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Autore: annapuff    05/11/2022    0 recensioni
Yoongi e Isabel si sono incontrati all'aeroporto così proprio come il fato aveva deciso.
Entrambi ormai divisi da tre anni, provano ad andare avanti con le proprie vite e i propri problemi.
Continuano a essere separati, lei alle Hawaii dalla madre, e lui in tour con gli altri membri.
Ci troviamo nel 2017 che prospetta tante tragedie, tanti personaggi sia vecchi che nuovi e anche scandali!
Genere: Sentimentale, Suspence, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Jung Hoseok/ J-Hope, Kim Taehyung/ V, Min Yoongi/ Suga, Nuovo personaggio
Note: AU, Missing Moments, Soulmate!AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Maybe it's fate'
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CAPITOLO 6: BATHTUB AND BALCONIES
 
27 MARZO 2017 HONOLULU 20:00 SERA
28 MARZO 2017 00:00 CHICAGO
Isabel aveva aiutato Win-hoo a prepararsi per la sua uscita, e sotto suo consiglio alla fine aveva mandato un messaggio a Chung-hee che aveva risposto quasi immediatamente, proponendoli una cena in un ristorante che aveva scovato, dove preparavano alcuni piatti di ricette Fusion e che non vedeva l’ora di provare.
Isabel si era finita di preparare da poco, si trovava davanti allo specchio a contemplare la sua. Nello specchio si rifletteva dietro di lei anche il letto in un totale  disordine, causato dalla marea di vestiti che lei aveva provato e poi scaraventato sopra.
Nella sua vita non si era mai troppo premurata di come si vestisse o del trucco, aveva i suoi outfit programmati, come anche gli accessori. Il tutto era stato scelto da Do-yoon quando era in vita. L’uomo infatti le aveva insegnato cosa fosse giusto mettere in qualunque situazione, ma quando era morto, ci aveva pensato Win-hoo al guardaroba.
A lei poco importava di cosa indossasse, anche perché la realtà era: che i suoi adorabili vestiti comodi non erano adatti all’ambiente in cui viveva ed era costretta ad utilizzarli solo in casa.
Tutto il suo intero guardaroba era tutto programmato e organizzato, così non darle preoccupazione su cosa dovesse indossare o sul dover essere carina per qualcuno.   Qualunque cosa indossasse andava bene perché scelta da occhio esperto. I suoi abiti erano catalogati in modo che lei fosse unicamente perfetta, per attirare l’attenzione dell’elitè.
Era la prima volta che si ritrovava a voler attirare, ma no quella del mondo bensì quella di qualcuno, non voleva sembrare perfetta, voleva solo provare a essere semplice e carina, se stessa. 
Sorrise riluttante allo specchio, non riuscendo a capire se fosse realmente lei in quei abiti, o se fosse la Isabel Chaebol.
Era tutto così complicato, specialmente capire chi fosse realmente, c’erano troppe definizioni, troppe maschere a circondarla.
Era stata una bambina, attenta alle regole, quella che doveva far tutto quello che gli altri le dicevano.
Era stata una bambina che aveva visto i soprusi di suo padre e la violenza contro sua madre.
Era stata una ragazzina che aveva provato a prendersi cura della propria madre. Fallendo.  
Era stata una ragazzina abbandonata, che aveva perso le speranze e aveva deciso di vivere di fantasie, di dimenticare tutto e provare a vivere di sogni.
Era stata un’adolescente, che passava intere giornate fuori casa, responsabile di se stessa, che cercava un modo per essere libera un giorno, un’adolescente che si era creata un modo e che aveva un progetto.
Era stata un’adolescente, che aveva perso tutti i suoi sogni e si era ritrovata ad andare dall’altra parte del paese, per un ordine imposto dal padre. Dittatore.
Sola per i primi mesi, insicura di cosa sarebbe stata la sua vita, di cosa le avrebbe riservato il futuro, impaurita da un contesto così lontano, da quello a cui si era adattata in America.
In quel contesto però aveva trovato lui.
