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Autore: theGan    02/11/2022    4 recensioni
PARTE 1: Amburgo, 1986.
Genzo Wakabayashi inizia la sua nuova vita in Germania.
Karl Heinz Schneider decide di non farci amicizia, Hermann Kaltz è più pragmatico.
La long-story mai richiesta sulla storia del terzetto amburghese.
[CONCLUSA]
PARTE 2: Giappone ‘45 / Germania ‘87. 
Tatsuo Mikami vuole essere un calciatore, non un padre.
La vita è piena di sorprese.
Genere: Commedia, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji, Hermann Kaltz, Karl Heinz Schneider, Taro Misaki/Tom, Tatsuo Mikami/Freddy Marshall
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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* questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa.

* trigger warning: in questo capitolo sono presenti tematiche legate al bullismo ed esempi espliciti di violenza.

 


 

7.Cose che capitano.

 

Karl e Maria sono separati da quattro anni e un mese per quanto riguarda l’età anagrafica e circa diciassette anni luce per il carattere. Sua sorella sarà sempre l’essere umano più funzionale della famiglia Schneider. Maria sa chi è, cosa vuole e non è un pezzo di merda cubico quando si impegna per ottenerlo. Avrebbe molto da imparare da lei: diciassette anni luce. Proprio.

A diciannove anni, Maria aspetterà che si siano accomodati a tavola per annunciare la sua scelta di iscriversi a giurisprudenza. L’obbiettivo? Diventare un avvocato divorzista. Quando lo racconterà agli amici che sono tornati a parlargli assieme: Kaltz scoppierà a ridere e Genzo annuirà gravemente. Salterà fuori che lo sapeva già, ovviamente, Maria si era consultata. Papà e mamma non la prenderanno benissimo, metteranno su un’aria costipata che spingerà sua sorella a replicare qualcosa come:

- È impensabile scaricare le difficoltà di un matrimonio sui figli.

Un quarto d’ora d’applausi, mentali. Non si può riassumere in una frase la felicità di Karl a quindici anni nello scoprire che i propri genitori hanno deciso di tornare a essere una famiglia di quattro persone. A dodici quello scenario è una fantasia con cui torturarsi, a ventidue troverà surreale quanto quel tira a molla gli avesse ingobbito l’anima. Karl ventitreenne sarà un mostro molto diverso dalla sua versione adolescente, soprattutto perché avrà messo in una scatola paura e vergogna e sarà finalmente felice.

La versione dodicenne è solo preoccupata: Maria vuole invitare le amiche a casa per il compleanno. Mamma è entusiasta.

- Di quante persone parliamo?

Chiedono contemporaneamente madre e figlio: i toni non potrebbero essere più diversi, la risposta non piace ad entrambi.

- Mah, pensavo le amiche… - Un numero, Maria dacci un numero. – E poi la classe e i compagni del corso di nuoto e di…

Sua sorella mantiene un profilo vago, una faccia da poker e, accidenti, sarà davvero un ottimo avvocato un giorno. Sua madre è un poliziotto anche migliore, dopo un interrogatorio serrato Maria cede. Le voci si alzano, ma alla fine le parti giungono a un accordo, anche perché c’è poco da discutere quando mamma dà un ultimatum: venti persone. Massimo.

Maria gonfia le guance, Karl stringe i pugni, pensa che li abbia fregati e si interroga su dove diavolo stipare venti persone in casa. Vabbè che i bambini viaggiano in formato ridotto, ma di solito sono accompagnati dai genitori. Non gli piacciono gli adulti: l’ultima volta che hanno organizzato una festa in casa, cinque o sei di loro avevano addosso quell’espressione costipata che spazia da “se lo meritano” a “quella bambina mi fa tanta pena”. Soprattutto perché mamma dimentica sempre qualcosa: l’anno scorso è capitato a bibite e festoni e quelli passino, ma quando era mancata la torta… beh, diciamo che s’era notato.

Maria l’aveva presa da vera campionessa e insistito per mettere le candeline nei popcorn. Un rischio biologico. Karl capisce perché Genzo e sua sorella vanno tanto d’accordo. Mamma è sempre più presente: a tavola ha detto che appena Maria sarà più grande tornerà al lavoro. Magari qualcosa in radio. Usando il suo cognome da nubile.

Karl ha una buona sensazione per questo compleanno: il paesaggio gelido, immutato, seppellito da nove tonnellate di neve ha iniziato a mutare in una slavina che va nella direzione giusta. Sarà stato l’arrivo dell’estate o il vento dal Giappone, ma anche gli allenamenti della squadra pesano di meno.

L’altro ieri ha persino detto a Strauss “bel passaggio” e poi ha cercato Genzo per controllare che avesse sentito. Il suo portiere però era preso a complottare con Mayer e Haness e la cosa a Karl non aveva dato fastidio. Per niente. Poi Strauss e Heintz hanno iniziato a giocare oggettivamente meglio. Forse lo facevano già e lui non se n’era accorto.

Salta fuori che presentarsi regolarmente fa miracoli per la sua coordinazione con gli altri giocatori della squadra, specialmente per difesa ed attacco, sul centrocampo soprassiede perché con Kaltz non ha mai avuto problemi. Un giorno di questi Mister Friedman si deciderà a silurare Krüger e a piazzare Genzo tra i pali. Per ora il coach sembra solo contento che Karl si sia finalmente integrato, dice di avere grandi progetti e tende a credergli. Friedman gli ha sempre dato fiducia anche quando non se la meritava, pare giusto ricambiare il favore.

Tra qualche giorno dovrebbe annunciare la rosa per l’amichevole con il Borussia, la sconfitta di sei mesi fa brucia ancora, ma Magath è un tipo parzialmente a posto e oggettivamente sprecato come attaccante. Mister Friedman se vuole vincere dovrà rivoluzionare la strategia dell’Amburgo di parecchio, Karl non ha problema a trascinarsi dietro la squadra, ma la difesa del Borussia è buona e la loro una valle di lacrime. Sono lenti. Il tempo di portare la palla a metà campo e Karl si trova addosso la squadra avversaria. Gongels è una prima donna scoordinata che, incespicando, crea punti ciechi al loro portiere e Krüger è… bravino, ma incapace di formulare un pensiero suo. Wakabayashi è più versatile.

Mister Friedman sarebbe un idiota a non sfruttarlo. I toni soavi di Genzo sono come avere un secondo coach in campo, lo tranquillizzano.

Cioè l’antitesi di quello che è ora a quattro ore dall’arrivo degli invitati. Mamma ha il naso infilato nelle buste della spesa, Karl nella scatola delle decorazioni: i tovaglioli di carta di “Cenerentola” avanzati dall’anno scorso hanno preso umidità e sono inservibili.

