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Autore: Nike90Wyatt    21/10/2022    0 recensioni
Milano, 2016. Marinette Dupain-Cheng vive la nuova realtà di studentessa dell’Accademia di Moda Bellerofonte per coronare il suo sogno di diventare un giorno una stilista di livello internazionale. Quella borsa studio ottenuta grazie al suo immenso talento è stata una vera benedizione del cielo. Ma la strada verso la gloria è frastagliata e irta di imprevisti e le certezze di Marinette, lontana dal sostegno dei suoi amici, iniziano a vacillare fino a crollare del tutto quando una minaccia tanto pericolosa quanto imprevedibile inizia a incombere su Milano. I poteri di Ladybug potrebbero non essere sufficienti per affrontarla; pertanto, Marinette dovrà ricorrere a tutto il suo coraggio e fare delle scelte che cambieranno per sempre la sua vita.
[Cover Credits: https://www.instagram.com/my_bagaboo_/]
Genere: Azione, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Marinette Dupain-Cheng/Ladybug, Nonna Gina, Tikki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nonna Gina soffia sulle candeline e le spegne.
Io, mamma e papà applaudiamo all’unisono, Leon ci fa eco abbaiando due volte.
«Auguri!» gridiamo in coro.
Papà afferra un coltello e taglia la torta. Prepara una porzione per ciascuno nei piattini di carta e li serve.
Tra i cannelloni ripieni della nonna e il pollo in agrodolce di mamma, ho lo stomaco stracolmo, sul punto di esplodere.
Ma non posso rinunciare al dolce di papà.
Ne prendo una forchettata e la porto alla bocca: la crema pasticciera alla vaniglia e la ganache al cioccolato danzano sulla lingua. Una bontà.
Batto le mani due volte, Leon saltella fino alla mia gamba e solleva la zampa destra.
Estraggo il savoiardo dalla fetta di torta e glielo lancio tra le fauci. Leon lo divora in un attimo e si lecca i baffi.
«È buonissima, papà.»
Papà si porta una mano al petto, solleva il mento e chiude gli occhi. «Solo il meglio per la mia famiglia.»
Mi spiace solo che il nonno non sia tra noi oggi. Lui odia viaggiare, soprattutto in quelle che definisce «diavolerie dell’era moderna» – che in realtà è lo startrain di Parigi. Si è limitato a fare gli auguri alla nonna via telefono, rifiutandosi di partecipare a una videochiamata.
Mamma si pulisce i lati della bocca con un tovagliolo. «Come procedono i tuoi disegni, Marinette?»
«Io e Sonia abbiamo deciso quale abito presentare, basandoci soprattutto sullo stereotipo di modello che lo indosserà.»
«Somiglia ad Adrien questo stereotipo?» Mamma sogghigna.
«No.» Sospiro. «È un modello italiano, abbastanza famoso a quanto dicono. Si chiama Alessio.»
Papà grugna. «L’importante è che questo Alessio si tenga lontano dalle stiliste.»
Addento un grosso boccone di torta e taccio. Meglio non sbandierare il fatto che il giorno stesso in cui ci siamo conosciuti, Alessio mi ha già offerto un passaggio a casa. Sulla sua auto. Da soli.
Nonna Gina dà un buffetto sul braccio di papà. «Non essere geloso. La nostra Marinetta dovrà pur ammirare i bei ragazzi, no?»
Affondo la testa nel piatto.
Mamma rincara la dose. «E io vorrei evitare di ritrovarmi di nuovo la casa impalata da una pianta rampicante che sale fino al cielo e un marito mannaro.»
«È stato un incidente,» borbotta papà. «Quel gattaccio presuntuoso ha preso in giro la mia bambina. L’ha illusa e poi delusa.»
«In realtà, tu hai costruito dal nulla un film in cui Marinette e Chat Noir sarebbero convolati a nozze.» Mamma beve un sorso d’acqua. «E hai finito con l’essere akumizzato.»
Papà sventola una mano. «È acqua passata, ormai. Ma comunque resto dell’idea che i ragazzi di oggi corrano un po’ troppo.»
«Ora assomigli a tuo padre.»
Finisco di mangiare la torta e mi alzo dalla sedia. Voglio defilarmi il prima possibile da questi discorsi. Non sono pronta per affrontarli, men che meno ora che l’immagine di Adrien inizia a farsi sfocata nella mia mente, mentre quella di Alessio si fa più nitida.
«Se non vi spiace, vorrei andare un po’ in camera a disegnare. Mi è appena venuta un’idea e vorrei subito approfittarne per metterla su carta.»
Nonna Gina soffia un bacio nella mia direzione. «Va’ pure, cara.»
«Vieni, Leon.»
Vado in camera e serro la porta.
Possibile che sia bastato un solo giorno, anzi pochi minuti al fianco di Alessio perché mi colpisse al punto da anteporsi ad Adrien?
Mi siedo a bordo letto. Forse Alya ha ragione quando dice che non esiste solo Adrien Agreste a questo mondo. E se basta così poco per rimpiazzarlo, significa che il mio amore per lui non era così solido come credevo.
