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Autore: Maddy_pasii    06/10/2022    2 recensioni
Senza più alcun motivo per continuare a vivere, piegata dall'odio per se stessa e per le sue azioni, Clarke viene catturata e portata alla Torre.
(Trigger Warning; pensieri suicidi)
Clexa
Canon Divergence 3x01
Genere: Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Le fa venire il voltastomaco. Pensare al timbro della sua voce quando parla ai suoi sottoposti.

Il modo in cui accentua il suo nome in Trigedaslang, assaporandolo sulla lingua come il più prelibato tra le pietanze. La sua mascella tagliente, la vernice nera che le dipinge gli zigomi.

Obbliga Clarke a stringere le mani fino a sentire le unghie tagliarle la pelle, i denti che minacciano di cedere e sgretolarsi in polvere.

(Non pensa alle sue labbra, alla delicatezza con cui lambirono le sue stesse nell'accampamento terrestre, lasciandole in un groviglio di emozioni nascoste soltanto dal tessuto della tenda che le circondava.)

Il petto di Clarke si strinse dolorosamente quando la rivide dopo così tanti giorni passati nelle profondità della foresta. I suoi vestiti sgualciti, le ferite e le cicatrici sul suo corpo non erano altro che un costante promemoria di tutto il tempo passato a crogiolarsi nel proprio dolore, nella colpa, nella miseria e nella vergogna per le azioni che aveva compiuto. Paradossalmente, lo stesso motivo per cui sua mamma respirava ancora, era adesso anche il motivo per cui non voleva altro che infilarsi una lametta nei polsi e farla finita.

Quel giorno, però, la luce splendeva più luminosa che mai dietro l'imponente trono intagliato in legno.

Quando la figura davanti ad esso uscì dalla penombra, Clarke smise di respirare.

Colei che perseguitava ogni suo minuto di veglia, che tormentava ogni suo minuto di sonno, le si ergeva incombente e pericolosa davanti.

Servirono pochi secondi per capire che stava parlando. Forse al rapitore alle sue spalle. Forse alla stessa Clarke. Ma le sue orecchie erano diventate dei muri spessi, e la sua mente non aveva più energie da sprecare nell’abbatterli.

In ginocchio, Clarke aspettava in silenzio che il suo aguzzino eseguisse finalmente la sua condanna.

Quando la raggiunse, Clarke chiuse gli occhi in anticipazione.

“Mi dispiace che sia dovuta andare così, Clarke”

Lexa sarebbe stata la sua giudice, giuria e carnefice. Colei che le aveva forzato la mano, obbligandola a strappare migliaia di vite innocenti, ora avrebbe rivendicato la sua.

Clarke trattenne il fiato. Immaginò l’aria tremare sotto il peso della mannaia che veniva sollevata sopra il suo capo.

“Ho bisogno di te, Clarke”

Veloce e chirurgica, l’ascia cadde.

 

********************

 

Per i primi giorni nella torre, Clarke rimane a strisciare sotto la pila di pellicce e coperte nel letto nella sua stanza.

Nella spregevole speranza che se si fosse sforzata abbastanza, il letto l'avrebbe risucchiata e lei avrebbe potuto dimenticarsi della sua stessa esistenza, e così avrebbe fatto anche il resto del mondo.

Scomparire in quel modo dalla faccia della terra, però, era un lusso che non si meritava. Lo sapeva bene.

Non si sorprese quando poco tempo dopo aprì gli occhi solo per ritrovarsi ancora in quel letto troppo grande per il suo corpo minuto e in un pasticcio febbricitante e tremante nel sudore.

Clarke rifiuta di mangiare, così come di prendere qualsiasi medicinale le vogliano fornire.

Quando i terrestri le si avvicinano per parlare, lei non ascolta. Ogni parola è una scheggia di vetro nella sua testa, un dolore lancinante dietro alle palpebre che le rende difficile respirare.

Sa che sono preoccupati, può sentire la tensione accumularsi nell'aria ogni volta che cercano in lei una reazione senza mai raggiungere dei risultati.

Clarke è malata e la situazione non migliorerà se non si decide a collaborare. Questo la dovrebbe incoraggiare.

In realtà, fa l'esatto opposto.

 

*******************

 

Indifferente alle sofferenze del mondo come solo una stella può essere, il sole sorge e cade oltre l'orizzonte con la stessa velocità con cui le foglie tremolanti lasciano gli alberi in autunno. Doveva essere il sesto, forse settimo giorno di prigionia da quando Roan l’aveva venduta a palazzo come niente più che un premio di guerra.

Sembrava passata un’eternità, al tempo stesso solo ore.

Alternando tra coscienza e incoscienza, Clarke non poteva dire con esattezza cosa succedeva intorno a lei.