- Tesoro vai a prendermi quelli di stoffa nella credenza in soggiorno: terzo cassetto.

Mamma vuole davvero mettere i tovaglioli ricamati a mano di nonna? Quelli del servizio buono? Karl si impossessa del rotolo di Scottex e ne fa quadratini: sono colorati, hanno i fiori ed andranno benissimo per resistere all’invasione dei piccoli unni. Hanno finito le forchettine di plastica: quelle rosa. Niente panico. Da qualche parte mamma recupera dei cucchiaini, sono bianchi, ma andranno benissimo per la torta. Dove accidenti sono quelle candeline coi numeri?

- Kaaaarl!!! Aiutami coi palloncini!

Maria è in salotto. La cucina puzza di bruciato. Mamma infila i guantoni e procede al salvataggio. CE LA POSSONO FARE. Crede fortemente in questa squadra. Si materializza in salotto e intercetta sua sorella prima che faccia scoppiare un’altra di quelle diavoleria di plastica: all’ultima mamma si è come bloccata e ci sono voluti venti minuti e la “Regina della notte” per farla riprendere. Karl non ne è sicuro, ma crede che il rifiuto per le esplosioni derivi da quella volta in cui le hanno gettato i petardi contro in cortile.

I palloncini che Maria ha comprato al supermercato non sono rotondi: sono quella schifezza oblunga a cui devi dare le forme. Sua sorella lo fissa piena d’aspettativa. Karl crede molto in questa squadra e capisce che è ora di chiamare i rinforzi.

Emilia ed Hermann Kaltz arrivano nel giro di mezz’ora e solo perché la prima era in stand-by: Maria aveva insistito tanto per invitarla. Appena entrati sua sorella si attacca tipo polipo alla gamba di Emilia, rifiuta di staccarsi fin quando l’altra non la prende in braccio e la lancia in aria. Emilia ride, prende atto del caos, si siede sul divano e afferra la scatola dei palloncini. Nel giro di pochi minuti ha realizzato una corona rosa e una spada gialla. Ma come fa?

Hermann si rende utile: appoggia una spalla contro la parete, sfila lo stecchino di bocca e fissa le decorazioni che Karl ha passato gli ultimi venti minuti a piazzare.

- Quello è storto.

Oggetto: il festone. Non gli darà la soddisfazione di inerpicarsi sulla sedia per raddrizzarlo. Kaltz riaddenta lo stecchino, Karl sbatte le palpebre: chi si muove per primo perde. Emilia produce un fiore molto rosso e un cane pericolosamente verde alla cui vista Maria come si illumina e grida:

- ALLORA MAMMA MI HA PRESO DAVVERO UN CUCCIOLO!

Sua sorella corre in cucina, la abbraccia, chiede dove si trovi ora l’animale e se, per piacere, non è che lo può accarezzare? Tipo ora? Karl incontra lo sguardo di sua madre e non tenta di reprimere il panico. Cosa hanno comprato per il compleanno di Maria? Una casa per le bambole? Uno di quei walk-man… no, quello lo vuole lui. Un orsetto? Oh. Quest’anno si che sarà diverso.

Si sono dimenticati il regalo. 

- Esco.

Dice e non offre spiegazioni. Va dritto alla porta, infila le scarpe, dimentica il portafoglio e corre in strada. È domenica, ma questa è Amburgo: ci sarà un accidente di negozio aperto. Magari, ecco, non il macellaio o il verduriere: uno che venda giocattoli. Qualcosa di abbastanza costoso da far dimenticare ad una bambina di rimanere delusa per l’assenza di un cane. O del padre. Si ferma. Respira.

Nulla. Non c’è nulla che possa comprare per rimediare, che sia all’altezza. Karl deve procurarsi un cane.

Gira sui tacchi, si fa mezzo isolato e rientra in casa. Kaltz, dannatamente più sveglio, è già al telefono, elenco in braccio e block-notes su cui annotare indirizzi dei negozi d’animali in grembo. Respira. Crede fortemente in questa squadra. Il festone storto si stacca e rovina al suolo. Mancano meno di due ore, la festa sarà un disastro. Si siede e lascia che il tempo gli scorra addosso.

Kaltz è ancora al telefono, ma la sua voce è tutta sbagliata, non come quella che mette per sembrare responsabile agli adulti. Sta dicendo:

- Ehi, Genz-man, che il tuo Mikami ce l’ha la macchina?

È la ragione per cui la sua squadra stava perdendo: le mancava un numero. Coach Emilia decide di espellerlo dal salotto e riassegnarlo alla difesa per aiutare mamma con torta, tartine e pasticcini; Kaltz rimane a centrocampo per un assist sulle decorazioni; Genzo, il nuovo acquisto schierato in attacco, regge le sorti della partita.

Se la giocano ai supplementari.

Le amiche di Maria arrivano, Karl non molla la posizione strategica in cucina mentre le bambine si riempiono di torta, glitter e così tante bevande gassate che si stupisce non galleggino. Fa abbastanza caldo perché gli adulti spazino tra il giardino e il salotto, Emilia è costretta nel ruolo di animatrice volontaria, mentre Kaltz è sparito nel nulla. Riemerge un’ora dopo con una bottiglia di vino che Karl non ha mai visto e gliene versa un bicchiere.

- Hanno tirato fuori Twister, prendi che ne avrai bisogno.

Ha ragione: le bambine sono terribili. Una delle invitate stabilisce che è giunto il momento di giocarsi la tiara che Maria indossa dall’inizio della festa. Sua sorella sottolinea come sia lei la festeggiata, l’altra ribatte di trovare un rospo e baciarselo.

- E perché? – Chiede Maria.

- Perché è l’unico modo in cui una come te possa diventarla una principessa.

Il rissone è imminente. Il telefono squilla, forse dovrebbe andare a rispondere. Emilia piazza un cuscino in mano a sua sorella e organizza una battaglia meno dolorosa: Maria ha denti affilatissimi. Kaltz si versa un altro bicchiere, la gradazione sarà almeno bassa? Forse è quella cosa che mamma mette nei dolci. Alla fine è lei a raggiungere il telefono per prima, le pieghe attorno alla bocca le si distendono in un sorriso e Karl capisce che non c’è suo padre sulla linea.