Persino Luka per un attimo mi aveva fatto vacillare, ma avevo scacciato l’idea prima che si concretizzasse; ero troppo presa da Adrien, aggrappata ancora alla speranza che lui aveva rifiutato sia le attenzioni di Chloè sia quelle di Lila.
Ora però… Lui sta con Katami, e io sono lontana.
Afferro il cuscino e ci sbatto la faccia contro, affogando un gemito di frustrazione.
«Marinette.» La voce di Tikki giunge dalla mensola in alto. «Qualcosa non va? I tuoi stanno bene?»
Poso il cuscino sulle cosce. «Sì, fortunatamente.»
Tikki plana sul letto. «E allora cosa ti turba?»
«Pensieri di cuore.»
«Beh, almeno non sono pensieri su terroristi. Hai passato la notte in bianco a torturarti su un eventuale attentato alla stazione centrale.»
«Avevo buoni motivi, Tikki. Quella gente è pericolosa.»
Dopo aver fatto esplodere quell’auto in un parcheggio – fortunatamente deserto – i Satiri hanno sparato dei colpi di mitra sul muro del Teatro alla Scala e gettato due molotov contro le volanti della polizia.
Stanno dando prova che i loro non sono semplici avvertimenti.
«Il sindaco dovrebbe fare qualcosa di più che schierare un paio di agenti a quartiere.» Sbuffo. «L’ho paragonato ad André Burgeois, ma lui è anche peggio.»
«Io credo che—»
Fermo Tikki con la mano. «Non voglio pensarci per ora, o la deliziosa cena mi andrà di traverso.»
Vado alla scrivania, strappo un foglio dal quaderno ad anelli e prendo la matita.
Da un po’ di tempo, l’unico modo per svuotare la mente è disegnare a ruota libera, lontana dal quaderno dei bozzetti, su cui mi sembra di svolgere un compito scolastico più che dilettarmi a creare.
Traccio la sagoma di un uomo. Aggiungo dei dettagli alla muscolatura e qualche tratto del viso.
Cambio matita e scelgo quella con la punta più morbida, il tratto diventa più marcato. Comincio dai pantaloni, stile completo in modo da far risaltare gambe possenti.
Disegno sul torace una camicia, traccio una freccia che punta alla scritta “Raso”. Sopra ad essa, tratteggio una giacca di tipo sportivo e la coloro per intero.
Sollevo il foglio e annuisco.
Tikki svolazza accanto alla mia guancia. «Un look perfetto per Alessio.»
Un grumo di saliva prende il canale sbagliato. Tossisco. «A-Alessio. P-perché proprio l-lui?»
«Non ti sei accorta che il modello che hai disegnato è praticamente il suo ritratto?»
Copro il disegno con la mano. Ho paura a verificare se quanto detto da Tikki corrisponde alla realtà.
Tikki alza e abbassa le sopracciglia. «Ebbene?»
Sposto la mano. Il ragazzo ritratto è altissimo, ha i capelli ricci, una mascella pronunciata e muscoli ben definiti.
È lui.
 
***
 
Entro in classe e mi trascino fino al posto.
Sonia è in piedi accanto alla finestra, Juan e Richard sono seduti sui banchi di fronte al mio.
Mi accascio sulla sedia e tiro un lungo sbadiglio. «Gnao…»
«Hola, Mari. Que pasa?»
Devo avere l’aspetto di uno zombie, camminata inclusa. «Pasa che stanotte non ho chiuso occhio.»
Sebbene io sia solita passare solo un velo di trucco, oggi ho dovuto ricorrere a una forte dose di correttore per nascondere le due voragini viola che mi si erano formate sotto agli occhi.
Non ho avuto modo di constatare se avessi fatto un buon lavoro, ma spero di avere almeno un aspetto dignitoso.
Richard, in pantaloncini cargo, si arrotola le maniche della camicia a quadretti fino ai gomiti. I peli rossicci risaltano sulla pelle lattifera. «Well, ti stai dedicando anima e corpo al vostro project.»
Sonia si siede accanto a me. «Abbiamo concordato che vogliamo spaccare.» Mi passa un braccio intorno al collo. «I tuoi sforzi saranno ripagati, te lo prometto.»
Annuisco e reprimo un altro sbadiglio. In realtà, il lavoro di prima cucitura l’ho finito in poco più di un’ora – la pratica con i quaranta e passa regali per Adrien mi ha aiutata; il resto della nottata insonne l’ho passata con la mente rivolta a mamma e papà e alla loro partenza di oggi.
Sono ancora preoccupatissima per i tafferugli che i Satiri stanno sollevando in diverse zone della città e la stazione centrale è uno dei punti più sensibili della città. Ci passano migliaia e migliaia di persone ogni giorno: se colpiscono lì, sarà una catastrofe.
Stendo un braccio sul banco e vi adagio la guancia sopra.
Juan mi solletica il palmo con un dito, i capelli d’ebano gli accarezzano le spalle. Curioso che li abbia lasciati sciolti oggi.
Gli sorrido. «Almeno per ora, non dovrò preoccuparmi di Rissagno e posso riposare cinque minuti.»
Richard guarda il suo orologio da taschino. «Strano che non sia già seduto alla cattedra. Di solito, apre lui i cancelli.»
Due colpi battono sulla porta dell’aula.
