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Autore: Donatozilla    25/09/2022    2 recensioni
Vent fic scritta in un momento di debolezza da parte mia.
Dal testo:
‘Ci volle un po’ per abituarsi a vivere in mezzo agli umani come uno di loro, ma alla fine si era abituato.
Ciò non significava che, anche se abituato, ci fossero giorni in cui pareva che stesse tornando alle prime volte in cui visse in mezzo a loro.
Con paura e tristezza nel suo cuore.
Questo era uno di quei giorni.’
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dz sapeva a cosa andava incontro quando decise di andarsene.

Certo che lo sapeva.

Sarebbe andato a vivere nel mondo degli umani, avrebbe vissuto in mezzo a loro come se fosse uno di loro.

Per carità, non si pentiva affatto di tale decisione.

Amava l’umanità e il fatto che fosse riuscito a convincere suo padre a vivere in mezzo a loro era certamente un miracolo.

Ciò non significava, tuttavia, che i primi giorni (o forse erano settimane? Non si ricordava tanto bene) fossero stai facili.

Ci volle un po’ per abituarsi a vivere in mezzo agli umani come uno di loro, ma alla fine si era abituato.

Ciò non significava che, anche se abituato, ci fossero giorni in cui pareva che stesse tornando alle prime volte in cui visse in mezzo a loro.

Con paura e tristezza nel suo cuore.

Questo era uno di quei giorni.

A quell’ora solitamente Dz dormiva come ogni abitante del villaggio, ma non ci riusciva.

Non con quel peso sullo stomaco e sul petto che gli impediva quasi di respirare.

Si trovava a terra, lacrime agli occhi e il respiro pesante mentre sul suo corpo iniziavano ad apparire dettagli della sua forma Kaiju, come alcune scaglie che gli stavano apparando sul volto o le braccia, le unghie e i denti che iniziavano a trasformarsi rispettivamente in artigli e denti affilati.

Come già detto non si pentiva affatto di aver deciso di vivere in mezzo agli umani.

Ma in momenti come questi si chiedeva se avesse fatto la scelta giusta.

Gli piaceva il suo corpo umano, la sua trasformazione umana ma il restare così tanto tempo in essa era una strana sensazione.

Alcune volte quasi brutta.

Delle volte si guardava allo specchio e non si riconosceva.

Delle volte il solo guardarsi allo specchio con quel travestimento gli faceva quasi venire voglia di piangere.

Delle volte quello stesso corpo pareva una prigione.

Nei tempi antichi i Kaiju usavano la loro abilità del trasformarsi in umani per visitare l’umanità stessa, ma non rimanevano troppo temo così, ritornando poi nella loro forma originale di Kaiju.

Dz aveva ormai superato il record di più tempo passato nella sua trasformazione umana, e non sapeva se era una cosa buona.

Alcune volte ritornava nella sua forma Kaiju per nuotare nelle profondità marine dell’oceano per interrompere la sua ormai routine di essere un umano, ma non bastava.

I suoi istinti Kaiju gli gridavano in testa di abbandonare l’isola, abbandonare l’idea di vivere come un umano, di ritornare un Kaiju e vivere come esso.

Di ritornare a casa.

Dz si mise le mani in testa, tirandosi i capelli mentre le lacrime gli scendevano dagli occhi.

Sentì gli artigli graffiargli la testa.

Bene.

Il dolore avrebbe fatto tacere quelle voci insistenti.

‘Zitto, zitto, zitto, non voglio ascoltarti, sono contento qui, sono contento con gli umani, non voglio tornare, non voglio tornare, zittozittozittozittozittozitto!’

Dz si ripeteva sempre queste parole quando i suoi istinti cominciavano a fare capolino nella sua mente, sperando che il dolore e il suono della sua stessa voce potessero metterli a tacere.

A volte funzionava.

Altre volte no.

Gli umani, a quanto dicono, solitamente vanno a parlare con altri umani quando hanno dei problemi, quando si sentono sopraffatti dai loro stessi pensieri negativi.

Questa cosa, a detta loro, aiuta.

Dz avrebbe tanto seguire quel tipo di consiglio.

Ma non poteva farlo.

Non poteva andare a dire a qualche umano dei pensieri che in momenti come questi lo tormentavano.

Non gli avrebbero creduto e se lo avessero fatto il suo segreto sarebbe venuto a galla.

Era una situazione in cui non potevano riporre rimedio.

Suo padre forse?

Poteva parlargliene.

Ma aveva troppa paura di farlo.

Non perché aveva paura di ciò che avrebbe detto suo padre, anzi, lui lo avrebbe certamente ascoltato e aiutato con tutto ciò che aveva in suo potere.

Semplicemente aveva paura di non sapere cosa dire.

Voleva bene a suo padre, gli voleva troppo bene.

Ma dopo ciò che era successo a sua madre e Anguirus il rapporto tra i due era diventato fin troppo complicato.

Da quel giorno non era mai riuscito dire nulla a suo padre.

Mai.

Si era sempre tenuto dentro e faceva male, così tanto male.

Male come ciò che stava provando in quel momento.

Voleva che smettesse di fare così male, voleva che smettesse, basta basta basta bara basta.

Non si era neanche reso conto di essere entrato in bagno.

Si guardò allo specchio.

Oramai le lacrime scendevano come cascate dai suoi occhi ora ritornati arancioni, la pelle del viso piena di scaglie blu.

Eccolo lì.

Quel volto così famigliare ma allo stesso tempo sconosciuto.

Il suo guardarlo lo faceva stare ancora più male.

‘Smettila di guardarmi.’

Continuava a fissare lo specchio.

‘Ho detto smettila.’

Tuttavia continuava.

‘Smettila ho detto, ti prego, ti prego, ti prego.’

Continuava imperterrito.

‘Ho detto SMETTILA!’.

Non si rese conto che quell’ultima parola sembrò un ruggito.

Diede un pugno allo specchio, rompendolo.

Sentì i pezzi di vetro entrargli nelle nocche.

Sentì un mero pizzico.

Cadde nuovamente al suolo singhiozzando.

Qui a Sado si era fatto degli amici: la signora Kimura, Akio, Chikao.

Là fuori, da qualche parte nel mondo, aveva suo padre.

Eppure non poteva o non riusciva a parlare con nessuno di loro.

Per quanto avesse loro Dz non si era mai sentito così solo al mondo.

Solo, imprigionato nel suo stesso corpo.

Una prigione di sua creazione.

   
 
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