Genzo arriva tre quarti d’ora dopo quando metà delle invitate ha seguito Maria sul divano, dichiarato uno stato autonomo in cui tutte sono principesse e iniziato a lanciare orsacchiotti contro le altre bambine. Sono scappati un paio di libri prima che Karl corresse a intercettarli: Emilia era andata al bagno. Si accorge della presenza del portiere solo perché Anna A. (da non confondere con Anna B. con cui Maria non va d’accordo) pianta un grido che nulla ha d’umano.

- È un CUCCIOLO!!!

Karl pensa che la ragione per cui le squadre di calcio non siano miste è che le femmine li stenderebbero a gomitate in faccia. Ne ha conferma quando una ventina di bambine in crisi da troppo zucchero si butta verso la porta con la golosità di un branco di iene. Genzo però, come Emilia, ha il gene del domatore di bestie: quando allunga una mano e ordina l’alt, quelle si ricompongono e sembrano quasi gente normale.

Il portiere, cucciolo in braccio, avanza verso il tappeto calciando via orsacchiotti di pezza, cuscini e le occasionali ali da fata. Si siede e aspetta che le bambine prendano posizione attorno a lui prima di dichiarare:

- È spaventato. – Genzo cerca e trova gli occhi di Maria. – Sei la sua mamma ora, conta su di te per proteggerlo. 

Qualcosa di indecifrabile passa nella testa di sua sorella, la sua espressione si distende ed arriccia, quando allunga una mano ad accarezzare la testa del cucciolo lo fa con ritrovata delicatezza. Forse le altre bambine capiscono l’importanza del momento o forse sono intimidite da Wakabayashi, in ogni caso rimangono ad ascoltare in silenzio le spiegazioni del portiere su come slacciare la pettorina del cane o attaccarvi il guinzaglio.

- È estensibile, dovrete allargarla almeno una volta a settimana finché non passerà a quella per adulti.

Poi Genzo estrae una pallina da tennis dalla tasca della giaccia, il cucciolo prende a scodinzolare così forte che Karl teme gli si stacchi la coda. Il portiere la passa a Maria che raduna le truppe e si dirige in giardino, Sauzer, il pointer inglese, la segue. Genzo si tira in piedi mentre prova e fallisce di scollarsi dai jeans i peli del cane. Ne è ricoperto in effetti, Karl spera non provengano tutti dalla stessa bestia: il filtro della lavatrice, altrimenti, vorrà la loro testa.

- Ho lasciato le buste col cibo nel taxi. Vieni a darmi una mano.

Un ordine semplice, facile da seguire. Le buste sono otto. Genzo gli sgancia quelle che pesano di meno e quando rientrano urla qualcosa di incomprensibile, forse in giapponese, finché il naso di Kaltz non spunta dalla porta della cucina. Hermann non tenta nemmeno la fuga, borbotta e viene ad aiutarli. In qualche modo i sacchetti atterrano sul tavolo, facendosi spazio tra bicchieri sporchi e bottiglie quasi vuote.

Karl non pensava che ai cani servissero tante cose, le buste contengono: quattro cuscini di piccola e media grandezza, sei ciotole (“alluminio, non plastica… vanno meglio per i germi” dice Genzo), sei tipi di cibo secco e umido, tre guinzagli, due collari ( “questo è antiparassitario, devi aspettare che Sauzer sia più grande per metterglielo”), snack vari ed eventuali e almeno una ventina tra peluche e giochi. Poi c’è il libretto del cane. Non pensava nemmeno che ai cani occorresse una genealogia: qui ci stanno indicati i genitori e progenitori per almeno tre generazioni. I pointer inglesi sono forse una schiatta reale?

- Per evitare incroci tra parenti. – Suggerisce il portiere. Karl poteva arrivarci in effetti. – Sauzer però dovrà essere castrato, è un obbligo imposto dall’allevamento.

Detto questo Genzo procede a fargli una testa quadra su pastiglie, filaria e vaccinazioni.

- I pointer hanno bisogno di fare molto movimento, non basta il giardino, me lo devi portare a spasso almeno tre volte al giorno. Sauzer ha quattro mesi DEVE essere addestrato. Vi ho prenotato le prime dodici lezioni con la Hundeschule che sta a tre isolati: la signorina Rassler vi aspetta il prossimo sabato alle 10. Ho avvisato tua madre e ha detto che ti ci porta in macchina. Poi l’allevamento ha confermato che è tutto a posto per il chip, ma una visita di controllo dal veterinario per una radiografia all’anca ci… Schneider? Ci sei?!

Karl ha bisogno di quel bicchiere di vino, no: della bottiglia. Hermann gliela manifesta in mano, Genzo schiocca la lingua, corruccia le sopracciglia, ma alla fine accetta un bicchiere pure lui.

La risata di Maria si confonde a quella delle altre bambine attraverso la parete che li separa dal giardino e Karl ricaccia a fondo il pensiero che sarebbe stato meglio procurarsi una bambola. O un set da piccolo chimico. Un reattore nucleare. Qualunque altra cosa. Il chiacchiericcio di Hermann e Genzo è una melodia confusa sull’eterno dilemma che affligge l’umanità: meglio i cani o i gatti?

- Dico solo che un gatto sarebbe stato più gestibile.

Se Kaltz si riferisce a quella sua bestia satanica di color arancione che risponde al nome di “Marmellata”, il termine “gestibile” non è esattamente quello che Karl avrebbe usato. Genzo borbotta qualcosa sulla strada e sull’incapacità patologica degli Schneider di controllare che la porta sia chiusa il che è… beh, corretto.

- E poi al telefono mi hai detto di prendere un cane!

Hermann alza le mani: resa. Genzo si sgonfia, annuisce e rifiuta un altro bicchiere di vino, qualcosa-qualcosa sull’aspettare i vent’anni e sul fatto che se continuano così diventeranno degli alcolizzati. Esagerato. Uh. Ma è la stessa bottiglia? No, è decisamente un'altra. Karl abbandona la testa contro il divano e calcia Genzo finché quello non gli afferra le gambe e se le cala in braccio. Meglio. Ci starebbe bene un pisolino. Il portiere nomina un certo “John” e Karl si sente sveglissimo, poi capisce che è il cane di Genzo in Giappone e lascia che il cuscino prenda la forma della sua schiena. Le voci degli amici lo trasportano in un sogno popolato da animali con sopracciglia disegnate a pennarello.

Quando si sveglia il sole è sparito dietro il tetto della casa dei vicini colorando il salotto del freddo dei toni d’azzurro. I festoni brillano dove sono rovinati sul pavimento, le bottiglie di vino sono sparite e Karl è troppo stanco per domandarsi se mamma le abbia viste o Kaltz sia stato abbastanza sveglio da farle sparire. Non ha sentito urlare quindi dovrebbe essere a posto, mamma gli impedisce di toccare persino lo spumante a Capodanno. La stanchezza che gli fa le fusa nelle ossa è quella roba piena e un po’ fragile delle giornate trascorse sulle montagne russe. Richiude gli occhi. Li riapre: qualcosa gli sta toccando un piede.