Indovinando, sapeva che la nausea nel suo stomaco era peggiorata, e che a furia di rigettare succhi gastrici, la sua gola si sarebbe bruciata. Sapeva che il calore nel suo corpo era innaturale ma sicuramente preferito rispetto al gelo che le spaccava le ossa e ghiacciava i polmoni. Sapeva che sarebbe dovuto essere allarmante lo sfinimento che provava dopo tutti quei giorni a letto. E che sarebbe dovuto essere ancora più allarmante quanto poco le interessasse tutto ciò. Ma ehi, non era come se sua madre fosse lì per rimproverarla, giusto?

Soppresse un brivido al pensiero e si girò sul fianco sinistro, cercando riposo.

I cardini della porta cigolarono all'entrata di qualcuno nella stanza.

Passi leggeri e misurati si fecero strada sul pavimento in legno, e con una tranquillità data solo dall’abitudine, si fermarono proprio accanto al suo letto.

Abbastanza vicina da poter essere toccata dal palmo di una mano, ma abbastanza distante da assicurare qualsiasi libertà di movimento.

Clarke rimase immobile nel suo bozzolo di coperte, negando qualsiasi riconoscimento della presenza.

(Finge di non sentire il calore di due grandi pozzi verdi scaldarle le guance, né il tocco soffice e vellutato di dei polpastrelli attraversarle le ciocche e accarezzarle la fronte, bollente e madida di sudore.)

Poi, puntuale come un orologio svizzero, quando i sospiri diventavano un po troppo umidi e un po troppo veloci per appartenere allo spietato Comandante in persona, i passi inciampavano un po più lontani, un po più distanti dal disastro che minacciava di riversarsi su di loro.

Infine, con una precisione meticolosa:

“Mi è stato riferito che continui a non mangiare i tuoi pasti, Clarke.” annunciava ogni volta, nascondendo il tremolio della voce dietro a un’autorevolezza forzata.

“E per l'ennesima volta, ostinandoti a far buttare tutti gli infusi al sambuco per la febbre che ricevi, potresti finire per non riceverne più.” diceva, perfettamente consapevole della vuotezza della minaccia.

Poi, con quello che Clarke presumeva un sottile gesto di mano, le ancelle nella stanza sollevavano i vassoi intoccati accanto al suo letto e ne sostituivano dei nuovi, traboccanti di profumi e sapori che avrebbero fatto invidia al mondo intero. Successivamente, le giovani donne avrebbero lasciato la stanza e chiuso la porta dietro di loro.

Ed era allora che sarebbero state realmente sole. Era allora che iniziava la vera sfida.

In un solo gesto, Lexa slacciò il pesante mantello sulle sue spalle, prendendosi il tempo di sentirlo scivolare sulla schiena e cadere ai suoi piedi, provocando un leggero tonfo.

Clarke non osava guardarla, ma quasi giurava di poter vedere la ragazza camminare abbattuta verso il suo letto. Immaginava le sue spalle leggermente piegate, incurvate sotto un peso che andava ben oltre il mantello sul pavimento. La immaginava passarsi stancamente una mano tra i capelli, liberando qualche ciocca selvaggia dalla sua acconciatura altrimenti impeccabile. Il cuore di Clarke si strinse nel suo petto quando sentì la ragazza sedersi ai suoi piedi sul materasso. Le ci volle uno sforzo considerevole per impedirsi di ritrarsi.

Ci fu un sospiro. Poi: “Clarke”

Silenzio.

“Come ti senti oggi?”

Il groviglio di lenzuola non si mosse.

“Non stai prendendo le medicine. Senza nemmeno mangiare, il tuo corpo non guarirà.”

Clarke non era stupida, non serviva essere la figlia di un medico per sapere cosa le stava succedendo.

La malnutrizione nella foresta, le ferite dalla cattura di Roan e la stanchezza non solo fisica che l’accompagnava da mesi avrebbero dovuto suggerirle i rischi a cui si sottoponeva ogni giorno sulla terra.

Nulla a che vedere con la realtà sterile e asettica in cui era cresciuta su quell’agglomerato di ferro orbitante.

Aveva scommesso e puntato tutto, e alla fine il suo corpo era caduto in malattia. Le andava bene così. Fino alla fine, lei aveva giocato secondo le sue regole.

“Clarke” Il suo nome uscì dalle labbra della ragazza così debolmente che Clarke quasi lo perse. C’era qualcosa che non aveva mai sentito nel suo tono prima d’ora. Qualcosa che le ghiacciò le ossa di un gelo diverso dalla malattia che germogliava nel suo corpo.

Il peso sul letto si spostò un po più vicino. Le lenzuola frusciarono tranquillamente al movimento.