La testa ovale del rettore si affaccia sull’uscio, gli occhietti scrutano uno ad uno gli studenti.
Juan e Richard balzano subito giù dai banchi, io rizzo la schiena sulla sedia.
«Permesso, signori studenti.» Il rettore raggiunge la cattedra, si passa un panno rosso sulla fronte lucida. Porta la camicia talmente stretta in gola che sembra stia per soffocare. «Il professor Rissagno non è ancora arrivato?»
Diversi studenti fanno un cenno di diniego con la testa.
«Strano. Comunque, signori studenti, volevo far presente ad ognuno di voi un fatto increscioso avvenuto pochi giorni fa, in una delle aule studio dell’Accademia.»
Infila una manona nella tasca, le sue dita a salsicciotto stringono una fotografia in bianco e nero. Sembra essere stata scattata da una delle telecamere di sorveglianza e ritrae un tipo in tuta e cappuccio, una pila di fogli tenuta sottobraccio.
Il rettore punta l’indice sulla foto. «L’identità di questo ragazzo è ignota: non sappiamo se egli è uno studente registrato all’Accademia o se è un intruso. Fatto sta, che chiunque abbia avuto un contatto ravvicinato con lui o gli è stato consegnato uno di questi volantini è pregato di dircelo.»
Mi volto verso Sonia, la quale fa spallucce.
Metto la mano a coppa davanti alla bocca. «Noi l’abbiamo visto l’altro giorno in aula studio.»
«Può essere, ma il volantino l’hai tenuto tu.»
Già, perché ho riconosciuto il simbolo dei Satiri dell’Anarchia. Il volantino pubblicizzava la trasmissione in diretta in cui uno di loro minacciava il sindaco e la città e poi ha fatto saltare in aria quell’auto.
Il rettore gira tra i banchi mostrando a ognuno la foto del tipo.
Alzo la mano.
«Signorina Dupain-Cheng?»
«Signore, non so a quanti altri, ma quel ragazzo ha consegnato a me uno dei suoi volantini.»
Il rettore mette via la foto e mi fa cenno di avvicinarmi a lui. «Mi segua fuori, per cortesia.» Si rivolge al resto della classe. «Voialtri, restate ai vostri posti in attesa del professor Rissagno.»
Mi alzo dal posto e lo seguo.
«Mi scusi, signore.» Juan leva un braccio e indica sé stesso e Richard. «Permette che veniamo anche noi? Eravamo presenti.»
Richard annuisce, guarda nella mia direzione e muove le folte sopracciglia.
Vogliono sostenermi, anche se non erano presenti.
Mi affiancano, senza nemmeno aspettare il consenso.
Sonia si alza a sua volta. «Ero presente anch’io.»
Il rettore piega le labbra verso il basso e si deterge di nuovo la fronte col panno rosso. «D’accordo, venite pure. Cerchiamo di risolvere in fretta questa faccenda.»
Si volta verso la porta.
Unisco i palmi e ringrazio i miei amici chinando il capo.
Alle loro spalle, Letizia traccia con l’indice una mezzaluna sul collo, da lobo a lobo. Gongolerebbe fino a Natale se ci cacciassimo nei guai.
Seguiamo il rettore fuori all’aula.
Chiude la porta e ci indica uno a uno. «Vorrei che fosse chiaro che il mio intento è mantenere intatto il buon nome di questo istituto e preservare l’incolumità fisica e psichica dei suoi studenti. Qualunque elemento può essere utile, quindi non lesinate sui dettagli.»
Ci incamminiamo lungo il corridoio.
Da un certo punto di vista, questo fuori programma mi sta evitando l’ennesimo rimprovero di Rissagno sulla scarsa attenzione che gli rivolgo durante le sue ore. Oggi, più che mai, avrei fatto fatica a tenere gli occhi aperti, figuriamoci a seguire i suoi ragionamenti.
Giungiamo all’ufficio del rettore.
Accanto alle due sedie disposte di fronte alla scrivania, c’è un agente della polizia in divisa.
«Prego.» Il rettore ci fa passare. «Questi ragazzi affermano di aver avuto un contatto diretto con il soggetto in questione.»
Il poliziotto si toglie il cappello dalla testa e se lo tiene sotto l’ascella. Ha delle orecchie enormi e i capelli tagliati cortissimi.
«Preferite che vi ascolti uno alla volta oppure insieme?»
Faccio un passo avanti. «Agente… Signore…» Do un colpo di tosse. «Signor Agente… quel ragazzo ha posato sul nostro banco il suo volantino mentre eravamo impegnati a studiare.»
Mi friziono il braccio. «Non ha parlato, ci ha solo fatto un gesto prima di scomparire all’uscita.»
Il poliziotto muove la lingua nella bocca come se cercasse una briciola infilata tra i denti. «Qual è il suo nome signorina?»
«M-Marinette Dupain-Cheng.»
«Mi dica, Marinette Dupain-Cheng, aveva mai visto questo ragazzo prima d’ora?»
Scuoto la testa.
Il poliziotto passa in esame con lo sguardo i miei amici: tutti mi imitano negando col capo.
«E come mai ha scelto proprio voi per consegnare quel volantino?»
Richard mi viene vicino. «We don’t know, agente. Non è detto che non l’abbia fatto anche con altri.»