Karl non è un uomo in questo momento, ma un budino. Lo sforzo è immane, si gira e guarda in basso: Sauzer sta tentando di scalare il divano. Un giorno peserà venticinque chili e sparirà per quattro giorni procurando alla famiglia Schneider un infarto collettivo. Karl appenderà manifesti in mezza Amburgo prima di ricevere una telefonata dal canile di Lüneburg: il loro idiota a quattro zampe era salito sul furgone delle consegne del corriere. Ora Sauzer è un botolo di quattro chili e mezzo, un insieme di occhi languidi e sventolanti orecchie marroni. Gli evoca dentro sentimenti incerti. Il cane piazza le zampe anteriori sul divano, Karl lo fissa mentre quello tenta inutilmente di darsi la spinta con le posteriori prima di rovinare a terra. Sauzer uggiola, gira su se stesso e ci riprova. Karl sente le labbra come tirare. Aspetta.

Occorrono altri sette tentativi, ma la manovra riesce e Sauzer approda sul divano. Il cane prende un minuto per grattarsi la testa, annusarsi le parti intime, piazzarsi sullo stomaco di Karl e mettersi a dormire. Ah. Che strano. Karl allunga una mano e lo accarezza, Sauzer scodinzola. È… caldo. Karl gli gratta dietro le orecchie fino a che il cucciolo si arrotola su se stesso e finisce a pancia in su . È… morbido. Karl sussurra:

- Bravo cane.

Una voce grassa, bassa, sgradevole interrompe il filo dei suoi pensieri:

- Ti fossi preoccupato la metà quando c’è stato il mio di compleanno.

Hermann Kaltz lo sta fissando, braccia conserte e schiena appoggiata contro la porta che dà in cucina. Ah. Dietro di lui una sagoma famigliare cappello munita aiuta sua madre a ritirare gli avanzi del compleanno in appositi contenitori ermetici dal tappo di plastica, quelli che spariscono sempre quando servono. I suoi amici, invece, restano sempre anche se oggi è solo per cena.

***

Karl Heinz Schneider non si sente particolarmente fortunato. La vita, semplicemente, gli capita addosso.

Il calcio rappresenta l’unica brillante eccezione, o quasi. Ama il calcio, l’odore dell’erba che si mischia a quello del sudore, il pallone che batte contro i piedi e che Karl non ha bisogno di guardare per sapere come calciare, ruotare, manipolare. Tsubasa Ozora definisce il pallone il proprio migliore amico, per Karl è diverso: è come un braccio o una gamba, un’estensione di sé.

La gente lo chiama talento.

A otto anni a Karl capita di essere il giocatore più coccolato della squadra pulcini: figlio dell’ex stella dell’Amburgo SV e ora suo allenatore in una stagione che promette solo vittorie, Karl guarda i suoi coetanei arrancare e pensa “idioti”. Bernd Hinmel è il suo migliore amico ed è un mattacchione: dice di voler fare l’attaccante come suo padre prima di lui, ma poi inciampa e tira in porta come se avesse paura della palla. Karl decide di mostrargli come si fa. Una volta, due, sette. Poi si stanca. Tanto è tempo sprecato: Hinmel non si impegna, altrimenti non sarebbe così scarso.

A otto anni Karl non capisce che per lui il calcio è come la matematica per gente come Albert Einstein.

Dice a Hinmel quello che pensa di lui e non si guarda più indietro.

A diciannove anni Karl lascerà che la marea lo riporti ad Amburgo per il matrimonio di coach Friedman, si attaccherà a cozza a Genzo per aiutarlo con la mano steccata ed eviterà i suoi ex compagni di squadra con precisione chirurgica. Bernd Hinmel gioca professionista in una squadra minore, l’idiota. Ben gli sta. Durante il buffet Hermann si porta via Genzo senza una spiegazione, significa che ha una nuova ragazza a cui lo vuole presentare. Karl è diventato bravissimo a soffocare il fastidio che striscia attraverso la bocca dello stomaco in occasioni come questa, si versa un altro bicchiere e se ne va a salutare Jara Strauss. L’ala sinistra delle juniores dell’Amburgo SV ha messo la fidanzata incinta e ora lavora al salumificio di famiglia. Strauss lo dice con un sorriso tirato: la seconda parte, della prima è entusiasta.

Karl ha passato anni a vedere Jara Strauss sputare sangue per la squadra, presentarsi venti minuti in anticipo all’allenamento, studiarsi insieme a Wakabayashi i filmati delle vecchie partite, provare, provare, provare. Jara Strauss non otterrà mai un contratto come professionista. Non è giusto. Capita.

Rudy Frank Schneider era stato un giocatore di talento, non quanto Karl, ma abbastanza per diventare l’idolo della città. Un uomo che aveva fatto della correttezza fuori e dentro il campo un marchio di fabbrica. L’avevano amato per questo, poi avevano disegnato un nuovo limite alla decenza e avevano deciso di odiarlo. Non è giusto. Capita.

La vita è come il gioco dell’oca: non hai controllo sui dadi che ti tengono fermo un turno o ti fanno andare avanti dieci caselle.

Karl Heinz Schneider non ci riflette troppo sopra, ma lo accetta. Altri no.

Hanno il suo rispetto.

Gente come Tsubasa Ozora o Franz Schester sono gli eroi delle grandi storie. Corretti, puliti, diligenti ti danno l’idea che il mondo sia un posto migliore. Che se rispetti le regole, ti impegni e fai tutto giusto la ricompensa ad attenderti ci sarà sempre.

Gente come Genzo Wakabayashi o Kojiro Hyuga pensano che il gioco faccia schifo e ne riscrivono le regole. Prendono la vita a muso duro finché quella non arretra. O non gli spezza.  

Hanno il suo amore.

I dadi riservano a Karl l’affetto dei tifosi, un contratto da professionista quando è  troppo acerbo per imparare a crescere, una famiglia che lo sostiene, un’incapacità patologica per la geometria analitica e due amici che non si merita. Hermann e Genzo gli capitano. Li perde quasi per la stessa ragione.

Karl a dodici anni non ha idea di cosa gli riservi il futuro, ma mancano quindici minuti all’amichevole contro il Borussia Dortmund e ha una fascetta da capitano in mano. Tira il dado. Karl se la lega al braccio, pensa che Hermann sarebbe stata una scelta più saggia e non glielo dirà mai. Non è giusto. Capita.