Era diventata una compagna di banco, era riuscita a farsi un amico, pur non essendo simile ai canoni della società in cui era finita, pur avendo idee del tutto differenti.
Era stata una sorella per altri sei ragazzi, aveva provato amore, gioia e allegria.
Era stata la fidanzata della persona, a suo dire più speciale in tutto il mondo, aveva amato lui con ogni cellula del suo corpo.
Era stata costretta a indossare una maschera, quella della stronza per salvarlo.
Maschera caduta, ormai fin troppe volte davanti a lui, davanti ad altre persone, quelle che la conoscevano bene.
Era stata depressa, triste, sofferente, paranoica.
Era diventata la regina dei ghiacci, lo era tutt’ora per la società di cui faceva parte.
Era stata l’amica per un uomo che le aveva dato tutto, un uomo che si era tolto la vita per un amore impossibile, simile al suo.
Era stata depressa, triste, sofferente, paranoica.
Era stata in via di guarigione, ci aveva provato ad andare avanti, l’aveva fatto per le persone che l’avevano pregata.
Tutto questo essere stata: non era abbastanza.
Tutto ciò che aveva subito, che aveva affrontato, che aveva provato, non era abbastanza a farle avere una definizione di chi fosse realmente.
Molto probabilmente, la realtà era che una definizione non c’è e non ci sarebbe mai stata, perché tutti siamo un qualcosa in un diverso momento, e quel qualcosa può cambiare con il tempo.
Isabel era stata fin troppo, e sapeva che sarebbe stata altro.
In quel preciso momento voleva solo essere una ragazza normale, che usciva con un qualcuno di estraneo alla sua vita, alle sue sofferenze e ai suoi problemi. 
Voleva provare a essere un qualcosa di nuovo, con nuove emozioni.
Voleva provarci, anche se nella sua testa aveva sempre il pensiero di essere fin troppo legata al suo passato, a lui, a loro.
Prese il telefono che aveva poggiato sul comò vicino allo specchio, se lo rigirò tra le mani, incominciò a digitare il suo nome nella rubrica.
Doveva sapere come stesse andando, se Jimin stesse bene, così da poter vivere, provare a uscire il più spensierata possibile.
“Pronto, Dashimen” disse appena il telefono smise di squillare.
“Ehi…” disse lui a disagio.
“Volevo sapere se fossi arrivato, se va tutto bene” chiese lei incerta dato il saluto di lui, incominciò a camminare per la stanza in circolo, leggermente nervosa.  
“Si sono qui, va tutto bene, a breve vado al commissariato a controllare la situazione, sono in hotel.” Disse lui in modo veloce e tentennando di tanto in tanto.
“Oh… sei con loro?” chiese lei percependo un disagio nella voce.
“Si.” Disse lui senza aggiungere altro.
“Oh… va bene, allora chiudo, che è meglio, tienimi aggiornata, Jimin sta bene?” chiese lei poi incerta.
“Si, per il momento si”
“Perfetto, ciao Dashimen, ti lascio a loro” disse lei stringendo con forza il telefono con la mano.
“Ciao” disse lui ma lei chiuse subito il telefono, facendolo cadere poi per terra.
Ti lascio a loro.
Ti lascio a lui.
Aveva ancora quel dubbio, di Hoseok, e avrebbe tanto voluto averne la certezza.
Era riuscita a mandare Yun-hee da Jimin, forse lei avrebbe dato conferma ai suoi sospetti, forse lei avrebbe aiutato Dashimen a stare con chi realmente amava.
Lei non poteva farlo, poteva solo lasciarli andare. 
Stava pian piano intuendo il perché Dashimen non le avesse detto niente. 
Si preoccupava che lei ne avrebbe sofferto, che si sarebbe sentita esclusa e sola.
Lei voleva solo che altre persone non subissero la sorte che lei e Do-yoon avevano avuto.
Per quanto realmente si sentisse sola ed esclusa, non aveva importanza, lei lo sarebbe stata lo stesso.
Avrebbe rinunciato a tutto per far si che le persone a cui volesse bene fossero felici.
Sarebbe rimasta anche da sola, se la sarebbe cavata.
Prese una giacchettina dall’armadio, raccolse il telefono e si diresse verso le scale che portavano al piano inferiore, per aspettare Chung-hee. 
Lei sarebbe andata avanti, se la sarebbe cavata comunque, loro sarebbero stati felice anche senza di lei.
 