«E lei è…?»
«Richard McCallister.»
Il poliziotto scambia un’occhiata con il rettore che, nel frattempo, si è accomodato alla sua poltrona.
Torna a fissarci con sguardo più amichevole. «Voi siete gli unici in tutto l’istituto ad esservi fatti avanti. Immagino che fosse per il messaggio contenuto nel volantino.»
Juan si gratta una tempia. «Porque? Qual era il messaggio?»
«Davvero lo ignorate?»
Richard e Juan di sicuro, visto che non c’erano. Sonia, dal canto suo, pensava fosse una trovata di marketing.
Sono l’unica ad aver colto il contenuto di quel volantino. «Pensavamo fosse solo pubblicità.»
«E non l’avete conservato?»
Mi mordo l’interno della guancia. «L’ho buttato appena sono uscita.»
«Beata ignoranza.»
Il rettore grugnisce. «Li svuotiamo ogni giorno alle 19. Non lo troveremo più.»
Il poliziotto si mette il cappello. «Vi ringraziamo della vostra disponibilità. Signor rettore, proseguiremo le indagini affinché venga alla luce l’identità di questo ragazzo.» Si congeda.
Il rettore batte le mani. «Orsù, tornate alla vostra lezione.»
Obbediamo e usciamo dall’ufficio in silenzio.
Richard incrocia le mani dietro la testa e fischietta. Il motivetto echeggia per il corridoio deserto.
Sonia si sistema una ciocca dietro all’orecchio. «Secondo voi, cosa bolle in pentola? La cosa dev’essere seria per coinvolgere addirittura la polizia. Questo tizio spacciava, forse?»
Juan si stringe nelle spalle. «Forse cannabis. Il rettore chiude a stento un occhio sulle sigarette normali, ma dubito sia indulgente con altro.»
Rallento il passo e soffoco uno sbadiglio. Sono a pezzi, non credo che riuscirò a sostenere un’intera giornata di scuola.
I miei amici si fermano e si voltano.
Richard mi tocca un braccio. «Sicura che sia solo stanchezza, Mari? Sei molto pallida.»
«Credo che chiamerò casa e mi farò venire a prendere.»
Almeno, potrò salutare i miei come si deve.
 
***
 
«Vorrei accompagnarvi.»
Mamma mi tira a sé e mi schiocca due baci sulle guance. «Resta qui e riposa. Non preoccuparti, io e tuo padre ce la caveremo anche senza di te.»
«Ma—»
«Niente ma, Marinetta.» Nonna Gina fa no con l’indice. «Se avevi abbastanza energie per accompagnarci alla stazione, ne avevi per restare seduta al banco a scuola.»
Una logica ineccepibile. «D’accordo.» Abbraccio papà. «Fate buon viaggio. E chiamate non appena arrivate.»
Mamma si china per accarezzare Leon. «Controllala tu. Fa che non si muova da casa.»
Leon abbaia due volte.
Papà raccoglie il borsone, lo mette a tracolla e afferra il manico del trolley. Esce sul pianerottolo, nonna Gina lo segue.
Mamma mi accarezza la guancia. «Dovresti iniziare a seguire un corso di yoga, per allentare lo stress.»
«Non basterebbero diecimila ore di sedute per farmi rilassare.»
«Non sei un robot, Marinette. Tutti abbiamo bisogno di una pausa, ogni tanto. Vedrai che con le energie ricaricate, ne beneficerai anche sui tuoi infiniti lavori.»
Sorrido. «Ci penserò.»
Mamma esce e chiude la porta blindata alle sue spalle.
Leon mi cammina tra le gambe, il pelo mi solletica le ginocchia scoperte.
Vado in camera e mi tuffo supina sul letto. «Sono andati, Tikki.»
Silenzio.
«Tikki?» Mi puntello sui gomiti. «Tikki, ci sei?»
Dalla mensola in alto giunge un fruscio, ma nessuna risposta.
Adagio la nuca sul cuscino. «Per quanto ancora mi terrai il broncio?»
È da quando sono rientrata a casa che si è appollaiata nella sua cuccetta e non mi ha più rivolto la parola. Forse, non ha per niente gradito la mia scelta di saltare un giorno di scuola, ma oggi non ne avevo proprio.
«Tikki…»
Due occhioni blu dal cipiglio severo compaiono sul bordo della mensola. «Perché hai mentito, Marinette?»
Copro gli occhi con il polso. «Non ho mentito. Sono davvero esausta. L’unico risultato che avrei ottenuto restando a scuola sarebbe stata una nota disciplinare da parte di Rissagno.»
«Non parlo della scuola.»
«E allora di cosa?»
«Parlo delle bugie che hai raccontato a quell’agente. Gli hai detto che ignoravi il significato di quel volantino.»
Sposto il braccio. «Cosa sarebbe cambiato dicendogli che lo sapevo?»
Tikki alza la voce. «Gli hai anche detto che l’avevi buttato. E, invece, tu lo conservi nel tuo quaderno dei bozzetti.»
Leon abbaia.
Mi giro su un lato e gli accarezzo il muso. «Perché tanto fervore? Non dicevi che dovrei tenermi alla larga da questa storia?»