La gente dovrebbe smetterla di gettargli contro cose e aspettarsi che non lo colpiscano.

Fortunatamente Karl ama il calcio e quando l’erba si piega sotto i tacchetti il mondo diventa semplice. Così come il giusto e lo sbagliato.

Kaltz frega il pallone dai piedi di Fischer, esita e consegna la sfera a Strauss. Milews scivola sulla sinistra, intercetta e Karl sa che se lo lascia arrivare in area farà goal. Così non glielo permette, il pallone scappa dai piedi del numero sei del Borussia e arriva a quelli di Egora che si inserisce nella pausa e nel buco lasciato da Gongels per segnare. Uno a zero. Non è un problema.

Quindici minuti dopo lo stacco raddoppia. Non è un problema. Karl Heinz Schneider si lascerà prendere dal panico in partita una volta sola e a separarlo da quel giorno ci sono dieci anni circa. A ventun anni la vista delle barelle in campo sarà nota e noiosa, ma ci sarà del sangue e Genzo non si starà rialzando ed Hermann gli starà urlando nelle orecchie, sbatterà Karl a terra, gli tirerà un cazzotto e crollerà quando Tsubasa Ozora gli spezzerà una costola. Sarà tutto come un lungo fischio. Stare sotto di due goal in una amichevole non è un problema.

Il vantaggio manda Magath su di giri e lo rende stupido: il primo tempo mica è finito. Krüger gli consegna il pallone e Karl lo accompagna fino a dove deve stare: la porta avversaria. Due a uno e mancano sette minuti all’intervallo. I suoi compagni non sono come lui, hanno bisogno di un pareggio per vedere che la partita è ancora aperta. Di crederci.

La fascia da capitano stringe e la caviglia sinistra brucia dove Magath entra pesante, l’arbitro non ferma il gioco. La porta è lontana, ma Karl sa cosa fare: lo vede. Stein non ci arriverà, non è Wakabayashi, Hernandez o Müller. Il pallone striscia contro il palo, ma poi si insacca in rete. Fine primo tempo.

Karl cerca e trova lo sguardo di Magath, gli punta contro un dito.

- Vi schiacceremo.

Il capitano del Borussia sorride quando lo dice e Karl si trova a ricambiare. Sono i denti scoperti di due predatori che girano in circolo. Un giorno Hermann gli dirà qualcosa come:

- Sai che in partita sei uno stronzo?

E non intenderà le pallonate in pancia e in faccia che Karl riserva agli avversari o le sue entrate al limite del fallo (mammolette, andate a giocare a qualcosa d’altro). No, Kaltz intenderà tutto ciò che alla partita sta di contorno e sosterrà che sia esilarante.

Kaltz smetterà di pensarlo quando si troverà dall’altra parte del coltello. A vent’anni e un occhio nero di distanza, Karl inizierà timidamente a realizzare come l’ecosistema chiuso del campo di calcio appartenga a un mondo più vasto. È stupido perché avrebbe dovuto impararlo da suo padre che esistono conseguenze fuori dal gioco, che alcuni equilibri indistruttibili possono rivelarsi molto fragili. Fatti d’aria.

Negli spogliatoi Mister Friedman passa al tritacarne la difesa. Karl ascolta una parola ogni tre, Genzo gli piazza una mano sulla spalla e lo pascola da uno degli assistenti del coach. Lo obbliga a farsi controllare la caviglia e, ah, non s’era accorto di quanto facesse male. Friedman arriva prima che gliela fascino. Karl non ha neanche bisogno di perorare il suo restare in partita: il mister sa di affrontare una causa persa.

- Non ti voglio più vedere in difesa. – Dice il coach. – Ti tengo in campo, ma se riprendi a correre su e giù come una gallina ti sostituisco. Se il male peggiora voglio che tu esca subito.

Genzo neanche aspetta che Friedman si volti per alzare gli occhi al cielo. A Karl viene un po’ da ridere. A Wakabayashi il concetto di “partita troppo insignificante per rischiare la salute di un giocatore” viaggerà sempre un po’ sopra la testa finché non sarà lui a fare il coach. È una delle ragioni per cui Karl e Hermann lo amano, ma, buon Dio, impareranno a non fidarsi di lui. Non quando riguarda il calcio. O la sua salute.

Una bottiglietta d’acqua sta puntando dritta contro la faccia di Karl. Genzo la afferra al volo, la stappa e gliela passa. Il colpevole, Franz Heintz, sorride prima di piazzarsi contro l’armadietto.

- Ehi, Schneider! Tutto bene?

Karl studia la bottiglietta. Un secondo, due. Annuisce, annusa e beve. Ugh. Frizzante. Ma cosa dice a Heintz il cervello?

Rientrano per il secondo tempo. Friedman silura Gongels prima che faccia altri danni, sostituendolo con Haness che ha sviluppato una buona intesa con Lintz e Mayer in allenamento. Kaltz viene fatto arretrare in difesa e il Borussia Dortmund è uno squalo che sente il sangue. Se smettono di attaccare sono finiti.

Magath lo sa e prende a stargli addosso come una zecca, mentre lo stallo tra le squadre si comprime ed esplode: in meno di venti minuti il Borussia li ficca altri due goal. Non è un prob… okay. Potrebbe essere un problema.

- Niente tripletta a ‘sto giro, Schneider?

Ora, Peter Magath a tredici anni dovrebbe avere sufficiente criterio per capire che un drago addormentato non è morto. È in agguato.

Kaltz mette fine all’allungo di Egora, il pallone rotola placidamente fuori campo. Krüger esce e Wakabayashi entra in campo.

In amore ed amicizia non c’è una regola fissa, così è per il calcio: alcuni giocatori cliccano e basta. Il Giappone avrà la sua “Golden Combi” con Misaki e Ozora, il duo argentino Diaz-Pascal farà impazzire il centrocampo degli stadi di mezzo mondo. Il Werder Brema farà carte false per tenere insieme Schester e Margas fino al loro ritiro, il Paris St. Germain fallirà il colpaccio con Elle Sid Pierre e Louis Napoleon, perché i due francesi nella vita non si sopportano.

Attacco e centrocampo. Ci si dimentica nell’equazione della difesa. A venti minuti dal termine di una partita dimenticabile nasce l’inarrestabile spina nel fianco degli attaccanti della Bundesliga. Wakabayashi entra in campo e Kaltz si trasforma. C’è qualcosa di soprannaturale nel modo in cui si trovano senza comunicare: Kaltz orbiterà naturalmente a chiudere gli angoli ciechi del portiere, le rimesse di Wakabayashi troveranno sempre i piedi del mediano come uniti da un filo invisibile. Metà dei goal realizzati da Hermann Kaltz come professionista saranno in contropiede su assist del portiere.  