02 APRILE 19:00 HONOLULU
Isabel aveva passato la mattinata con Chung-hee erano andati con la gabbia di vetro nell’acqua a vedere gli squali, avrebbe voluto portare con sé anche Win-hoo, ma il ragazzo aveva dovuto seguire delle lezioni per tutto il giorno.
La mattinata era stata molto divertente, le era piaciuto fare un qualcosa di diverso e anche spericolato. 
Più passava il tempo con Chung-hee più si sentiva sempre più leggera.
Con lui si sentiva protetta, ascoltata, parlava a macchinetta di qualunque argomento, e lui contribuiva alla conversazione.
Avevano tanto in comune, e in fin dei conti erano due persone a cui piaceva l’avventura.  Lui faceva tutto quello che lei avrebbe voluto fare, cioè esperienze di diverso tipo a contatto con varie culture e viaggi.
Era stato quello il suo sogno molto tempo addietro, quando viveva a Chicago e sua madre era sempre assente, e suo padre in Corea. In quel periodo della sua adolescenza quando era sempre in giro, sognava di viaggiare per il mondo e scrivere le sue esperienze, sognava di scrivere di viaggi.
Era cresciuta con il mondo dei libri e avrebbe voluto far parte anche lei degli scrittori di quel mondo mettendo per iscritto i suoi pensieri.
L’unico libro che invece aveva in programma di scrivere, non era sulle sue avventure emozionate, bensì di scandali del mondo di cui faceva parte.
Ancora scriveva la sera, e ne stava approfittando molto nei momenti liberi alle Hawaii.
Scrivere l’aiutava a pensare di meno, anche se negli ultimi giorni si era ritrovata a scrivere ben altro. 
Per quanto potesse passare del tempo tranquillo e spensierato con Chung-hee, le sue notti erano ancora piene d’incubi, talmente tanto brutti da farla svegliare e metterli per iscritto. Si sentiva confusa dopo averli letti, non sapeva se fossero reali o solo incubi. Sembravano difatti ricordi del suo passato, brutti ricordi del suo passato, e in tutti c’era sempre sua madre sotto le grinfie di suo padre. 
Un ricordo che la tormentava era sempre quello di una vasca da bagno con sua madre all’interno, l’acqua nera e il sangue che gocciolava sul pavimento. Sapeva che quell’incubo ricorrente era un ricordo, uno dei pochi che non era riuscita a cancellare, malgrado l’impegno.
A quell’incubo se n’era unito un altro, dove c’era un balcone, e una donna bionda pronta a cadere giù.
Quell’incubo però non era sempre uguale, a volte cambiava e lei non ne capiva il perché: c’erano momenti in cui la donna cadeva, altri invece  quella donna era sul pavimento con qualcuno che la salvava, quel qualcuno era minuto e aveva folti e lunghi capelli neri. Isabel era quasi del tutto certo che l’incubo inerente al ricordo era il secondo, dove quell’esserino minuto che salvava la donna cioè sua madre potesse essere lei.
Si era resa conto, in quei giorni che passava con il dottore ad analizzare quegli incubi che: una delle prerogative delle case che aveva comprato era l’assenza del balcone.
Solo la casa di Chicago dove erano stati, aveva avuto il balcone e quella casa non l’aveva scelta lei al tempo, ma Dashimen. Si era ritrovata in piena notte davanti a quel balcone in stato di trance, più di una volta. 
Odiava i balconi, erano sinonimo di suicidio per lei. 
Aveva avuto pensieri suicidi, ma si era sempre trovata distante da compierlo troppo terrorizzata, per quanto avesse voluto mettere fine alla sua vita, non ne aveva mai avuto la forza.
Sua madre invece, ci aveva provato, almeno così pensava di ricordare.
Lei, no, non avrebbe mai potuto causare quell’ulteriore sofferenza a Yoongi.
Era stata quella la ragione principale del perché non si era mai lasciata andare, tra altro il dolore per il suicidio di Do-yoon era stato talmente agognante, che mai avrebbe voluto che qualcuno lo provasse a sua volta.
Dashimen era diventato anche un’altra ragione per non morire, il ragazzo aveva perso talmente tante altre persone, che lei non avrebbe mai potuto recargli di nuovo quello straziante dolore di perdita.
Dashimen, con cui il rapporto era ancora così instabile, a cui avrebbe dovuto porre rimedio. Per quanto l’era difficile ammettere, le mancava terribilmente, le mancava tutto del loro rapporto, anche le litigate. Sapeva che l’unica cosa che poteva fare per porre rimedio a quella situazione: era dirgli che lei sospettava di Hoseok, e rassicurarlo che non avrebbe causato nessun problema il fatto che lui stesse con lui, che invece l’avrebbe resa felice. Per quanto le mancasse, era arrivata alla conclusione che era pronta a lasciarlo andare per il suo bene. Avrebbe rinunciato a lui senza dirglielo, l’avrebbe mandato dritto tra le braccia del ragazzo che amava.
Si era decisa a chiamarlo l’indomani, ormai aveva preso quella decisione, l’avrebbe chiamato e gli avrebbe chiesto di raggiungerlo per parlare di tutto.
Aveva bisogno di risolvere quella situazione, ed era una cosa che poteva fare.
 