«Perché è esattamente ciò che non stai facendo!» Tikki plana di fronte al mio naso. «Prima hai paura ad intervenire perché temi che possano riconoscere Ladybug; poi, decidi di intervenire, e infine te ne penti, dichiarando che sarebbe meglio lasciar far alla polizia.»
«Io—»
«Compare questo ragazzo dei volantini e tu decidi di seguire la trasmissione di questi Satiri. Non contenta, menti a un agente di polizia, affermando che non ne sai nulla della faccenda.» Mi punta contro la zampetta. «Se avevi deciso di lasciar fare alle forze dell’ordine, perché non hai aiutato le indagini anziché ostacolarle?»
«Perché…» Mi mordo il labbro inferiore. «Non lo so, Tikki. Forse avevo paura di quello che potevano pensare i miei amici.»
«Dubito pensassero che sei una dei Satiri.»
«Chi può dirlo? Magari l’agente mi avrebbe portato in questura, sarei finita sotto interrogatorio e—»
«Marinette, ti rendi conto delle assurdità che stai dicendo?»
Mi metto seduta e affondo le mani nei capelli. «Sono patetica, vero?»
«Sei solo molto confusa.» Tikki si posa sulla mia coscia, Leon adagia il muso sull’altra. «Ti sono piovute addosso troppe novità, tutte insieme. Come quando sei diventata Ladybug la prima volta, ricordi? Volevi addirittura rinunciare ai poteri, ma poi hai trovato la forza di reagire e hai accumulato vittorie su vittorie ai danni di Papillon.»
Tiro un lungo sospiro. Pur non conoscendo i dettagli, la mamma ha centrato in pieno il punto: ho accumulato troppo stress e, unito alla mia dannata incertezza e insicurezza, mi ha condotta al limite dell’esaurimento.
Allungo un braccio e afferro la tracolla, la borsa struscia sul pavimento.
Frugo all’interno. «Domani consegnerò il volantino al rettore. Magari gli dirò che l’ho trovato per strada e ho notato che era identico a quello che mi è stato consegnato da quel ragazzo.»
Tikki svolazza intorno a Leon. «È già qualcosa.»
«Ma dove diavolo è?» Sposto il libro di algebra e quello di storia. «Eppure sono certa di averlo messo in borsa, stamattina.»
Ruoto la borsa e ne rovescio l’intero contenuto sul pavimento. Libri, quaderni e il portapenne si sparpagliano.
Manca solo…
La gola mi si annoda. «Tikki… il quaderno dei bozzetti è sparito.»
 
***
 
Al telefono continua a rispondermi la segreteria telefonica.
Scaglio lo smartphone sul divano e tiro un gemito di frustrazione. «Al diavolo!»
Sonia è irraggiungibile, Richard e Juan non sanno nulla.
Io so chi ha preso il mio quaderno. «È stata Letizia.»
Quell’oca maledetta l’ha rubato mentre io e i ragazzi eravamo dal rettore. Vuole soffiarmi le idee e usarle per vincere la gara.
Le tempie mi pulsano per il nervoso. Oltre ai disegni, in quel quaderno ho conservato anche il volantino dei Satiri dell’Anarchia. Trovandolo, Letizia inizierà a farsi strane idee su di me e sono certa che proverà a gettarmi fango addosso pur di eliminare una diretta concorrente.
Scaglio un pugno nell’aria. «Maledetta oca giuliva!»
Tikki solleva le zampette. «Calmati, Marinette. Non hai prove che è stata lei.»
«Certo che è stata lei!» Serro i denti. «Non vuole solo i bozzetti, vuole vendicarsi. In qualche modo, avrà saputo del passaggio che mi ha dato Alessio l’altro giorno e ora cercherà di screditarmi ai suoi occhi. Non sopporta l’idea che lui guardi me anziché lei.»
Un giochetto subdolo degno di Letizia. Lila a confronto è un angelo con l’aureola.
Riafferro lo smartphone e richiamo Sonia.
Al terzo squillo, risponde. «Marinette?»
«Sonia! Grazie al cielo sono riuscita a contattarti.»
«Sto seguendo anch’io il notiziario. Spero che i tuoi genitori stiano bene.»
«Certo. Però io ti ho chiamato perché è succ—» Il cuore mi si ferma per un attimo. «Perché i miei non dovrebbero stare bene?»
Tikki rizza le antenne e strabuzza gli occhi.
«Non stai seguendo il telegiornale?» La voce di Sonia suona preoccupata. «I Satiri dell’Anarchia hanno preso in ostaggio la stazione centrale di Milano.»
Il cellulare mi cade di mano e si infrange a terra.
 
***
 
Apro l’armadio, sposto di lato i vestiti appesi e recupero gli abiti che ho usato per camuffarmi. Avrei dovuto lavarli, ma tra un pensiero e l’altro mi è passato di mente.
Scuoto la giacca impolverata e la lancio sul letto. Faccio fare al cappello la medesima fine. Pinzo dalla cintola il jeans, all’altezza della tasca posteriore destra si estende una macchia nera che emana un tanfo di olio motore. Per fortuna, l’olezzo non ha invaso l’intero armadio.
Tikki attraversa la porta, i suoi occhi sfrecciano da me ai vestiti. «Marinette, non farlo.»
