Attenzione: questa storia considera gli eventi accaduti nella 1x08. So che è passata quasi una settimana dall'uscita della puntata ma se non siete in pari con la serie, evitate di leggerla.
Uno sguardo che zittiva il mondo
Era
sempre stato così, tra loro, fin da quando ne aveva memoria.
Un
cercarsi continuo, un trovarsi per caso.
E
poi di nuovo sfuggire, distogliendo gli occhi e puntando lo sguardo
lontano, ignorando con forza quel leggero formicolio sottopelle e la
strana consapevolezza che quello non
doveva
esistere.
Sono
nemici,
soleva
ripetere sua madre, nella solitudine dei loro appartamenti,
angosciata per un trono accuminato e ambito che si faceva ogni giorno
più lontano, soprattutto da quando alcuni pettegolezzi erano
diventati sussurri più forti.
Jace
annuiva, concorde, perché lui e Aemond non avevano nulla da
spartire.
Non
si prova pietà per il nemico,
sosteneva
zio Daemon, cinico, sorridendo con un certo compiacimento per le
grida dei traditori che assaggiavano le fiamme di Caraxes.
Lo
si consegna al fuoco e lo si osserva bruciare.
Era
quello che imponeva il sangue valyriano che gli scorreva nelle vene,
i ruggiti di Vermax e l'ambizione di sua madre a indossare la tanto
agognata corona.
Era
quello che ci si aspettava da lui. Era suo dovere.
Non
certo l'empatia per un ostacolo.
E
allora perché uno sguardo di Aemond zittiva ogni cosa?
«Lo
guardi un po’ troppo spesso».
«Ti
sbagli, ser Harwin, è lui che guarda me».
Rideva
di gusto, sempre più forte, ignorando la sensazione pungente allo
stomaco e il pensiero che, in fondo, non fosse affatto divertente.
Solo
triste e patetico.
Così
come l’ideatore di quel piano, Aegon.
Perché
comportarsi da idiota era un ottimo modo per fingere di non vedere lo
sguardo umido e carico di desolazione che Aemond gli aveva rivolto
quando si era ritrovato davanti un maiale grasso e puzzolente.
Non
si prova pietà per il nemico. Lo si consegna al fuoco e lo si
osserva bruciare.
Strano
che fosse lui quello che si sentiva consumare per il senso di colpa.
«Non
è la fine del mondo».
«Lo
dici solo perché tu ce l'hai, un drago».
Erano
rapidi, spesso duravano il tempo di un battito di ciglia, ma c'erano
sempre.
E
allora le labbra di entrambi si piegavano con sollievo – la
consapevolezza di capirsi, di non essere soli –
o
amarezza – perché lui era destinato al trono e al cavalcare un
drago mentre l'altro sembrava condannato a osservare nell'ombra.
A
volte erano l'occasione per riprendere fiato e staccarsi da un mondo
opprimente, che sembrava schiacciarlo, per rifugiarsi in un altro,
privo di oscurità e dovere.
E
quello, il mondo silenzioso, era decisamente più confortevole,
sicuro e reale
di
quanto sarebbe mai potuto essere Westeros.
«Non
mi piace come ci ha guardato».
«Credo
volesse solo porgervi le sue condoglianze, Baela».
«Solo
tu vedi del buono in lui».
«Forse
perché mi prendo la briga di guardarlo».
«Che
hai detto?»
«Nulla
di importante».
Per
la prima volta, non riusciva nemmeno a farlo.
Se
ne stava in piedi, immobile accanto al fratello, mentre sua madre
combatteva la battaglia per lui, proteggendoli con forza dalle accuse
e cercando di piegare la situazione a suo vantaggio.
Solo
quando la parola bastardi
era
riecheggiato
nella sala, Jace si costrinse ad alzare le iridi dal pavimento e spiare
oltre la manica del vestito scuro di sua madre.
