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Autore: FanGirlWithK    18/11/2022    0 recensioni
«Ci vediamo tra sessanta giorni.» si promettono.
E ci credono davvero, che la distanza non cambierà nulla, che la relazione si vive in due e che le persone attorno a loro non possono modificare il corso degli eventi. Ci credono tutti.
Ma potranno dire ancora di amarsi quando spunteranno il sessantesimo giorno nel calendario?
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Ogni riferimento a cose o persone reali è puramente casuale.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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02:42 p.m., New York City, United States of America.
Seventeenth day.


«Ho finito!» Mark, urlando, arrivò in cucina e abbracciò i tre coinquilini, leggermente perplessi.
«Cosa hai finito?» chiese giustamente Kris, che si era addormentato sulle gambe di White, il risveglio era stato leggermente traumatico, date le urla improvvise.

«La canzone! L’ho finita! Ci ho messo tre settimane, credo sia stato il lavoro più lungo della mia vita, o c’è vicino… Devo chiamare Sunny, così gliela mando e poi la faccio sentire a voi!»
Aveva i capelli di un rosso scolorito e scompigliati, gli occhi gonfi e le labbra secche, però teneva un sorriso enorme che quasi gli illuminava gli occhi e faceva notare meno le enormi occhiaie blu.

«E ho rispettato anche le scadenze!» continuò ad urlare Mark mentre andava nella propria stanza.
Man mano che parlava i ragazzi in cucina lo sentirono sempre meno, fino a non poter più capire quello che diceva.

Nel frattempo, i ragazzi prepararono il pranzo e la tavola, dato che nessuno dei quattro aveva ancora mangiato.

«Hey, volete ascoltarla?» quando Mark tornò, aveva ancora il sorriso sulle labbra, ma non era come prima, e non urlava più.
«Prima sediamoci e iniziamo a mangiare.» White si sedette per primo, abitava con Mark già da due anni e sapeva che il proprietario di casa, che quando fosse davvero felice come un bambino, non lo restava che per più di qualche minuto.
All’inizio aveva provato a chiedergli il perché di questi cambi assurdi di umore, ma il maggiore non aveva mai risposto e col tempo avevano stabilito un tacito accordo per cui non bisognava fare domande troppo scomode.

«Okay, ora vi faccio ascoltare la canzone.» Mark prese il telefono e la fece iniziare.

«Spero di vederti domani, questa speranza mi sta strangolando.»
Appena iniziata la canzone, Jackson si era sentito risucchiato dalla melodia e dalla dolce voce del cantante.

«Non lasciamoci le mani adesso.»
Quelle parole lo stavano pressoché distruggendo, sotto il tavolo le sue gambe tremavano.

«Quella promessa è diventata una bugia.»
Jackson non si era mai fermato a pensare da quando era arrivato a New York, sapeva che se lo avesse fatto sarebbe stato tanto male da non ragionare più.

«Quando vedrò la luce, spero di vedere il tuo sorriso.»
Avrebbe tanto voluto ascoltare quella canzone altre mille volte, nel proprio letto, per lasciar andare tutte le lacrime che non aveva pianto per farsi vedere forte dal fidanzato.
Magari con Jinyoung accanto, a ridere e a prendersi in giro fino a quando non si sarebbero ritrovati con i respiri mozzati per la vicinanza dei loro occhi.

Three years ago…
«Jackson-ah! Smettila!» Jinyoung tornò a ridere, con gli occhi che si spostavano continuamente per seguire i movimenti del fidanzato.
«Cosa? Non sto facendo nulla io.» Entrambi risero. Jackson si era messo in piedi, di nuovo.
Poi si lanciò su Jinyoung, tornando a fargli il solletico.

Quando il moro iniziò a sentirsi mancare il fiato, non ci pensò due volte e fece cadere l’altro per terra, facendolo rotolare giù con un calcio ben assestato sull’ombelico.
«Basta ti prego! Ho le costole rotte, andiamo avanti così da mezz’ora ormai.» Jackson, nel frattempo, si contorceva dal dolore sul pavimento, lasciando uscire imprecazioni mute dalle proprie labbra.
«Dai, non sono così forte.» Jinyoung sporse la testa dal letto per vedere meglio il fidanzato e si ritrovò proprio sopra la sua.
I due si sorrisero e, dopo un bacio volante mandato da Jackson, entrambi si sedettero sul letto, tranquilli.

«Jinyoung-ah…» adesso erano sdraiati, sotto le coperte calde, e si guardavano negli occhi mentre Jinyoung giocava con gli anelli che l’altro aveva al dito.
«Dimmi.» Gli diede un bacio sulla fronte.
«Ti amo.» Un leggero sospiro seguì l’affermazione di Jackson.

«Anch’io, ma perché ci metti quasi sempre tutta quest’ansia nel dirlo?» Jinyoung sorrise e scombinò i capelli rosa confetto del fidanzato.
«Perché è talmente bello che a volte credo che il cuore mi si stia fermando.»
Jinyoung cercò di mostrare in modo teatrale lo scombussolamento che Jackson gli causava ogni volta che gli diceva cose così sdolcinate con una caduta causata da una freccia che arrivava dritta al cuore.

Quando Jackson lo prese per la vita, per evitare di farlo cadere davvero, si ritrovarono così vicini da non poter parlare, le labbra quasi si sfioravano. E infatti Jinyoung si allontanò di pochi millimetri prima di cambiare sguardo e squadrare Jackson. «Jackson-ah, perché non fai quello che sai fare meglio?»

«Pensavo volessi riposare per bene oggi.» Gli occhi del ragazzo dai capelli rosa erano languidi, il fidanzato si scioglieva solo a guardarli.
«Non l’ho mai detto.» Jinyoung si mise seduto sull’altro prima di baciargli la guancia.
Jackson gli avvolse il collo con le mani, tirandolo verso di sé e buttandosi sulle sue labbra con foga.
Dopo di che lo buttò sul letto, mettendosi sopra di lui, e iniziò a martoriargli il petto.


Poi si ricordò che non poteva tornare nel proprio letto, non poteva far tornare Jinyoung come per magia e non poteva sorridere come sorrideva quando c’era lui.

Quindi, appena finito di mangiare, si fece inviare quella canzone con la promessa di non condividerla con anima viva e andò in stanza.
Si appoggiò alla finestra e guardò New York, che a volte non gli piaceva per niente. La vedeva ancora grigia e spenta, esattamente come la prima volta.

«I said I'm coming home
Coming home
I'm coming home, coming home.»


Continuava a canticchiare la canzone da almeno un’ora, aveva le guance rigate e le ciglia umide, le gambe, su cui poggiava la testa, gli tremavano, il silenzio incombeva sulla stanza e le dita torturavano il filo delle auricolari.

Sapeva che avrebbe dovuto mettersi a letto e riposare, il giorno dopo avrebbe avuto un esame, ma non riusciva nemmeno a muoversi per quanto gli doleva la testa.
E non riusciva a smettere di pensarlo.

Ma non poteva chiamarlo, non poteva fargli sapere quanto stesse male.
E sperava davvero che quella sera Jinyoung avrebbe avuto talmente tanto sonno da pensare di chiamarlo l’indomani, perché sapeva perfettamente che non sarebbe riuscito a non rispondere.

Quando riuscì a mettersi sotto le coperte, bagnò il cuscino con nuove lacrime.

«Basta, per favore basta.» sussurrava a qualcosa di indefinito, sperando che avrebbe fatto passare un po' di quel dolore.

 
   
 
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