Entrò tranquillamente con la macchina dentro la clinica, parcheggiò in un parcheggio libero e si avviò all’ingresso. Ormai conosceva quel posto fin troppo bene.
Raggiunse sua madre verso la zona ristorante, avevano deciso in quella giornata di cenare insieme. Erano ormai giorni che parlavano, senza finire in una litigata, ma sostanzialmente non erano ancora giunte a parlare di argomenti intimi.
Si andò a sedere al tavolo, dove era accomodata la donna.
“Ciao” disse provando ad accennare un sorriso, che le uscì come una smorfia.
“Sono felice che ti sia unita per la cena”
“Bene che si mangia?” chiese lei contemplando il bicchiere d’acqua, le sarebbe servito del vino per reggere un’intera cena con sua madre, aveva preso la decisione di dare un ultimatum alla donna, non poteva rimanere per sempre lì, aveva un lavoro a cui tornare.
 “Oh, non lo so, a breve portano da mangiare” provò a dire la donna un po’ a disagio.
“Comprendo…” disse la ragazza a corto di parole non sapendo se fosse il caso di essere subito diretta o invece intraprendere il discorso a cena inoltrata.
“Non ti ho disturbata da qualche impegno?” chiese la donna, leggermente intimorita da una possibile risposta, si incominciò a lisciare le pieghe delle gonna con far nervoso.
“Ehm… ora ti poni il problema? Sono qui da un mese, ho messo in pausa tutti i miei impegni” disse Isabel con tono ironico, non riuscendo a trattenersi.
“Da quel che mi era sembrato di capire, vivi anche tu in una prigione a Seul, forse qui sei più libera” provò a dire tentennando la donna, che invece sperava di averle fatto del bene.
“Mh.. libertà strano concetto, sono qui sempre perché obbligata, ha poca importanza se passo il tempo in giro. Alla fine dovrò tornare a Seul, e sinceramente spero che accada velocemente, preferisco tornare con le mie gambe e con un risultato. Se dovesse venire lui a riprendermi, perché non sono giunta a un accordo con te, penso che non si metterà bene per me” disse Isabel con riluttanza nella voce, guardando la madre sperando che avesse pietà per lei e la lasciasse andare.
“Non ti farà del male, non può” disse lei con decisione.
“Ah si? Pensi che non me ne abbia mai fatto?” chiese lei con uno sbuffo sprezzante.
“Ti ha fatto del male?” chiese la donna riluttante, non pensava che l’ex marito maltrattasse anche lei.
“Eh? Dai!” esclamò con vemenza la ragazza. “Sei stata sposata con lui, hai subito la violenza sulla tua pelle. Cosa ti fa credere che sia stato dolce nei miei confronti?”
“Io…. non pensavo che avesse potuto toccarti” tremò la donna confusa.
“Ah no? Perché ho il suo stesso sangue? Sono comunque una meticcia, cagna, puttana, uno sbaglio, un errore nella sua vita.” Sputò fuori con disprezzo quegli insulti scandendoli per bene, sotto lo sguardo terrorizzato della donna.
“Mi dispiace” disse tristemente la donna aggrappandosi con le mani alla gonna.
“Aigoo… lo so, ti dispiace… vuoi fare ammenda, è uno dei punti del percorso, sono qui per questo. Era questa la tua richiesta, hai dovuto minacciarlo per farmi arrivare fin qui” disse Isabel con uno sbuffò scuotendo il capo con forza.
“Volevo provare a instaurare un rapporto con te” disse la donna con voce bassa guardando il tavolo, non riuscendo a guardare sua figlia negli occhi.
“Non so se sia possibile… posso comprendere il perché tu abbia avuto alcuni comportamenti, l’esserti lasciata andare più di una volta. Lo percepisco, lo sogno, ti sogno suicidarti sempre e in continuazione.” Sospirò Isabel passandosi una mano tra i capelli con stanchezza.
“Tu hai questi incubi? Sono la causa anche di questo?” disse la donna dandosi la colpa.
“Oh! No!” Trillo immediatamente Isabel sgranando gli occhi  “Non darti la colpa di questo. Ti prego no. Ci manca solo che io peggiori il tuo stato attuale, stai provando a fare progressi, non voglio portarti indietro di duemila passi!” esclamò Isabel correndo ai ripari.
“Io… sto provando a stare bene per te.”
“Non devi farlo per me, ma per te stessa. Fidati non possiamo avere un rapporto, e non è perché io non ho bisogno di una figura genitoriale, ma per la vita che faccio. Vuoi un consiglio, fai ammenda, mandami via, dimenticati di tutto il passato, volta pagina. Dai a mio padre quello che vuole e prova a vivere finalmente libera. Forse tu potrai a differenza mia” disse con sincerità Isabel, forse sua madre poteva salvarsi, forse era la volta buona che lei la poteva salvare, dopo tutti i fallimenti che aveva fatto da bambina.
“Non capisco perché non puoi… non sembri succube come lo ero io per amore, non capisco… perché tu dici a me di vivere libera, quando tu non lo fai” disse sofferente tornando a guardare la figlia cercando una motivazione.
“Io non posso farlo.” Disse schietta Isabel.
“Perché?” chiese la donna in modo acuto, continuando a non capire.
“Perché ha un qualcosa contro di me, che può usare quando vuole. Non sarei venuta qui di mia spontanea volontà… non mi ha dato la scelta. Mi ha imposto di venire da te, per farti calmare e farti promettere che non userai quello che hai contro di lui” cercò di spiegare Isabel.
 “Quindi non mentivi quando hai detto che ti ha costretto?”
“Perché avrei dovuto mentire?” chiese lei sconvolta.
“Che cosa ha contro di te?” chiese intimorita per via della rabbia della ragazza.
“Non sono affari tuoi. Vuoi fare la madre? Vuoi fare ammenda. Dammi quello che lui vuole e facciamo la finita”
“Che cosa ha contro di te?” chiese di nuovo la donna alzando lo sguardo sulla figlia.
“Aigoo!” esclamò Isabel cercando di respirare e di calmarsi, avevano entrambe gli occhi lucidi e si guardavano, entrambi sofferenti.
“Ha lui… ha l’unica persona che io amo. Mi ha fatto lasciare, mi ha minacciato: prima di rovinargli la vita, dopo di togliergli la vita.” Disse Isabel con le lacrime che le scendevano dagli occhi “Felice ora di saperlo?” chiese con rabbia.
“No… io non pensavo…”
“Ho avuto molte volte il pensiero che non fossero minacce reali, che non era in suo potere fargli del male.  Ho un cazzo di presentimento, un qualcosa dentro che mi fa dire che appena compirò un passo falso, la minaccia diventerà reale” provò a dire Isabel, la donna distolse lo sguardo dalla figlia e incominciò a singhiozzare, si alzò di colpo, la guardò con un attimo con gli occhi di sofferenza. “Scusa non sono pronta” disse solamente e scappò via senza guardare in faccia nessuno, lasciando lì la ragazza in lacrime e confusa.
Isabel rimase seduta a guardare il posto vuoto di sua madre, le mancavano dei tasselli, c’era un qualcosa che le mancava, qualcosa che sapeva nel profondo ma che non riusciva a ricordare.
 
