chiusi per tanti anni. Da piccolo, ad esempio, fingeva di addormentarsi nei posti più improbabili nella speranza che suo padre lo prendesse in braccio e lo sistemasse nel letto, tra le lenzuola e, magari, gli lasciasse un bacio sulla fronte o una carezza sulla guancia. Ma la carezza non arrivava mai: arrivavano solo parole sbiascicate, fetide di alcol e fumo, secche e brucianti come le dita che ogni tanto si abbattevano impietose sulla sua pelle. Così Eddie serrava le palpebre e immaginava che quella mano ruvida e violenta fosse quella candida e delicata della bambina dai capelli biondo fragola che vedeva sempre a scuola e non aveva mai il coraggio di salutare.

Eddie, però, chiudeva gli occhi soprattutto il martedì sera, nell'istante esatto in cui posava le dita sulla sua chitarra elettrica, la stessa con cui, insieme alla sua band, faceva risuonare le pareti ammuffite e scalcinate dell'Hideout. Allora, improvvisamente, i muri dello squallido locale si dissolvevano in uno spazio aperto che si estendeva a perdita d'occhio; la pedana insudiciata su cui poggiavano i piedi e la batteria si elevavano fino al cielo, trasformandosi in un gigantesco palco che offriva una visione completa della platea, non più composta da una manciata di ubriachi ma da un oceano ribollente di cori e voci. Le luci ronzanti del pub si risvegliavano, tramutandosi in fari accecanti che, da sopra la scena, si rincorrevano l'un l'altro e puntavano direttamente verso di loro, verso di lui: la vera star della serata. Così, ingabbiato dal mostruoso boato di un pubblico in visibilio, Eddie Munson si preparava a regalare al mondo il più grande concerto metal della storia. 

Eddie non poteva immaginare che tutti i suoi sogni sarebbero diventati realtà, un giorno: il suo ultimo. Quello in cui si era ritrovato tra le braccia tremanti di Dustin, accartocciato su una strada che ricordava di aver percorso centinaia di volte in quello che forse era un altro mondo, un'altra vita. Quella in cui Hawkins era la noiosa cittadina che gli era sempre stata stretta dove non accadeva mai niente ma i prati erano curati e verdeggianti e il sole filtrava dai vetri delle finestre, e non asfissiava sotto il miasma disumano di radici che ora la infettava. 

Eddie si era sempre domandato che sapore avesse la morte. La sua sapeva di zolfo e umidità: ciò che trasudava dall'aria del Sottosopra creando una cappa di fumi soffocanti che si mischiavano al sapore bagnato di terra e sudore. La sua pelle ne era impregnata, così come gli squarci che vi si aprivano e in cui la polvere si mischiava al sangue e al sale delle lacrime che scivolavano lente giù dalle guance dei due ragazzi come se, nell'innocenza tipica dei bambini che pensavano di aver perso da tempo, tentassero invano di purificare le ferite letali che dilaniavano il corpo di Eddie. Un lago cremisi si allargava sotto la sua figura agonizzante: avvertiva la linfa vitale scorrergli a caldi fiotti fuori dal corpo che, di contro,  si riempiva di un freddo siderale. Il sangue era ovunque: ricopriva la sua figura brutalmente martoriata, appesantiva i vestiti, gorgogliava nella gola e macchiava denti e labbra, esalando fino alle narici in un effluvio metallico. Il corpo, ormai privo di controllo, fremeva in preda agli spasmi proprio come le sue labbra, che boccheggiavano alla disperata ricerca di ossigeno. Ogni suo muscolo ardeva di disperazione sotto i morsi implacabili di quei pipistrelli demoniaci ed era teso, invano, nell'estremo tentativo di trovare sollievo dal veleno che lo infettava. Si sentiva finito, rassegnato di fronte a un destino crudele che forse aveva voluto punirlo per essere stato così codardo in quella vita che tanto aveva disprezzato e a cui ora si sarebbe aggrappato finché le forze glielo avessero permesso.

