Everything’s
changing,
but…
nothing will really change.
01.
zucchero
«È la solita mattinata qui a
Springfield, il sole splende nel cielo, l’autunno colora le strade e i parchi
di accesi toni arancio e ocra, per poi stendere un manto di calore sul… ma chi
ha scritto queste stronzate? Licenziate immediatamente quel mentecatto, mi
rifiuto di continuare a leggere il copione. No, no tizio qualunque, tu adesso
te ne vai e mi lasci fare il mio lavoro, perché sono io qui a mandare avanti la
barac-… ehi, rispetto, ti mando a gestire il meteo
alle due di notte su Canale 6 se non la fai finita, ti declasso, ti… ti…! Ah,
non vale neanche la pena discutere con voi. Qui è Springfield, la solita,
noiosa cittadina dove non succede mai niente, niente di niente. Se volete
qualcosa di cui parlare andate al Jet Market alla solita rapina del giovedì,
dove anche il tentato furto è una routine dimenticabile. E da Kent Brockman è
tutto. Io giuro che stavolta mi incazzo. Ma come? State ancora registrando?
Chiudete, chiudete!»
Il noto conduttore televisivo sbatté violentemente la porta del furgone della emittente
televisiva, facendolo cigolare sulle sospensioni di qualche anno di troppo;
detestava quel rumore, accompagnava ogni sua uscita, ogni patetico giorno sulle
strade di Springfield. I tempi dedicati al suo lavoro li stava contando sulle
dita ogni volta di più, anno dopo anno, rendendosi conto di fare parte sempre e
comunque della stessa, anonima fetta di mondo chiamata “nulla”. Addio ai grandi
propositi di gioventù, all’idea di una gavetta di passaggio per poi approdare
su canali importanti, più di quello a cui stava dando tutto. Insomma, troppe
primavere dedicate a un avanzamento di carriera fermatosi alla scrivania del
Canale 6. Il pugno non ammaccò la carrozzeria, anche se l’uomo avrebbe voluto
volentieri distruggerla a mani nude, assieme alla frustrazione che gli aveva
mangiato il fegato e l’equilibrio del sonno. Pensò spesso di cambiare lo slogan
di chiusura delle sue interviste con “e dal niente, è tutto.” Suonava però
troppo strano, e aveva rinunciato pure a quello. Nemmeno i copioni dei
programmi se li scriveva più da solo, avvalendosi di una schiera di giovani
talentuosi, a detta dell’agenzia interinale, che avrebbero fatto tutto per lui
con la scusa di un apprendistato ben poco retribuito; sorrise amaramente nel
constatare quanto quel sistema stesse facendo schifo sotto tutti i punti di
vista, ma chi era lui per poter cambiare, e contribuire a far cambiare le cose?
Estrasse una sigaretta dall’immancabile pacchetto di Laramie, un gesto lento e
abituale, una amicizia di lunga data.
Il fumo un compagno obbligato di scarica tensiva.
La soddisfazione di qualche minuto.
E al diavolo i polmoni.
«Oh, non immaginavo affatto di incontrarla qui, signor Brockman. Qual buon
vento la porta dalle parti di Evergreen Terrace?»
Una voce poco familiare distrusse il piccolo momento di quiete del reporter,
irritandolo ancor più del precedente fiasco della giornata lavorativa. I suoi
benedetti dieci minuti erano sfumati nel nulla lasciando solo del catrame nel
petto e un odore acre addosso. Sapeva di aver già visto quella donna, in più
occasioni: ne era certo, non ricordava esattamente di chi si trattasse, in
fondo di volti ne aveva incontrati così tanti che distinguerli e ricordarli
tutti sarebbe stato impossibile. Eppure… quella capigliatura così particolare avrebbe
dovuto archiviarla sicuramente: onde ricce blu, raccolte verso l’alto. Un blu
innaturale, sicuramente frutto di una tinta selvaggia a coprire alcune
sfumature grigie che si intravedevano ai lati delle tempie. Una gradevole
cinquantenne certo, ma lo sguardo, quello pareva spento, stanco.
Smettila, Kent. Non psicanalizzare tutto e tutti, o farai la solita figura di
merda.
Qualcosa in lei gli stava dicendo di darle un po’ di attenzione.
Un cenno forse, o una parola.
Attenzione, appunto.
«Buongiorno, signora.»
Perché no, forse una volta tanto sarebbe uscito da quella bolla di egoismo e
autocommiserazione, e avrebbe fatto qualcosa per qualcun altro.