Poi, dopo alcuni secondi di silenzio, il tocco fantasma di due polpastrelli tornò sulla sua fronte, attraversandole timidamente le ciocche e tracciandole i lineamenti del viso.

La sua pelle scottava sotto al tocco gentile e per la prima volta Clarke era grata per la temperatura del suo corpo, grata di poter incolpare qualcosa di diverso da se stessa.

Raccogliendo una ciocca tra le dita, la mano affusolata tracciò con cura il suo zigomo, solleticò la mascella e si fermò proprio dietro il suo orecchio, sistemandovi i boccoli biondi con attenzione.

L’intimità dell’azione le fece bruciare gli occhi, delle lacrime calde nascoste soltanto dalle sue palpebre strettamente chiuse. Il peso sul letto si spostò di nuovo e Clarke dovette fare uno sforzo immane per impedirsi di sussultare. In pochi attimi, il viso di Lexa era così vicino da poterne sentire il respiro caldo e irregolare sulla sua stessa guancia.

Avvertì le sue labbra sfiorarle la guancia arrossata e solleticarle l’orecchio, dove vi indugiarono attentamente.

“Morire in questo modo, non importa quanto ardentemente tu possa desiderarlo, non cambierà quello che è successo.” Sussurrò tremante.

“Il mondo andrà avanti, Clarke, come se noi non ne avessimo nemmeno fatto parte." Le respirò poi nell'orecchio, una confessione tanto dolorosa quanto liberatoria, una manciata di parole che frantumarono il suo cuore in mille pezzi e ne ricomposero i cocci, adornando le cicatrici insieme a lacca preziosa e rifiniture in polvere d'oro.

"Vivi, Clarke. Non sei stata tu a dirmelo?..

Non ci meritiamo di meglio..?"

Cedendo ai singhiozzi silenziosi che minacciavano di strapparle il petto, Clarke spinse via la ragazza su di lei con tutta la forza rimasta in corpo, sentendola inciampare a ritroso.

Quando aprì gli occhi per cogliere la figura, tutto ciò che intravide fu il luccichio di un paio di occhi color rugiada in tempesta.

Con un battito di ciglia, la ragazza era sparita.

 

********************

 

Passarono tre giorni. Clarke era rimasta così inquietantemente scossa dall' incontro con Lexa che anche la sua salute sembrava averne risentito. Camminare sul filo sottile che separava la vita dalla morte non era mai stato così semplice. Così comodo. Invitante.

Ma lei non era mai stata una da scegliere la via più semplice.

Era una Griffin, alla fine. E anche dopo tutto quel tempo, dopo tutto quello che era successo, il pensiero di suo padre, di essere figlia di un uomo così meraviglioso come lo era stato lui, le riempiva il cuore di amore e i polmoni pieni di orgoglio. Scoprì che respirare sembrava più facile, col suo viso ei suoi sorrisi tra i pensieri.

E Dio l'avesse maledetta se avesse provato ad arrendersi. Se non per se stessa, avrebbe continuato a lottare per suo padre. L'uomo più importante della sua vita. L'uomo per cui avrebbe scambiato la propria se avesse significato restituirla a lui. Colui che era stato il suo intero universo, stelle e pianeti insieme.

 

Quella mattina, Clarke aprì gli occhi con una innata speranza nel petto.

Poteva dire che il sole stava sorgendo più luminoso di quanto non avesse mai fatto. La luce filtrava tra le tende, donando alla stanza un alone quasi fiabesco.

Con le finestre spalancate, una brezza leggera faceva capolino sul suo letto. Offrendole solo un assaggio di ciò che avrebbe potuto avere. Solo un assaggio di ciò che il mondo aveva ancora da offrirle.

I suoi pensieri erano sfumati dal battito del suo cuore vivo e pulsante nella sua cassa toracica.

Fu questione di un attimo, un impulso di un momento, un sovraccarico di sangue al cervello ciò che la fece alzare e buttarsi sul piatto colmo di cibo accanto al letto.

Una sensazione che non aveva mai provato prima guidava i suoi movimenti. Qualcosa di più forte dell'istinto di sopravvivenza. Più profondo. Viscerale.

Bevve in pochi sorsi lo stesso infuso al sambuco su cui Lexa aveva blaterato giorni prima. Il sapore aspro ma delicato le si attaccò al palato. Arrivato il momento, scese dal letto.

Stare in piedi sulle proprie gambe dopo così tanto tempo era un diverso tipo di gioia. Camminare con passi traballanti ma traboccanti di fiducia verso la finestra era ancora meglio. Spostò le tende con un movimento deciso e venne accolta dal terrazzo della torre.

Da quell'altezza, Clarke rimase a boccheggiare senza parole alla vista della Capitale.