FINE APRILE 2000 FLASHBACK
Erano le sette di sera e la sala da pranzo era stata imbandita, la famiglia Kim si era seduta a tavola con la famiglia Choi e il loro figlio, mangiavano tutti con tranquillità.
I due uomini facevano conversazione su vari affari e sulla politica.
Claudia ascoltava la signora Choi chiacchierare di una nuova asta di beneficenza che si sarebbe tenuta a breve e a cui avrebbero dovuto partecipare.
Alla fine del tavolo si trovavano Jung-jo con il figlio dei Choi che mangiavano loro godendosi la cena, Jung-jo parlava a macchinetta con il ragazzo che annuiva di tanto in tanto e che guardava con attenzione la bambina di fronte a lui, Isabel che era in silenzio come sempre in quelle occasioni, così come le era stato insegnato di fare.
La cena fu interrotta improvvisamente dal maggiordomo di casa, che si avvicinò al signor Kim dicendoli che fosse urgente che parlassero in privato. L’uomo si alzò con pacatezza, si scuso un attimo per la futura assenza e seguì il maggiordomo in un'altra stanza.
Claudia, tornò a chiacchierare con i coniugi Choi, dando poca importanza all’atteggiamento del marito, fino a quando l’uomo non tornò da loro con la faccia cupa.
“Chung-oh, lei e sua moglie mi dovete scusare, ma sarà impossibile per me venire a teatro con voi, è successo un imprevisto” disse in modo educato l’uomo
“Oh, non si preoccupi, togliamo il disturbo, faremo un’altra volta. È stata una cena fantastica e lo dice un esperto” rispose in modo educato il signor Choi alzandosi in piedi.
“Non c’è bisogno di annullare, potete andare lo stesso senza di me, Claudia può venire con voi, e il ragazzo può tranquillamente rimanere qui come era stato concordato, sono solo io che non posso trattenermi oltre” provò a dire l’uomo per poi guardare la donna che era ancora seduta e lo contemplava con rancore in viso.
“Non può pensarci qualcun altro? Devi per forza non venire?” disse lei infastidita da quel comportamento, era sempre costretta a partecipare a qualunque cosa controvoglia.
“No, non può pensarci un’altra persona” disse con tono autoritario, fulminandola con lo sguardo.
Isabel alzò lo sguardò dal proprio piatto, osservando il padre con gli occhi fessurati, nell’ultimo periodo ogni volta che si trovava con la madre era sempre violento, guardò per un attimo gli ospiti pensando che forse per quella volta si sarebbe contenuto.
“Che cosa sarà mai di  così urgente a quest’ora” disse la donna contrita.
“Il mio assistente Kim Jung-ko ha avuto un incidente, devo andare in ospedale a controllare come stia.” Disse con tono secco guardando la donna fissa negli occhi, godendo dentro di sé per via dell’espressione sul volto della donna, che cambiò improvvisamente in una maschera di terrore.
Claudia rimase immobile a fissarlo, la paura si faceva strada in lei, posò la propria mano sul suo petto all’altezza del cuore, e abbassò lo sguardo cercando di tenere un contegno, non poteva permettersi sbagli, non poteva permettersi emozioni, specie se quelle erano strazianti dentro di lei.
“Joon-bin, dovresti andare e anche velocemente, capisco è un’emergenza. Rimanderemo a un momento migliore” disse il signor Choi comprensivo.
“Si, sicuramente, ma penso che a mia moglie farebbe piacere venire con voi, ci teneva tanto. No cara?” disse l’uomo rivolgendosi poi alla moglie e tornando a guardarla, Claudia alzò lo sguardo su di lui, lo odiava con tutta se stessa.
Avrebbe solo voluto correre all’ospedale e invece non avrebbe mai potuto.
Sarebbe solo voluta sprofondare tra le lacrime, che volevano farsi largo dai suoi occhi lucidi, ma che stava cercando di trattenere con tutte le sue forze.
Era stanca di recitare, ma doveva farlo o le conseguenze sarebbero state peggiori.
Annuì con la testa, accennando a un sorriso falso.
Isabel vicino a lei provò di nascosto a prenderle una mano da sotto il tavolo, senza riuscirsi, conosceva il volto di quando stava male sua madre, ormai l’aveva imparato a memoria in quell’ultimo mese, in cui era sempre sofferente.
Claudia si alzò in piedi, doveva andare un attimo via da lì, si sentiva soffocare dalle emozioni, la stanza per quanto grande fosse sembrava solo che si stesse rimpicciolendo sempre più come a volerla schiacciare.
“Scusatemi, vado solo un momento in bagno, e poi direi che possiamo andare” disse lei educatamente inchinandosi leggermente per congedarsi per un paio di minuti.
Nel chinarsi, la collana che aveva al collo con una stella come ciondolo, si ruppe improvvisamente e cadde a terra, tintinnando sul pavimento.
Gli occhi della donna si fermarono a guardarla con orrore, si era rotta, pensò che fosse solo un segno, un brutto segno.
Joon-bin se la ritrovò vicino ai propri piedi, si chinò afferrandola, con un ghigno nascosto sul viso, la raccolse e se la rigirò tra le mani.
“Ti è caduta questa tesoro” disse porgendole accessorio, sorridendole falsamente, si avvicinò al viso di lei, facendo finta di aggiustarle dei capelli con fare amorevole e sussurrò al suo orecchio.
“Ti terrò aggiornata appena avrò novità, so che ci tieni” il suo tono era crudele e velenoso.
“Direi che dovresti sbrigarti, non vorrete fare tardi a teatro, ti piacerà lo spettacolo, mettono in atto una tragedia” disse con finta gentilezza posando una mano sul braccio della donna.
“Si, mi sbrigo” disse lei facendo un inchino e poi andando via verso il bagno stringendo con la mano la collana.
Appena la collana era caduta, era stato come se tutto fosse finito, quello era un segno, la sua collana era caduta e lui sicuramente non era sopravvissuto all’incidente.
Lui che le aveva regalato quella collana con la promessa che un giorno lei sarebbe tornata a splendere come una stella.
Lei che secondo lui era piena di luce ormai assopita.
Lui le aveva promesso di renderla felice.
Era tutto finito, lei sarebbe andata a teatro con la testa altrove, immersa nella paura, che lui fosse realmente morto, e non avrebbe potuto far nulla per sottrarsi a tutto ciò.
 