Aemond
era seduto mollemente su una sedia di legno, il viso illuminato dalla
luce gialla e rossa delle fiaccole che tentavano di scacciare
l’oscurità della stanza.
Gli
si era stretto il petto in una morsa di puro panico quando l’aveva
scorta in quei lineamenti che conosceva. Era inorridito
nell’osservare quelle labbra piegarsi in un sorriso appena
accennato che sapeva di crudeltà.
Era
così che crollava un mondo.
Non
attraverso la furia, urla e ruggiti dei draghi o sanguinosi
combattimenti.
Lo
faceva in silenzio, frantumandosi inesorabilmente in pezzi e dandogli
la terribile sensazione di precipitare nel vuoto.
Rompendo
una complicità di sguardi data troppo per scontata.
Solo
la collera della regina e la sua daga affilata affamata di giustizia lo
avevano strappato da quello stato catatonico, facendolo ripiombare in
una realtà che gli sembrava così estranea.
Sbatteva
le ciglia ma continuava a non capire come fosse potuto finire così,
all’improvviso e senza nessuna avvisaglia.
In
realtà c’erano state ma le aveva ignorate, perché Rhaenyra
e Alicent
potevano
essere state spezzate ma loro erano entrambi fatti di fuoco e sangue.
E
se la fiamma poteva spegnersi, estinguersi sotto il peso di accuse e
rancori, il sangue continuava a scorrere vigoroso nelle vene di
entrambi, costringendoli a restare in vita e guardare.
«Non
piangere, madre» la consolò Aemond, pacato, attirando l’attenzione
di tutti mentre altro sangue – come il loro – gocciolava sul pavimento. «È
stato uno scambio equo» dichiarò flemmatico, mettendogli i brividi
per la praticità con cui considerava la faccenda. Finita.
«Avrò
anche perso un occhio… ma ho ottenuto un drago» concluse risoluto,
scoccandogli uno sguardo di ghiaccio che lo aveva atterrito, prima
di voltargli le spalle.
I
draghi non piangono,
lo
avrebbe rimproverato più tardi zio Daemon, asciutto, desideroso di accertarsi che lui e i suoi fratelli stessero dormendo nei loro letti, scoprendo quei singhiozzi celati al mondo dalle tende del baldacchino.
No,
i draghi piangono,
avrebbe
voluto rispondere Jace, se avesse avuto la voce per farlo, quando
si rendono conto di essere costretti alla solitudine.
«Sei
venuto a terminare il lavoro di tuo fratello?»
«Mi
avresti ucciso».
«Avrei
dovuto farlo prima. Mi chiedo solo perché questo ti sorprenda
tanto».
«Io
non lo avrei mai fatto».
«Lo
so, tu preferisci accecare con la sabbia piuttosto che con la lama.
Beh…
ti consiglio di imparare a farlo, Strong.
La
prossima volta che ci vedremo potresti averne bisogno».
Picchiò
con rabbia i pugni contro il tavolo di legno, balzando in piedi di
scatto.
Con il
capo chino e la mandibola serrata, ci mise qualche istante per
accorgersi del silenzio che aveva fatto calare nella stanza.
«Jace»
sussurrò Baela, con una chiara nota di panico nella voce suadente.
Eppure
non fu quello che lo riportò alla ragione, così come non fu l’espressione
di pura confusione sul viso di sua madre. Non fu neppure il sorriso tronfio di
Aegon, che aveva intravisto, a fargli capire quanto fosse stato
sciocco a cedere alla collera.
Fu
semplicemente il suo sguardo.
Aemond
si era alzato dalla sedia con naturalezza, come se non avesse fatto
caso alla tensione palpabile. Non aveva aperto bocca ma non era stato
necessario.
Perché
l’unico occhio che lo fissava era più eloquente di mille parole.
In
quell’iride chiara bruciava una consapevolezza che aveva riportato
a galla qualcosa che credeva scomparso nei meandri del tempo,
soffocato con la forza della disperazione.