«Non dirmi cosa non devo fare, Tikki. Per favore.» Apro e chiudo il pugno. «I miei genitori sono in pericolo. E lo sono anche altre persone in mano a quella gente.»
«Lascia che la polizia—»
«La polizia non è in grado di gestirli. Ma hai visto cosa stanno combinando per la città? E nessuno sta muovendo un dito per fermarli; chi può farlo si nasconde dietro i panegirici che dichiara il sindaco e il questore.»
«Marinette, ascoltami ti prego.»
«No. Sono decisa a intervenire, non mi farai cambiare idea.»
«Ascoltami!» L’urlo di Tikki mi penetra nei timpani.
Leon abbaia e ringhia.
Gli adagio una mano tremolante sulla testa. «Buono bello.» Sospiro. «Ti ascolto, Tikki, ma non mi persuaderai a restare qui.»
«Lo so. Ma vorrei almeno che rallentassi e pensassi prima di entrare in azione. Sei troppo sconvolta, rischi di fare errori e mettere in pericolo l’incolumità tua e di chi ti circonda. Hai bisogno di lucidità, quella che ti ha sempre condotta alla vittoria contro gli akumizzati di Papillon.»
Prendo il berretto tra le mani, seguo con l’indice il logo del Paris Saint-Germain in rilievo. «So quello che devo fare. Agirò con cautela, sfrutterò al massimo il potere del Miraculous e fermerò quei tipi. L’importante è che non riconoscano la maschera di Ladybug. Per il resto, che mi vedano pure. Manderò loro un messaggio che c’è qualcuno che non ha paura e che è in grado di affrontarli tutti.»
Tikki scuote la testolina, le antenne oscillano. «Non so se sia una buona—»
«Tikki, trasformami!»
Il lampo bianco e rosso mi illumina, la tuta di Ladybug avvolge il mio corpo, il potere fluisce nelle mie vene.
Indosso i jeans e la giacca e metto il cappello sulla testa. Abbasso la visiera in modo che un cono d’ombra copra la maschera a pois sugli occhi. Calzo le sneakers.
Apro la finestra. Un puzzo di nafta sale dalla strada, tre auto e un camion sono ferme poco prima dell’incrocio. Un vigile, al centro della carreggiata, dà disposizioni affinché prendano una via alternativa rispetto a quella conduce alla stazione.
Richiudo la finestra.
Se uscissi da qui, qualcuno potrebbe vedermi e troverebbe molto strano osservare una persona balzare giù dal quarto piano e atterrare sul marciapiede senza un graffio.
Esco dalla camera e mi fiondo alla porta d’ingresso.
Leon abbaia tre volte e mi si piazza davanti.
Mi chino sulle ginocchia e poso la fronte contro la sua. «So che la mamma ti ha incaricato di proteggermi, ma non devi temere.» Lo bacio tra gli occhi. «La tua padroncina torna subito, il tempo di prendere a calci un paio di fanatici.»
Apro la porta blindata e salgo la rampa delle scale.
Dai tetti farò prima.
 
***
 
Saltare da un terrazzo ad un altro, senza l’ausilio dello yo-yo, si è rivelato molto più difficile di quanto pensassi, ma ho coperto una grande distanza in poco tempo e quello mi basta.
Atterro sul tetto dell’hotel Atlantic, poco distante dalla stazione centrale. Nella piazza sono già ammassate quattro volanti della polizia e una camionetta dei carabinieri.
Un cordone di agenti fa defluire le persone dall’interno della stazione, riversandole nella piazza.
L’epicentro dell’attacco devono essere i binari.
Salto sul terrazzo contiguo, mi affaccio lungo la ringhiera in ferro.
Non vedo tra la folla mamma e papà, né la nonna. Spero tanto che siano al sicuro. Avrei dovuto far loro almeno uno squillo, per accertarmi che stessero bene.
Tikki aveva ragione: non dovevo farmi trascinare dalla foga del momento e ragionare di più sulle mie azioni.
Ora che sono qui, tanto vale proseguire.
L’attenzione della gente per strada è tutta rivolta verso la stazione. Nessuno bada ai tetti.
Scavalco la ringhiera e mi lancio verso il basso. Atterro a ginocchia piegate, mi spolvero i jeans e corro verso il retro della stazione.
Un fischio giunge alle mie spalle. Do una rapida occhiata da sopra alla spalla. È un vigile piazzato ad un incrocio pedonale. Agita la mano come a volermi invitare di fermarmi.
Accelero la corsa. Il vigile fischia più volte, alternando lunghi acuti a fischi brevi.
Urla qualcosa, ma sono già lontana per distinguere le parole.
Sfilo accanto al cordone di agenti, mi mescolo alla folla in uscita. Sgomitando, riesco a penetrare nella calca, senza perdere il cappello e senza incappare in qualche ostacolo.
L’atrio della stazione è vuoto, fatta eccezione per un paio di agenti delle forze speciali con i loro fucili dotati di mirino laser.
Scatto verso i binari. I poliziotti sorpresi tirano delle urla. Li ignoro e raggiungo il vagone del treno sul binario opposto alla banchina.