Isabel si trovava sul letto nella camera della madre, era andata lì per aspettare la donna, aveva provato a rimanere sveglia ma la noia dell’attesa aveva fatto sì che lei si fosse addormenta, in quel letto non suo.
La madre finalmente arrivò trascinandosi per la stanza, con mano un biglietto di carta ancora non letto, lasciatole dal marito. Aveva trascorso la serata più infinita della sua vita, senza sapere nulla del suo amante e di come stesse l’uomo.
Rimase per un attimo a contemplare la figlia che dormiva sul letto, non poteva occuparsi anche di lei, aveva altro nella sua testa a tormentarla.
“Isabel” la chiamò scostandola leggermente per farla svegliare.
“Ma-mma?” chiamò la piccola stropicciandosi gli occhi assonnata e cercando di guardare la donna.
“Cosa fai qui?” chiese la donna con tono distante.
“Aspettavo te per sapere come stavi” tentennò la bambina, sgranò gli occhioni e guardando la madre incuriosita.
“Sto bene. Dovresti andare in camera tua” disse secca.
“Posso tenerti compagnia, se vuoi rimango con te?” chiese la bambina con tono lieve e insicura di quella proposta.
“No. Non ti voglio qui, vai in camera tua” disse con tono autoritario e cacciandola, Isabel sbarrò gli occhi, nessuno la voleva, lei ci provava, ma qualunque cosa facesse veniva sempre cacciata da chiunque. Si alzò lentamente dal letto, poggiò i piedi nudi sul pavimento, guardò per un attimo sua madre con tristezza.
Si avviò verso l’uscita della camera, non capendo perché fosse sempre rifiutata da tutti.
La donna le chiuse la porta alle spalle, diede una mandata di chiavi, sospirò passandosi una mano tra i capelli in crisi.
Prese il biglietto e lo aprì con lentezza e paura.
Troppa paura in lei.
 