Eddie riusciva a specchiarsi nelle pupille dilatate di Dustin: il corpo del suo amico, ricurvo sopra al suo, era sconquassato dal pianto e dal battito cardiaco accelerato, gli occhi terrorizzati di chi è costretto ad assistere, impotente, alla scena straziante di una vita che si spegne tra le proprie braccia. Il maggiore offrí al ragazzino un sorriso moribondo e sanguinolento, nel patetico tentativo di rassicurarlo, dipingendo sul proprio volto una grottesca maschera vampiresca. Tra le lacrime, si scambiarono uno sguardo di infinita tristezza, consci di quello che sarebbe successo da lí a poco. Gli occhi acquosi di Eddie gli implorarono perdono, profondi come una voragine: era consapevole che, con la sua sconsideratezza, gli stava inferendo una ferita insanabile. Temeva di aver deluso anche lui, che probabilmente era l'unica persona in vita sua da cui si era realmente sentito ammirato. Ora rimpiangeva perfino il tempo stupidamente sprecato ad essere geloso di quello Steve Harrington che, si ritrovò a pensare, in fondo era un ragazzo in gamba, e si vergognó di aver egoisticamente temuto che Dustin potesse volere più bene a lui. Per un attimo, le iridi celesti e gonfie di pianto del suo amico gli apparvero scure, ugualmente tristi ma staglianti a contrasto con un viso cinerino. I riccioli castani, mal celati dal cappuccio grigio e dalla fascia che il suo amico indossava, improvvisamente si dissolsero in uno strato omogeneo di capelli scuri alto solo pochi millimetri, e l'abbigliamento mimetico che indossava Dustin lasció spazio ad una maglietta che recitava la scritta "Iron Maiden": chiuso nella propria stanza, il piccolo Eddie, seduto sul bordo del letto con le palpebre serrate, si sforzava di concentrarsi sulle parole che capitombolavano a tutto volume fuori dalla cassa, e non sul pianto irrefrenabile di sua madre che veniva soffocato dalle urla di suo padre.

Poi, lentamente, il bambino schiudeva gli occhi e si ritrovava pressato da centinaia, migliaia di corpi ammassati gli uni agli altri, che si scatenavano e saltavano sul posto facendo tremare l'aria infuocata e il suolo sotto i piedi. Un biancore accecante puntato direttamente sul viso lo portò a schermarselo con un braccio, sul quale si proiettarono all'istante i meravigliosi giochi di luce che conferivano al Garden l'aspetto di un limbo sospeso fra il cielo e la terra che sfondava totalmente spazio, tempo e gravità. Il piccolo Eddie si guardò attorno, incredulo, e ben presto si lasciò travolgere dall'eccitazione di quella mandria imbestialita che, come lui, evidentemente scoppiava dall'emozione di veder realizzato il sogno di una vita: assistere al più grande concerto metal della storia.

La band troneggiava sul palco, offuscata da volute e lingue di fuoco che esalavano indomite dal pavimento. Le corde degli strumenti stridevano fino all'estremo, assecondando le dita che correvano all'impazzata sui tasti, e la batteria rimbombava per tutto lo stadio, creando deflagrazioni da far balzare il cuore in gola. Sulla parte frontale della cassa spiccava in bella vista una scritta dai caratteri affilati e taglienti, neri come il catrame; due ali di pipistrello racchiudevano l'inconfondibile nome del gruppo musicale che era ormai sulla bocca di tutti: i Corroded Coffin. 

Sebbene tutti i membri fossero egualmente indolatrati, la vera star di quella serata sarebbe stata una e una soltanto: il cantante, che per l'occasione si sarebbe esibito con un assolo di chitarra elettrica che avrebbe fatto crollare il Garden intero. 

Gli spettatori continuavano ad accalcarsi l'uno sull'altro per conquistare la posizione perfetta che permettesse a ciascuno di godersi ogni istante di quella performance tanto annunciata e che si sarebbe impressa come un marchio a fuoco nel cuore di ognuno di loro. Eddie era stato più che fortunato: dalla prima fila in cui si trovava, gli bastò alzarsi sulle punte dei piedi per riuscire a scorgere l'artista che si preparava ad entrare in scena, degnamente annunciato dai propri compagni.