Stavolta non mi è stato possibile mantenere l’anonimato, ma non importa. Quello che conta è dare un segnale forte ai Satiri: qualcuno più forte di voi e più intraprendente del sindaco ha intenzione di darvi battaglia.
Aggiro la testa del treno. Un satiro con la solita maschera rossa e nera mi punta contro il suo fucile d’assalto.
Scivolo fino alle sue caviglie e le scalcio. Lui finisce con il sedere a terra. Faccio perno su un piede e impatto con il tallone sulla sua tempia.
Fuori uno.
Apro con una spallata il portello del vagone e penetro dentro.
Vuoto.
Che storia è questa?
Percorro di corsa il corridoio tra i sedili, passo le dita sul touchscreen che apre i portelli ed entro nel successivo vagone.
Vuoto anche questo.
Dove diavolo sono tutti?
Dall’esterno giunge una voce distorta da un megafono. «Ragazzo! Chiunque tu sia, scendi dal treno con le mani bene in vista.»
Mi avvicino al finestrone.
Tra tre agenti delle forze speciali, con i fucili puntati, emerge la sagoma di quel simpaticone del questore.
Si porta alla bocca il megafono. «Ripeto, esci con le mani bene in vista e provvederemo a scortarti all’esterno.»
Dannazione.
Invece di occuparsi dei Satiri pensano a me.
«Ultimo avviso! Al prossimo, spareremo!»
Se mi beccano, potrò dire addio alla mia identità segreta. Se non li assecondo…
Accidenti!
Calcio la porta e scendo dal treno.
Colpi di mitra esplodono alla mia sinistra, i proiettili sibilano accanto ai miei piedi.
Rotolo a terra, i sassolini scricchiolano sotto la schiena.
Sollevo lo sguardo.
Un Satiro è appollaiato sul tetto di un vagone dello startrain, la canna del suo fucile punta dritta su di me.
Due colpi echeggiano dall’altra parte del treno.
Il satiro viene colto da spasmi, allarga le braccia e crolla a terra prono, a poca distanza da me. Un rivolo di sangue fluisce da sotto al torace.
Passi di corsa si avvicinano.
Rotolo al di sotto del treno. Fili d’erba mi solleticano le guance.
Gli stivali degli agenti circondano il corpo del satiro. Tra essi risaltano un paio di mocassini color mogano.
Un agente con il casco azzurro a coprirgli la testa si china sul corpo, lo rivolta e gli tocca la gola con due dita. «È morto!»
«Che vi dice il cervello?» La voce del questore ha un tono greve. «Non dovevate aprire il fuoco se non strettamente obbligati.»
Il poliziotto chino indica il satiro. «Signore, è probabile che costui stesse mirando a quel—»
«Non è tuo compito fare ipotesi, agente. Devi solo seguire gli ordini. Che mi dite dell’altro?»
Un altro agente, più distante, prende parola. «È privo di sensi. Forse è stato quel ragazzo a metterlo ko.»
Che ho combinato…
Il questore mugugna qualcosa di incomprensibile. «Se me lo ritrovo tra le mani… Per ora mi accontento dei due che abbiamo preso e possa quest’altro riposare in pace. Bene, possiamo anche sgombrare, qui.»
Vanno via?
E l’emergenza?
Due agenti sollevano di peso il cadavere del satiro, seguono il gruppo che si allontana.
Qualcosa non quadra.
Sembra che abbiano risolto tutto in fretta, molto più efficienti rispetto alla volta nella metropolitana.
Tiro un lungo respiro, smorzato appena dalla posizione difficile in cui mi trovo e dall’odore di ferro delle rotaie.
Tikki ha ragione. I tutori dell’ordine sanno fare molto bene il loro lavoro, io non faccio altro che ostacolarli. E per colpa mia, un uomo è morto.
Striscio sotto al treno, fino ad allontanarmi abbastanza dagli agenti e mi rimetto in piedi.
Il jeans si è strappato sulla gamba destra, la striscia rossa del costume di Ladybug risalta dallo squarcio.
Devo trovare un luogo riparato dove liberarmi di questi vestiti, ormai da buttare, ed interrompere la trasformazione. La polizia cerca un ragazzo con berretto, giacca e jeans. Non baderanno ad una ragazzina in t-shirt e leggings.
Mi acquatto dietro un delimitatore di binario e lancio una sbirciata: la gente sta ripopolando a poco a poco la banchina, tra loro ci sono anche mamma e papà.
Il sollievo mi alleggerisce il cuore e gratta via in parte lo sconforto della colpa.
Almeno loro stanno bene.
Mi sfilo il cappello da testa. «Ritras—»
Dalla folla si leva un coro di urla. Una miriade di braccia si alza e indica un punto in lontananza.
Seguo i loro indici: una colonna di fumo nero si staglia contro il cielo terso.
Il respiro mi si mozza.
I Satiri che hanno attaccato la stazione erano solo tre. Un diversivo.
Sia io che la polizia ci siamo cascati con tutte le scarpe.
L’obiettivo era tutt’altro.
Il municipio.
 
***
 
Il chiasso generato dalle urla della gente si mescola alla sinfonia di sirene di polizia e vigili del fuoco.