Nessuno mi manca di rispetto. Mai. 
Avrai solo il lutto a tenerti compagnia, è quello che ti meriti.
 
Il biglietto cadde per terra, come anche il suo cuore in mille pezzi.
Era colpa sua, lei era la causa della sua morte. 
Urlò a pieni polmoni, presa dalla pazzia e dal dolore.
Un dolore troppo grande da poter sopportare, un dolore talmente forte da farla cadere in ginocchio a terra, un dolore che la stava spezzando in due.
Alzò lo sguardo furioso sul quadro appeso alla parete. La rabbia prese il sopravvento immischiandosi con la sofferenza.
Si alzò di scatto avvicinandosi a quel quadro, che raffigurava un ritratto di nozze, lei con un vestito da cerimonia coreano rosa e lui al suo fianco, lei sorrideva, lui aveva la solita faccia senza espressione in volto. Prese il quadro con forza e cominciò a colpire con esso la poltrona di raso verde, fino a che il quadro non fosse del tutto rotto.
"Bastardo!" Urlò talmente forte da farsi male alle corde vocali.
Si avvicinò a letto e cominciò a disfarlo, lanciando tutto sul pavimento con rabbia, strappando con forza le lenzuola di seta indiana bianche e dorate e lasciandole cadere a  terra in frantumi.
Prese i cuscini rossi con i ricami dorati e cominciò a distruggere anche quelli, le piume all'interno incominciarono a riempire la stanza svolazzando per aria.
Salì sul letto si appese al baldacchino con tutte e due le mani, fece leva con le braccia, fece uscire tutta la forza che aveva in sé, urlando di nuovo a pieni polmoni e staccò il baldacchino che cadde a terra per metà  e la colpi sullo zigomo, creandole  uno spacco, il sangue andò ad imbrattare il materasso ormai spoglio.
Fece un salto a terra, non curante del sangue, del dolore o della stanchezza, andò a rovesciare il materasso, continuando a urlare.
 
Dalla porta chiusa della camera si sentivano le urla della bambina che era in corridoio e sbatteva i pugni sulla porta urlando.
"Mamma! Mamma!" urlava Isabel per via dei rumori che stava sentendo dalla porta.
“Mamma fammi entrare!!!” urlò sempre di più la piccola spaventata.
 
"Stai zitta!!"Urlò la donna in preda all'isteria.
 
Isabel continuò a urlare con voce rotta e singhiozzante.
 
La donna andò a rovesciare le due poltroncine con rabbia e incominciò a strappare il tessuto raso, che si andò a immischiare alla seta stracciata.
Continuò così a distruggere la sua camera da letto, con furia e pazzia, mentre si lamentava e piangeva presa dalla disperazione.
Finita di distruggere la propria stanza, cadde  a terra in ginocchio tra i detriti che aveva creato.
Piangendo disperata.
Si alzò a tentoni gattonando per la camera, si sollevò a fatica, stanca mantenendosi alla maniglia della porta chiusa che aprì subito dopo.
 
Isabel continuava a sbattere con forza alla porta, tirando la maniglia cercando di aprila piangendo.
“Isabel?” chiamò il ragazzino avvicinandosi a lei.
“Oppa!” trillò lei piangendo.
“Che succede?” chiese il ragazzino
“Oppa, non lo so! Si è chiusa dentro non mi fa entrare! Piange e urla! Oppa aiutami ti prego” strillò la bimba aggrappandosi alla maglia del ragazzino in cerca d’aiuto.
“Andiamo a chiamare qualcuno che apra la porta” disse lui con fare incoraggiante.
“No, Oppa io rimango qui!”
“Non ti lasciò da sola in lacrime, vieni con me, ti prometto che ti aiuterò” disse lui non volendola lasciare sola, l’abbracciò stringendola a sé, si staccò da lei le prese la mano e la trascinò via da quel posto in cerca d’aiuto. Qualunque cosa stesse succedendo, Chung-hee non l’avrebbe mai lasciato la sua mano, lui si sarebbe preso cura di quella piccola ragazzina.
 