La difesa dell’Amburgo SV si scioglie e rimpasta, la fronte di Kaltz si apre in un’espressione rilassata e il loro numero otto smette di sbattere su e giù come una trottola per spegnere ogni incendio. Karl vede e lascia che la calma gli ghiacci i nervi e glieli riaccenda. Il vantaggio ha reso Magath sordo e cieco. Meglio. Così è tutto più facile.

Attacco, centrocampo e difesa. Karl Heinz Schneider è accessorio, ma non smette di far parte di un mostro a tre teste: Schneider-Kaltz-Wakabayashi, il “trio dell’Amburgo SV”. Dopo aver dominato l’under tredici e quindici non giocheranno più insieme e non solo per il trasferimento al Bayern di Karl. No. Gli dei del calcio non glielo permetteranno. Sarebbero stati troppo invincibili. A parte per l’Olanda, quella volta…

Invincibile è come Karl si sente ora quando non sa che un giorno guarderà al passato con la disperazione di chi aspettandosi cemento sotto i piedi trova solo sabbia.

Wakabayashi non si fa problemi a parare il tiro del capitano avversario. La sua rimessa pulita, precisa, scivola tra i piedi di Kaltz senza interrompere la progressione del mediano in avanti. Non sta puntando alla porta, ma a Karl: Schneider ha promesso una tripletta.

Quattro a tre, le gocce dei minuti si congelano nella clessidra. Wakabayashi esce dall’area, entra in scivolata su Magath che guarda senza capire il portiere scattare lontano con il pallone. Kaltz è arretrato, Strauss è in fuorigioco e lui, Schneider, troppo marcato. C’è un altro giocatore, uno ben posizionato: un idiota che è un buco nero nella periferia dello sguardo avversario. L’assist di Wakabayashi è per Bernd Hinmel. Per la prima volta nella sua vita il trequartista fa qualcosa di buono: segna.

Pura fortuna. Il tiro faceva schifo. Il portiere avversario doveva essere distratto.

Pareggio.

L’arbitro stabilisce cinque minuti di recupero e ovviamente quella mina vagante che è Klaus Hertz decide di falciare Magath facendo fallo sull’ultimo uomo. Davanti agli occhi dell’arbitro. Scatta il giallo e pure un rigore. Ci sta tutto. Non importa quanto si lamentino i suoi compagni. Giocare duro non significa essere dei completi imbecilli. Due minuti e mezzo: sconfitta se il pallone entra, pareggio se Wakabayashi fa il miracolo.

Karl vede una terza opzione, così come Kaltz e… Hinmel. Un minuto e quindici, Karl non ha bisogno di guardare: il pallone che Wakabayashi ha appena fermato ha il nome di Hermann Kaltz. Il portiere lo troverà sempre dopo una parata difficile. Così Karl scatta in avanti, cerca una buona posizione per un assist che sa non arriverà, ma distrae ciò che rimane della difesa avversaria. Una manciata di secondi. Kaltz tira.

L’arbitro fischia: quattro a cinque.

Hanno vinto.

Hermann e Genzo lo trascinano a terra per i pantaloni e se lo schiacciano in un abbraccio di gruppo, Karl ride e si sente non soddisfatto, ma felice. Quando lo liberano va a stringere la mano a Magath.

- Hai dei compagni in gamba, Schneider.

È vero. Haness e Lintz tentano senza successo di avvicinare Wakabayashi per sollevarlo da terra. Strauss e Heintz cercano Karl durante i festeggiamenti perché sono felici di averci giocato assieme. Come una squadra. Un pezzo di ghiaccio, come una ferita nel cuore, si scioglie, diventa acqua e riempie il vuoto con un sorriso e qualcosa di vero.

Papà gli aveva chiesto di non farsi rovinare il calcio. Karl ci ha provato, c’è pure riuscito, ma non è bravo a scegliere come e quando le cose gli capitino. Inizia a pensare che giocare non basti a renderlo felice. Ci vuole…

Ruba Genzo al quadrato dei difensori, recupera Hermann alla macchinetta delle bibite e li trascina fuori dagli spogliatoi, dove c’è silenzio e tre bicchieri di cola. Sua madre non è venuta a guardarlo giocare, ma è giusto che per Kaltz Emilia ci sia. La saluta e stringe il tempo in cui è in compagnia dei suoi amici al petto.

Il calcio con Genzo ed Hermann è divertente.

Un posto a cui appartenere.

***

Le brutte giornate iniziano con la pioggia, un piede appoggiato male scendendo dal letto, un dolore alle articolazioni che non ti sai spiegare e il ricordo di non aver studiato per la verifica di storia.

Le PESSIME giornate iniziano come un giorno qualunque.

È il nove di giugno e il pomeriggio è un gatto pigro che fa le fusa contro i piedi di Karl. Scuola finisce tra due settimane, la Hawthorne ha assegnato quattro letture estive, mentre la Bumgarner fa comprare una sorta di eserciziario pieno di quell’assurdità che sono le disequazioni. Non servono a nulla e quindi non le capisce.

Il calcio invece rallenta, ma non si ferma, a parte per due settimane ad agosto che Friedman concede con una piega della pelle che gli accartoccia l’occhio sinistro. Forse gli sta venendo un tic. Un po’ di riposo gli farà bene.

Kaltz ha fatto un sacco di scene prima di annunciare che lui e il resto della famiglia quest’anno se ne vanno al mare in Italia. Ha comprato uno di quei dizionari per turisti e sta memorizzando frasi “da rimorchio”. Pare convinto che le italiane aspettino solo lui. Genzo gli si piazza accanto per decriptare la pronuncia, poi fissa un punto distante, aggrotta le sopracciglia e dice:

- Al mare ci sono le turiste. Ti insegno qualcosa in giapponese o cinese se vuoi.

Kaltz sussurra “genio” e qualcosa di completamente insensato come “le pupe in vacanza sono sempre in cerca d’avventure” che, onestamente, apre uno scenario inquietante sulla salute mentale del suo più vecchio amico. Genzo ripete scioglilingua inservibili e lo aiuta ad appuntarseli per iscritto. Ci mettono una ventina di minuti buona.

Il sole è alto e stanno morendo di sete, Kaltz perde a testa o croce, si tira in piedi e va a recuperare qualcosa da bere al bar che sta vicino. Quando il suo udito arriva fuori portata, Genzo si china verso Karl e gli bisbiglia all’orecchio:

- Le ragazze vanno matte per cose come “buongiorno, soffro di una malattia sessualmente trasmissibile”.