Un’intera ala del municipio è avvolta dalle fiamme, fumo nero spira dalle finestre e si innalza nel cielo. Quella che era una semplice giornata primaverile si è trasformata in un inferno.
Scavalco un’inferriata e mi accosto ad un muro dell’edificio ancora integro. Il calore trasuda attraverso il calcestruzzo e mi fa pizzicare gli occhi.
Piego le ginocchia e salto in una finestra aperta. La stanza per fortuna è deserta.
Aggiro la scrivania e apro di uno spiraglio la porta, in modo da dare un’occhiata nei paraggi.
Del fumo bianco aleggia per il corridoio. Corro verso la fonte delle fiamme, una gamba mi cede e mi costringe ad appoggiarmi con una mano alla parete.
Se inizio ad avvertire la stanchezza anche nei panni di Ladybug significa che sono davvero al limite. Devo dar fondo alle mie ultime risorse e gestire al meglio la situazione. Spero di non dover ricorrere al Lucky Charm, oppure i minuti residui saranno spiccioli.
Tiro un respiro, i polmoni si riempiono di aria sporca di cenere. Tossisco. Pessima pensata.
Anche la mia mente lavora a basso regime. Se ne uscirò integra, dormirò per tre giorni di fila.
Corro lungo il corridoio. Tre porte si affacciano negli uffici comunali; i dipendenti hanno già seguito le norme di sicurezza e hanno lasciato le postazioni sfilando verso le uscite di sicurezza.
Devo solo accertarmi che non ci siano altri intrappolati dalle fiamme.
Un boato sconquassa l’edificio, il pavimento trema sotto i piedi. Proveniva dal piano inferiore.
Raggiungo le scale di emergenza e le scendo quattro scalini alla volta. Apro una porta tagliafuoco e mi ritrovo avvolta da lingue di fuoco che lambiscono porte e mura. Le lampade a neon pendono dal soffitto, sui fili scoperti crepitano scintille.
Il calore mi brucia il viso, la vista mi si appanna. Strizzo gli occhi e un paio di lacrime rotolano giù per le guance.
Un tonfo rimbomba dall’ufficio in fondo.
Ne segue un altro.
La parete tramezza crolla e si sbriciola, una figura colossale si staglia contro le fiamme. Nella mano destra impugna un’ascia nera dalla lama argentata.
È un energumeno pelato con indosso una canotta bianca e pantaloni cargo. Vene enormi striano i muscoli delle braccia e del collo su cui spicca un grosso tatuaggio nero, una sorta di simbolo.
Si volta nella mia direzione e stira un ghigno.
Dev’essere il tizio che ho affrontato nella metropolitana. Ma se pensa di bissare il suo show, si sbaglia di grosso.
Impugno lo yo-yo e lo faccio oscillare tra le mie gambe. Il vortice d’aria che si crea allontana da me le lingue di fuoco.
Il gigante mulina l’ascia e carica a testa bassa.
Scarto di lato, scivolo a terra e lo sgambetto. Lui incespica per un attimo, riprende l'equilibrio e scaglia un fendente dall’alto.
La lama mi sfiora il braccio, lacera parte della giacca e infrange due piastrelle del pavimento.
Se mi avesse preso, mi avrebbe mozzato il braccio, di sicuro.
Roteo lo yo-yo, il filo si avvolge intorno al busto del gigante. Tiro un’estremità, il cavo si tende e lo intrappola.
«Sei il capo dei Satiri, vero?»
Il gigante tira fuori la lingua e si lecca le labbra carnose, il sudore luccica alla luce proiettata dalle fiamme.
Stringe le dita intorno all’impugnatura dell’ascia e strattona il cavo.
Pianto i piedi a terra, ma il gigante è troppo forte e vengo scagliata su un muro. La schiena mi esplode dal dolore. Cado a terra, la testa vortica.
Il gigante si libera dalla morsa dello yo-yo, passa un indice sulla lama e se lo ficca in bocca come se fosse un lecca-lecca.
Dei passi giungono dalle scale, voci maschili si rincorrono. Sono i pompieri. Il gigante si mette sull’attenti e fissa la rampa.
Schizzi d’acqua iniziano a piovere dalle finestre, il fumo nero si addensa.
Trattengo il respiro. Gattono fino allo yo-yo, lo apro e lo appoggio sulla bocca. La modalità ossigeno restituisce ai polmoni un po’ di aria pulita.
L’energumeno solleva l’ascia oltre la sua testa.
No! Salto e afferro il manico con entrambe le mani e tiro.
Il gigante ruota la testa sulla spalla, ghigna di nuovo. Un luccichio diabolico si accende nei suoi occhi cristallini. «Sei finita.»
Strattona l’ascia e scaglia un montante che mi colpisce lo zigomo. Volo a terra, centinaia di coriandoli danzano davanti agli occhi, il viso mi si paralizza. Qualcosa di caldo mi cola dal naso.
Un velo bianco mi appanna la visuale. Stringo i denti. Non devo svenire…
L’ombra del gigante si avvicina, passi brevi, pesanti.
Mi puntello sui gomiti, ma un piede mi schiaccia la schiena e mi costringe a stare a terra.
Una luce verde si estende sotto il mio corpo, mi abbaglia.
La vista sfarfalla.
Cala il buio.
   
 
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