Delle mura sorgevano all'orizzonte, delineando il confine tra la città e l'enorme foresta che sembrava espandersi senza limiti per le migliaia di acri di territorio a venire.

Il sole nascente dietro agli alberi preannunciava timidamente una bella giornata.

Una folata di vento le accarezzò il viso, scompigliande i capelli e facendole chiudere gli occhi in beatitudine.

Sembrava passata un'eternità dall'ultima volta che aveva sentito la brezza delle prime luci del giorno sulla sua pelle, con la testa leggera e il cuore ancor di più.

Si chiese brevemente se l'avessero drogata. O se stesse sognando. Per un momento agghiacciante valutò anche la possibilità di essere già morta. Ma tutto intorno a lei era così reale, così pulsante di vita che se fosse stata tutta un'allucinazione, Clarke avrebbe dovuto congratularsi con il suo cervello per l'ottimo lavoro. Qualunque cosa fosse, Clarke scoprì che non le importava.

Non si preoccupò di aprire gli occhi quando sentì la porta cigolare dietro di lei. Né di voltarsi quando dei passi preoccupati si precipitarono sul pavimento in legno, incespicando poi sul suo stesso terrazzo.

Rimase immobile quando il vassoio in ferro scivolò dalle mani della ragazza a pochi metri da lei schiantandosi sul pavimento con un clangore metallico. Clarke sentì il suo nome balbettato, seguito da un sospiro affannoso e un forte deglutire. Subito dopo, i passi scattarono verso di lei.

Con il mento rivolto verso il cielo limpido, il viso bagnato dai raggi solari, e i capelli solleticati dalla brezza, Clarke permise alle braccia snelle di circondarla in un abbraccio da dietro. I centimetri tra loro scomparvero in un istante.

Lexa chinò la testa tre le sue scapole, nascondendo il viso tra i boccoli dorati. Per quanto cercasse rifugio nella sua schiena, non riuscì a nascondere del tutto il suono dei suoi singhiozzi spezzati, rendendo Clarke partecipe del suo dolore.

La presa si chiuse più stretta attorno a lei, un tentativo stesso di avvicinarla più di quanto la barriera fisica tra loro lo consentisse. Sfidando chiunque e qualunque cosa osasse ostacolarla. Le sue spalle iniziarono a tremare per gli spasmi a cui veniva sottoposto il suo corpo e Clarke quasi inciampò sui suoi stessi piedi al peso del bagaglio fisico e emotivo che veniva riversato su di lei.

Impiegò qualche secondo a capire che Lexa stava parlando. Le sue parole erano appena un sussurro sopra il vento, pronte a volare via con lui se non le avesse colte abbastanza in fretta. Lexa si stava scusando, mormorando i suoi più grandi rimpianti per ciò che aveva fatto, che se Clarke era in quelle condizioni era l’unica da incolpare, che non aveva il diritto di mancarle, non quando era stata lei la prima a non essere rimasta, sussurrava tra un singhiozzo e un ansimo che non aveva nessun diritto di chiederle se stava bene, non da quando l’aveva lasciata così confusa e ferita, e poi come se la sua voce fosse diventata vetro nella sua gola, graffiando e scheggiando tutto ciò che incontrava, le sussurrava con tormento che non aveva nessun diritto di amarla, non quando era stata lei a camminare via, lasciandola sola e tradita a lottare contro la morte stessa. Clarke meritava di essere messa al primo posto e lei non aveva nessun diritto di amarla, nessun diritto,continuava a ripetere. Non ne aveva proprio alcun diritto ma lo aveva fatto comunque, e lo faceva ancora. L’ha amata e l'amava ancora. L’amava ancora. Ripeteva. E ancora. E ancora.

Clarke non riuscì a sentire una parola di più. Toccando gli avambracci attorno a lei si scostò dalla presa, solo per girarsi con il viso rivolto verso quello della ragazza che minacciava di spezzarsi da un momento all’altro tra le sue braccia. Era troppo da gestire, anche per lei, quindi fece quello che le venne più naturale. Spostò gran parte del peso della ragazza sulle sue braccia, accarezzando i riccioli castani con una mano e sostenendola per la vita con l’altra. Accompagnò il viso rigato dalle lacrime nel suo petto e prese fiato.

“Shh..Respira, Lexa.. Andrà tutto bene,starai bene…” Le sussurrò nell’orecchio.

 

“Staremo bene..Te lo prometto.”

 

Le hanno sempre insegnato che fare promesse che non poteva mantenere era sbagliato, ma, a sua discolpa, con il corpo della ragazza tra le braccia e il suo profumo impresso addosso, Clarke non poteva immaginare alcun finale diverso.

   
 
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