Macerie di quello che erano stati, affilate come rasoi che sapevano
ancora tagliare la carne e far sanguinare.
Si perse per qualche istante in quello sguardo.
«Al
principe Aegon e al principe Aemond» esordì simulando allegria,
dopo essersi scrollato di dosso quel torpore che lo aveva
immobilizzato sul posto, la coppa dorata di vino stretta nella mano
destra, costringendosi a prendere parte alla farsa da guitti che
era diventata quella cena. «Non ci siamo visti per anni ma ho bei
ricordi della nostra giovinezza» continuò con lo stesso tono, mentre
la menzogna si mescolava con una verità che non aveva mai avuto il
coraggio di farsi udire. Ma era sempre stata lì, incastrata nella gola fino a ustionarla. «E come uomini, spero che potremmo essere
amici e alleati» si sforzò di dire, scollandosi dal palato quelle
parole e guardandolo dritto in faccia.
Perché
si faceva così con i draghi, li si prendeva di petto, senza
esitazione, e si attendeva con ansia e terrore la loro reazione.
Ci
si preparava a essere divorati o accettati.
Sconfitta
o vittoria, non esisteva una via di mezzo.
Ma
lo sguardo di Aemond che rifuggiva dal suo, che si puntava da
un’altra parte –
lontano,
perso chissà dove – e che aveva scelto un'altra strada, bruciava più
di qualsiasi dracarys.
«Non
ci sarà sempre tuo zio a salvarti».
«L’hai
voluta tu, questa guerra».
«O
forse sei stato tu a innescarla. Tuo fratello mi avrà anche
sfigurato
ma
è la tua, la mano, che gli ha permesso di farlo».
«Ed
è per questo che hai fatto di me il tuo nemico, Aemond?»
«Lo
sei sempre stato, Strong. Solo che non hai mai voluto vederlo».
Era
così che crollava un mondo.
Con
sguardi carichi di rabbiosa
e
gelida indifferenza, e con la brama feroce di annientare tutto.
Di
consegnarlo alle fiamme e ridurlo in cenere.
“Non era reale.”
“Era reale per me.”
The
Vampire Diaries
È
folle? Probabilmente sì, ma è da due puntate che questi mi
provocano.
Ho
fatto del mio meglio, mi sono sforzata di resistere dalla scena del
rinfresco del funerale (?), dove i disgraziati si sono scambiati uno sguardo che mi ha
stretto il cuore, continuando a ripetermi “no buono, no buono”.
Però
poi, durante la cena, quando Jace sta per svalvolare e Aemond si alza
e lo fissa, ho issato bandiera bianca e mi sono arresa.
E
io che pensavo di approdare nel fandom con una storia su Viserys!
Lo
so che è assurdo ma mi piacciono un sacco (anche se so che mi
faranno soffrire).
Credo
di dover fare un paio di precisazioni perché sospetto di essere stata un
po’ criptica.
Temo di essermi mossa a tentoni in un campo e un tempo narrativo che
non mi appartengono, e forse seguire i vari salti temporali della
serie non ha aiutato.
Ho
inserito la scena del maiale, nella quale immagino che poi
Jace e Aemond si saranno parlati, quella del casino
familiare
e
quella della cena. Ovviamente le battute che i ragazzi pronunciano nei blocchi narrativi sono prese dalle puntate della serie.
Quanto
a sguardi carichi di rabbiosa e gelida indifferenza mi
rendo conto che non abbia senso ma volevo sottolineare la differenza
di carattere tra Jace e Aemond. Forse è una licenza che non dovevo
prendermi ma, vabbè, l’ho fatto.
Sperando
di non essermi attirata addosso una montagna di verdura – che comunque,
visto il periodo, sarebbe ottima per un buon minestrone –, ci
vediamo alla prossima storia, forse,
Blue