No.

Non l’ha fatto davvero.

Si volta, le labbra di Genzo vibrano prima di esplodere in una risata. Karl non s’era aspettato questo suo lato bastardo… gli piace. Sorride e spinge dove le loro spalle si sfiorano. Il portiere non si sposta e il sorriso di Karl si trasforma in un suono leggero e nasale. Ridere è stranamente facile. Quando Kaltz arriva, lattine in mano, li fissa sghignazzare ed i suoi occhi diventano fessure ancora più sottili. Prende il dizionario tascabile e glielo tira dietro. Dannato telepate.

Da qualche tempo, o almeno da quando mister Friedman ha preso a liberarli prima, appestano il campetto rovinato che sta a venti minuti a piedi da quello della squadra. Ci stanno dei cespugli di rovi appena dietro la porta che sono un attentato a piedi e mani, ma rispetto a quello dell’under undici o in generale delle juniores dell’Amburgo SV, questo è sempre aperto. Genzo l’ha scoperto in uno dei suoi giri d’esplorazione in jogging e Karl, da bravo capitano, l’ha ribattezzato loro rifugio. Kaltz non ne è stato entusiasta: “l’area è in pendenza Schneider” e “quella è ortica Schneider” e “hai presente quanto siamo distanti dalla fermata del bus Schneider?”

Rompiballe. Alla fine però li segue quasi sempre. Probabilmente per trovare nuove ragioni per cui lamentarsi. Oggi per esempio il programma prevede:

- Non potevi, che so, chiedere a Friedman di darti le chiavi? – Kaltz rantola sdraiato tipo stella marina. Il campo è storto e hanno corso fino a spaccarsi. Karl è troppo stanco per pungolarlo col piede, cerca senza successo di mandare un messaggio mentale a Genzo perché lo faccia al posto suo. – Quell’uomo ti adora e sa che hai Genz-man qui per essere responsabile. Vi state complicando la vita e basta.

No. Kaltz non capisce, questo campetto sarà pure distante, ostile e francamente impraticabile, ma è roba loro. Niente Hinmel di turno ad esitare sulle gradinate o Jara Strauss e Lintz a chiedere di partecipare con Genzo che fa spallucce e dice sì. Karl sarà anche il capitano, ma nessuno potrà mai obbligarlo a spendere il tempo libero col resto della squadra. O ad essere loro amico. Ha visto cosa sta sotto la vernice dei sorrisi, è imprudente dimenticarlo.

Onestamente non sa come Genzo ce la faccia.

Visto come andrà a finire la giornata, Karl non avrà mai il coraggio di chiederglielo.

Alle diciassette e trenta, la voce di Emilia Kaltz taglia l’aria. Hermann arranca in piedi, sostiene che per oggi ne ha avuto abbastanza dei loro brutti musi e chiede se vogliono un passaggio. Il sole è alto nel cielo, casa sarà distante quaranta minuti a passo spedito, ma il tempo si allunga e restringe quando è da solo con Genzo.

Il suo portiere borbotta qualcosa su un Mikami che farà tardi, poi rotola su un fianco, lo fissa negli occhi e gli chiede cosa voglia fare. “Ficcare questo momento nell’ambra e lasciarlo cristallizzare” non è una risposta, così Karl dice:

- Dammi quindici minuti e poi riproviamo il tiro.

Karl dice “tiro” ed intende quell’ibrido strano ancora troppo lento per meritarsi il titolo di “fire shot”. Per perfezionarlo gli ci vorranno sei mesi e l’assistenza di un portiere troppo idiota per capire quando dire basta. Genzo urla qualcosa a Kaltz che risponde con un ghigno, un sopracciglio sollevato e sillaba “stendilo tigre” in direzione di Karl quando il portiere non guarda. Che idiota.

Chissà poi cosa voleva dire.

La macchina di Emilia si allontana, Genzo si tira in piedi e gli offre una mano. Karl la prende e procedono a distruggersi per la successiva mezz’ora, finché il pallone non atterra tra le ortiche e nessuno di loro ha intenzione di estrarlo. Finiscono per recuperare un bastone, spingere la sfera in sicurezza ed inzupparla dell’acqua che è rimasta nella borraccia.

Saranno le diciotto e un quarto, Karl non ha portato l’orologio. Maria è a casa di un’amica e si ferma fuori a dormire, mamma va a cena con una vecchia collega dell’emittente televisiva. C’è una scatola d’avanzi in frigo e tutto il tempo del mondo ad aspettarlo.

Se svoltano a destra ora allungano la strada di un quarto d’ora però passano vicino al lungo lago. Perché no? I lampioni accesi colorano di verde le acque tremanti, Karl lascia che il silenzio strisci e riempia il brusio che di solito gli marcia in testa. Quando è da solo con Genzo, può permettersi di non pensare. Deve solo mettere un piede davanti all’altro.

La strada piega, abbandonano l’Außenalster per stradine scure che li riportano nei presi dello stadio. Forse è solo un impressione, ma c’è una voce che li sta chiamando. Genzo si blocca, Karl è mezzo tentato di afferrarlo per un braccio e trascinarselo dietro. La voce si spezza e moltiplica, smettono di essere soli.

Karl non ha un’opinione particolare su Hans Krüger. È portiere titolare da quando Hoffman è passato all’under diciassette, sorride spesso e galleggia in partita. Senza infamia e senza lode. Ci ha giocato contro un paio di volte quando aveva otto anni, ma non lo ricorda. Non lo trova spesso fuori dall’allenamento e mai senza divisa: Krüger frequenta un’altra scuola.

Adesso se lo vede attraversare la strada deserta in jeans e maglietta. Krüger si piazza a distanza di sputo dal lampione sotto cui lui e Genzo si sono fermati e saluta con un sorriso stanco e affilato. Non è da solo: tre ragazzotti gli trotterellano appresso. Due di loro Karl li riconosce subito: sono compagni di squadra.

Klaus Hertz e David Gongels sono due sfumature dello stesso incapace.

Hertz è entrato nell’Amburgo SV lo stesso anno di Hermann diplomandosi con un calcio in culo da una squadretta minore nella periferia cittadina. All’attaccante c’erano volute due settimane e quattro giorni per riportare alla ribalta pettegolezzi sui suoi vecchi avversari e ora nuovi compagni. La forza combinata di coach Friedman e del capitano dell’under 17, Matthias Bausler, aveva riportato la pace. Poi aveva aiutato che Mayer si facesse investire uscendo dall’allenamento: la juniores dell’Amburgo SV si era attaccata alla novità ed aveva smesso di rumoreggiare su altro. 