Edward Munson, in arte Eddie, si fece largo sul palco trionfante e spavaldo, accolto dai folli cori alimentati da ciò che, dalla sua privilegiata posizione sopraelevata rispetto al suolo, appariva solo come un oceano sconfinato di puntini, un caleidoscopio di colori e luci che si univa in un'unica voce, in un unico grido, un unico inno: il suo nome.

Lanciò un ruggito graffiante davanti a quelle sagome anonime che non sarebbe mai stato in grado di riconoscere se le avesse incrociate per strada, ma che erano tutte lì per lui, adoranti, frementi di attesa. Lui lo sapeva e se ne beava, inalandone il fomento a pieni polmoni come gli dei i fumi di un'ecatombe.

Allora, dopo averle fatte tribolare a sufficienza, impugnò la propria adorata chitarra elettrica, dapprima carezzandola, come per saggiarne il corpo per prendervi confidenza nonostante ne ricordasse ogni sfumatura, curva e scheggiatura, ogni grido e sussurro a memoria, e diede finalmente inizio alla propria, incredibile performance. Dominando la scena con la maestria e l'istrionicitá che gli appartenevano, ne stuzzicó le corde e le fece vibrare tra le dita, che progressivamente acquisirono ritmo e velocità fino a quando, nel momento del gran finale, si lacerarono, esauste, nel sadico e autocelebrativo desiderio di aggredire l'udito del pubblico, di graffiarlo e torturarlo fino a farlo godere e strapparne la voce a forza di inneggiare a lui e alla sua musica.

La nota finale di "Master of Puppets", il brano con cui i Corroded Coffin avevano scelto di omaggiare i Metallica e concludere la propria esibizione, riecheggiò in un climax per tutta l'arena, amplificata dagli ululati del pubblico in visibilio. Non appena la musica cessó, Eddie si lasció completamente andare a quell'idolatria, crollando esanime sul palco, stremato, i capelli incollati alla fronte imperlata di sudore e il petto abbandonato a respiri convulsi sotto il gilet borchiato, aperto sul torso. Un sorriso entusiasta gli si allargó sul viso infiammato, trasformato da un'espressione trasognata: pensó che sarebbe potuto rimanere così per sempre, stretto ingabbiato dal mostruoso boato che risuonava per lo stadio, con le gambe slacciate in una posizione scomposta e le palpebre calate, ansimante, beandosi del momento in cui i cori che ancora latravano il suo nome avrebbero raggiunto la loro massima intensità e sarebbero diventati ormai un'eco lontana e ovattata, disperdendosi nello stadio. 

Il nome di Edward sfuggí in un sussurro dalle labbra tremanti di Dustin, i cui occhi guizzavano da una parte all'altra del viso del suo amico, riverso al suolo, ormai privo di vita. Il ragazzino soffocó un grido strozzato, affondando il volto in quel petto immobile. 

Gli occhi di Eddie si erano spenti con un ultimo bagliore, una lacrima solitaria a luccicargli lungo lo zigomo e a sfiorargli le labbra, ancora piegate in un eterno, pacifico sorriso.





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Salve a tutti! Non potevo che sbarcare come autrice su EFP pubblicando una storia che ha per protagonista l'uomo che ha dichiaratamente il mio cuore nel palmo della mano. Il finale della quarta stagione di Stranger Things mi ha distrutta psicologicamente e ho pensato fosse doveroso cercare di addolcire in qualche modo la morte del povero Eddie e di realizzare, anche se per pochi attimi, il suo sogno.
Ad ogni modo, vi ringrazio per aver letto questa mia oneshot, che spero vi sia piaciuta. Mi farebbe molto piacere sapere la vostra opinione quindi, se vi va, lasciate pure una recensione :)
Alla prossima!

 

 
   
 
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