«Immagino non si ricordi di me, beh, certo che no. Come potrebbe? In fondo,
conosce così tante persone che una come me passerebbe nell’anonimato.»
Un modo strano di esordire, quasi imbarazzante, quello di Marge Simpson: la sua
capacità di non filtrare più molto bene le parole createsi nella sua testa le
stava dando filo da torcere, accostata alla logorrea selettiva che non era in
grado di controllare granché. Si massaggiò le braccia con dita intirizzite,
quel pomeriggio l’aria era particolarmente fredda. Avrebbe voluto abbottonare
la giacchetta coprendosi maggiormente, ma le pareva un gesto di scortesia nei
confronti di un elemento importante, proprio lì, sul marciapiede di una anonima
zona residenziale springfieldiana. Fece finta di
nulla scostando lo sguardo: “non guardare mai nessuno negli occhi se non hai
confidenza, Marjorie Jacqueline Bouvier. Ricorda i
consigli di mamma.”
Kent si prese qualche secondo per osservarla: se avesse steso con le dita le
rughe attorno agli occhi e alle labbra sottili, svestendola di un poco e
ringiovanendola con un trucco leggero e perché no, una capigliatura diversa,
l’avrebbe resa forse più attraente, ma si rese conto di aver concepito un’idea
inadeguata e particolarmente stupida. Le sue iridi si fermarono un momento di
troppo sul collo magro nascosto in parte dal colletto della camicia azzurra.
Smettila, sei patetico. Sì e no la conosci, cosa ti passa per la testa?
Giusto, quel pensiero insistente di conoscerla senza averla ancora riconosciuta
premeva contro le tempie, spingendo per uscire.
«Senta, non è ch-»
«Mi scusi, potremm-»
I due si interruppero a vicenda e sorrisero nel farlo.
L’aria parve più leggera, di poco, sufficiente a mostrare a entrambi quanto la
stessero facendo difficile.
Lasciala stare, Brockman. Sarà sposata, avrà qualche pargolo al seguito.
«Continui pure, signor Kent. Non volevo interromperla.» Il lieve rossore sul
volto della donna tradiva una certa curiosità in quell’incontro inaspettato,
fuori luogo e a tratti incredibile. Lei, una Marge qualunque, stava parlando
con una persona che lavorava alla televisione. Senza danni, senza problemi,
senza l’immancabile presenza del marito a dare spettacolo.
Un pessimo spettacolo.
Sospirò lei, rimangiandosi le poche parole che era riuscita a esprimere prima
di fermare la voce. Avrebbe volentieri passato ancora qualche minuto in presenza
dell’uomo, ne aveva di domande da esporre, altroché! Nelle mattine di
solitudine guardava spesso la televisione, tra una pulizia convulsa e il
pensiero dei ragazzi a scuola (non tanto il primo, ma la più piccola… una
adolescente che non ne voleva sapere di sottostare alle regole), e fantasticava
sul poter parlare con qualcuno dei personaggi che si intervallavano alla
pubblicità snervante.
E così fu. Soltanto che in quel momento scomparve ogni singola traccia di spavalderia:
averne uno di fronte era tutta un’altra cosa.
«Le andrebbe di andare a prendere un caffè?»
«Come, scusi?» Marge sorrise isterica: Kent Brockman la stava invitando sul
serio a passare del tempo con lei? Incredula. E improvvisamente silenziosa.
«Io? Una come me?» Coprì le labbra con le dita, mostrando inequivocabilmente –
o forse come un muro di difesa – la vera all’anulare sinistro, un anello che
negli ultimi anni aveva stretto la circonferenza sul dito sottile. Di più,
sempre di più.
«Una come lei, esatto. Con chi ho l’onore?»
«Simpson, sono Marge Simpson.»
Marge si guardò attorno stupita: il locale era piccolo, confortevole, poco
frequentato. Una viuzza laterale al centro, un angolo di quiete nella vita
cittadina di ottobre. Le pareti bianche davano modo ai colori dell’arredo di
spiccare. “È più bello di casa mia, qui…” pensò, innamorandosi delle rifiniture
ricercate, dell’illuminazione, dello stile. Si sentì fuori luogo, un disagio
insinuatosi nel petto e all’interno dei vasi sanguigni, divertendosi a
disturbarla con un cinismo acuto e veritiero: “non potrai mai permetterti un
posto simile, rassegnati.”
Lei, infatti, s’era rassegnata già da tempo.