Le voci non erano riemerse.

David Gongels in difesa ha più buchi di un colabrodo. Hermann dice di esserselo beccato al provino per entrare in squadra, di avergli soffiato un pallone e non essersi beccato un cazzotto in faccia per un pelo. Per Karl, Friedman tiene Gongels titolare perché è alto e pesa due volte uno qualsiasi dei suoi coetanei. La fisicità nel calcio giovanile è un vantaggio flessibile. È la ragione per cui Yilmaz, praticamente uno scheletro vestito, non viene mai fatto giocare. Hermann l’ha guardato strano due settimane fa quando Karl l’ha detto e aggiunto:

- Ma sei serio Schneider?

Che è il modo gentile per chiedere se sia un idiota. Genzo invece aveva sorriso e basta, ma quell’affare tirato che sottintende che Karl si sia perso di nuovo qualcosa.

Il terzo tipo non sa chi sia: è alto, famigliare e coi capelli a spazzola. Sta alle calcagna di Krüger e ridacchia in modo affatto amichevole. Il brusio nella testa acquista potenza: “vattene”. Non gli dà retta. Sarebbe stupido. Karl non ha niente da temere da questi quattro idioti: è troppo indispensabile e lo sanno. Hertz ci tiene al posto in squadra, non rischierebbe mai l’ira di coach Friedman.

Genzo fa un cenno a Krüger che lo ignora e si rivolge direttamente a Karl.

- Ehi Schneider, allenamenti segreti? Guarda che con ‘sto muso giallo sprechi il tuo tempo.

Gongels e lo sconosciuto ridacchiano, Hertz no. L’attaccante corruccia le sopracciglia e fissa un punto distante tra l’orizzonte e la spalla di Genzo. Il fischio nelle orecchie diventa più forte. VATTENE. Lo soffoca, perché su questa cosa davvero non ci sta: Wakabayashi è un giocatore fantastico.

- Mai quanto quello che voi sprecate in partita. – Aspetta, ora ricorda perché lo sconosciuto ha un’aria famigliare: è una delle riserve. Tutta gente abbastanza inutile. – Non importa dove sei nato: se hai talento ce l’hai e basta. E poi Friedman da settembre mette Wakabayashi titolare, lo sanno anche le gradinate dello stadio.

Krüger no. Nemmeno Genzo. Nella coda dell’occhio le labbra del suo portiere si irrigidiscono in una piega rilassata, più sotto ci sta qualcosa di caldo, di vero. Idiota, è ovvio che il coach l’ha notato che sei in gamba, ti aspettavi mica ti tenesse in panchina per sempre? Karl non guarda Krüger arrossire e chiudere le mani in una presa così stretta da tagliare la circolazione. Non vede Hertz scuotere la testa, cambiare idea e prendere posto di fianco all’amico. Non nota Gongels e l’altro, Ernst Braun, scattare in avanti.

Non li vede neanche Genzo, perché ha le spalle voltate mentre dice:

- Se abbiamo finito qui, io me ne torno a casa.

Genzo fa un cenno a Karl e prende a marciare in direzione opposta aspettandosi di essere seguito da un amico. Non va lontano. Il primo pugno è di Gongels e colpisce Genzo alla nuca. Il portiere fa un suono come stupito e il rumore esplode nella testa di Karl. Stupido, stupido. VATTENE.

Il secondo è di Braun, arriva a mezzo secondo dal primo e centra Genzo sul collo, lo fa arretrare di un centimetro e perdere l’equilibrio. Così, mentre si tiene la gola, al portiere arriva un calcio, una gomitata in pancia e le ginocchia di Genzo cedono. Tamburi nelle orecchie. VATTENE.

Il portiere afferra Gongels per le caviglie e tira, il numero sei emette un suono impacciato e Hertz passa oltre Schneider per affondare un calcio nella costole di Genzo. Un suono sordo. Così rumoroso. Bianco in testa, freddo nelle ossa, Karl rimane immobile e perde conto dei pugni, dei calci. Sa che Krüger si è preso coraggio e che Braun sta dicendo qualcosa tipo “tornatene al tuo paese” o un più allarmante “allora i gialli sanguinano rosso” e sono in quattro e Gongels è il doppio di lui e da quanto stanno andando avanti? VATTENE. Come c’è finito in questa situazione?

Karl sta a guardare. Karl sta sempre a guardare. Papà fa le valige, scende le scale, si ferma sulla soglia. Karl guarda e non dice niente. Lo lascia andare. Hermann gli tira un cazzotto, piange e Karl guarda mentre il tappeto mobile che è il campo di calcio inesorabilmente si muove attorno. L’arbitro tira fuori il rosso, Hermann esce e Karl lo lascia andare.

Karl sta a guardare. Sta soprattutto a guardare quando Wakabayashi è coinvolto. Forse è una maledizione, un castigo. Un giorno Karl starà a guardare Misugi togliersi la maglietta, urlare a Hyuga di dargli una mano e premere la stoffa contro il collo e la schiena di Genzo che è a terra e Karl si domanderà cosa gli sia rimasto da lasciare andare.

Karl sta a guardare anche ora, mentre Genzo prova a rialzarsi e Krüger lo centra alle spalle col piatto del piede. Stupido, stupido. Il portiere si gira, si arrotola, cerca i suoi occhi.

L’incantesimo che inchioda Karl Heinz Schneider al terreno si spezza.

Come c’è finito in questa situazione?

VATTENE.

Karl volta le spalle a Genzo Wakabayashi e se ne torna a casa.

 

 

 


 

NOTE:

 

E... ci siamo arrivati: una delle scene oggettivamente più disturbanti del manga e volevamo forse che mancasse? Anche perchè è la ragione per cui questa storia esiste: un secolo fa avevo scritto una one shot in inglese che ho poi deciso di trasformare in una long in italiano (credo di aver tenuto dell'originale solo la scena dell'incontro nel primo capitolo).

 

In generale le scene tetre sono un sacco orribili da scrivere, accidenti.

 

Il prossimo capitolo sarà spezzato in due parti, quindi POV di Genzo per due mesi di fila cominciando da un flashback che ci porta indietro nel'estate del 1982 per tornare nel '86 ad osservare l'evoluzione del suo rapporto con Schneider.

 

 

>>> A prescindere dal bene e dal male (p.1)

Genzo Wakabayashi ha un'idea molto precisa su cosa significhi essere crudeli.

 

 

 

  
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