Claudia entrò nel bagno privato della sua camera da letto, sembrava un fantasma camminava come se fluttuasse.
Si sentiva più morta che viva.
Quella vita non le apparteneva, non era più sua, non era più stata sua nel momento in cui aveva detto si a quel matrimonio.
Una bugia, era stata una bugia, pensava che sarebbe stata felice con quell'uomo, era ricco, sembrava sensibile per via del lutto per la moglie appena persa, sembrava desideroso di amore, di farsi amare, di amare.
Era rimasta incinta quasi di proposito, troppo giovane, troppo inesperta.
Pensava che lui l'amava e sempre l'avrebbe amata, pensava di poter essere al sicuro, che lui si sarebbe presa cura di lei, che l'avrebbe trattata come una regina.
Nei primi periodi la chiamava la sua principessa.
Era stata una regina, viveva nel lusso, in case gigantesche, ma senza un re, lui si era stancato di lei, quasi subito dopo il matrimonio.
E lei si era trovata in un paese sconosciuto a vivere solo e unicamente in una villa con un figliastro che la odiava e una bambina piccola, bambina che le era tolta spesso. Bambina che doveva crescere alla coreana, una bambina che doveva essere perfetta per quel mondo.
Sua figlia sarebbe stata perfetta per quel paese in cui lei si era ritrovata a vivere e di cui non avrebbe mai fatto parte, in cui l'avrebbero sempre vista come la straniera.
Sua figlia, non era sua realmente, non le apparteneva, nulla le apparteneva in quel mondo.
Incominciò a far scorrere l'acqua nella vasca e si sedette a terra aspettando che si riempisse tutta.
Rimase ferma ad osservarla.
Prese i sali da bagno e li rovesciò dentro, prese la saponetta nera che avrebbe colorato tutta l'acqua.
Si alzò per andare verso lo specchio, prese uno una spazzola e come un automa incominciò a pettinarsi i lunghi capelli biondi fino a districare tutti i nodi e facendoli diventare liscissimi.
Si guardò allo specchio, prese un batuffolo di cotone lo passò sotto l'acqua e incominciò a tamponare il taglio sul viso.
Aprì la sua trousse di trucchi e incominciò a truccarsi, doveva essere perfetta e bellissima.
Incominciò a truccarsi con calma, l'acqua diventava sempre più gelida e nera nella vasca, ma a lei non importava.
Nulla aveva ormai più importanza.
Si guardò allo specchio era bellissima.
Sarebbe morta bellissima.
Si tolse i suoi vestiti lasciandoli con delicatezza cadere sul pavimento.
Aprì la porta del bagno, per andare verso l'altra porta che dava alla cabina armadio.
Apri l'ultimo cassetto di un comò, lì avvolto nella carta c'era il suo intimo bianco utilizzato solo una volta, per il suo matrimonio. Non aveva avuto niente della sua tradizione italiana, aveva seguito quella coreana, ma si era permessa l'intimo bianco.
Insieme a una sottana di seta fatta di merletti e perline bianche, quella sottana per lei era stata il suo abito da matrimonio di tradizione, era stato tenuto nascosto, solo lei e suo marito l'avevano visto.
Si incominciò a vestire, con quell'intimo così candido, che la faceva sentire pura e pulita.
Apri un cassetto e prese una scatolina la svuotò, all'interno c'erano le perle. Una collana degli orecchini, erano passati di generazione, in generazione. Erano della sua famiglia, unica cosa che le era rimasta.
Gli indossò e incominciò ad accarezzare le perle della collana.
Era arrivato il momento di porre fine alla sua esistenza, era stanca.
Avrebbe raggiunto il suo amore, se non fosse potuta stare con lui in vita, l’avrebbe fatto nella morte.
Entrò nella vasca.
Suo marito non avrebbe vinto.
 
Angolo dell’autrice:
Eccoci qui… capitolo un po’ tosto, almeno lo è stato per me.
Dovevo riprendere la situazione madre, ed eccola con alcune novità!
La storia si muove un po’ al passato, ma serve tornare indietro per capire il futuro!
Isabel sta così in stallo ma almeno è giunta alla conclusione di mettere un fine alla litigata con Dashimen… riuscirà?
Per il resto del Flashback lei ricorda la vasca e il sangue che non vengono menzionati alla fine. Non ricorda il ragazzino.
Penso che da qui si comprenda la paura di Isabel che il padre agisca, lei ho dice ha un presentimento che le minacce non siano false e potrebbe veramente fare del male a Yoongi.
Svelato il mistero.
Ci si legge domani con Namjoon e la settimana prossima baci!
 
 
 
 
 
   
 
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