Si strinse nella giacca, aggrappandosi alla consapevolezza di una vita sola,
quella che aveva scelto di seguire più di venti anni prima. Si fece più piccola
sulla comoda seduta, realizzando d’aver sbagliato ad accettare l’invito da chi
di lei non conosceva assolutamente nulla. L’imbarazzo le si incollò ai nervi,
portandola a tremare leggermente tenendo stretta la tazzina di caffè raffinato.
Buono.
Amaro, ma buono.
Davvero, non ne aveva mai assaggiato uno così.
«Lo beve senza zucchero, Marge?»
«N-no, no. Ora lo metto.» Allungò il braccio a raccogliere la bustina al centro
del tavolino in stile, delicatamente laccato. Non beveva mai caffè amaro, ma la
soggezione era tanta che anche un semplice gesto come quello le pesava. Ma ora,
effettivamente, il caffè era ancor più di suo gusto.
«Spero di non averla sconvolta oggi, così, su due piedi. Potrebbe sembrare
strano, ma sono convinta di conoscerla già.»
«Pure io», rispose rapida, recuperando con un ovvio «ma mi sembra normale, la
guardo tutti i giorni al notiziario. Che stupida, mi scusi.» Ed eccola, a
chiedere di nuovo scusa per una stupidaggine. Come sempre.
«Non si preoccupi. Perché dovrebbe scusarsi per una cosa simile? La prego, non
si dia della stupida. Non lo è. Anzi.» Non avrebbe dovuto sbilanciarsi Kent, ma
Marjorie era così palese nelle sue dimostrazioni,
nelle reazioni, che le pareva una creatura gracile e spaventata. Di cosa poi?
Non sapeva ancora, e forse sarebbe stato meglio non indagare nemmeno.
Parlarono di poco e di tutto, non solo del più e del meno: di come fosse
cambiata Springfield, di quanto i vecchi amici erano in realtà ormai accasati,
o divorziati – già più semplice – e di quanto una volta fosse tutto più facile.
Alcuni eventi cittadini a cui avevano partecipato entrambi furono aneddoti atti
ad alleggerire l’umore pesante del cuore della donna, oramai rilassata. Rise
pure, dimenticandosi di sé e di una sensazione familiarmente nera nella gabbia
toracica. Un orologio biologico dalle lancette dolorose la stava avvertendo di
dover tornare a casa, ormai i ragazzi sarebbero arrivati a momenti, e con loro…
«Marge? Mi sente? Tutto bene?»
Suo marito sarebbe tornato a breve da lavoro, scaricando su di lei
frustrazione, vomitandole addosso quanto si stesse sentendo inutile e
sottopagato, sottostimato, sottovalutato. Oramai parlavano soltanto di
problemi, dei suoi problemi.
I problemi di Homer Jay Simpson.
E addio Marge.
«Se è per qualcosa che ho detto…» Kent parve rabbuiarsi, credendosi l’artefice
di quella nebbia che era scesa sugli occhi di lei. Si allungò per sfiorarla,
tentando forse di riportarla al presente, una realtà da cui si era estraniata
per qualche secondo.
Un cellulare suonò, insistente, strillante, alto. Spezzò tutto: dalla
tranquillità di quel pomeriggio nuvoloso, alle chiacchiere che ormai avevano
preso una piega leggera e un ritmo piacevole. Spezzò quei momenti di Marge,
solo di Marge, solo per lei… li strappò gettandoli nel cestino della coscienza
della donna, dove più volte aveva cercato di incastrarci tutti i brutti
ricordi, le esperienze orribili, lo schifo che si era trascinata dietro per
tutti quegli anni.
Kent la guardò, Marge ricambiò, affranta.
«Dimmi, papi.»
E lì Brockman ricordò, come avesse ricevuto un calcio alle costole tanto ben
assestato da scaraventarlo sul pavimento: era lei, Simpson, la moglie del pazzo
che aveva malauguratamente dato fuoco a un appartamentino in periferia.
Simpson, il suo primo reportage sul posto, il primo lavoro da dipendente del
Canale 6.
Marge Simpson, la donna che gridava terrorizzata, trattenuta dai volontari dei
Vigili del Fuoco, mentre vedeva le fiamme divorarle tutto quello che aveva.
Sogni, libri, progetti, un piccolo affitto dal lavoro alternato al primo anno
di college.
Tutto in cenere.
E Kent si sentì schiacciare.
Era lei. Erano le sue lacrime quelle che aveva visto, le sue grida, i gemiti e
le ginocchia sull’asfalto bagnato mentre la palazzina veniva messa in sicurezza
dagli organi competenti.
Sapeva di averla già vista, ma non avrebbe mai pensato di ricordarla attraverso
due occhi spaventati e una sola parola: “papi”.