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Autore: drisinil    20/12/2022    0 recensioni
[Dance Dance Danseur]
A volte si è troppo giovani e distratti per riconoscersi. Ma certe attrazioni sono più profonde di quanto non si riesca a dire a parole. Le parole, in realtà, non servono affatto. La danza è passione e dolore e anche prendersi cura.
Questa OS partecipa alla bellissima Advent Calendar Challenge del gruppo FB Hurt/Comfort Italia.
Il prompt era: "Al centro"
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Non mi piaci per niente

 

Al centro dei miei piedi c’è un fuoco.

Una piccola sfera incandescente che è sempre stata lì, incastrata fra la carne e le ossa. Preme, spinge, pulsa e i miei piedi si muovono bruciando.

Penso che anche al centro dei tuoi piedi ci sia qualcosa.

Qualcosa di più bianco, di più puro. Ma qualcosa c’è e questo ci rende simili, perché non conosco molta gente come noi. Anzi, nessun altro.

Dev’essere per questo che ti guardo sempre.

Perché, a dire il vero, non mi piaci per niente.

Non mi piaci come dovrebbero piacere le ragazze. A parte il fatto che non sei neppure una ragazza. Dodici anni: una bambina. A uno di quattordici anni non possono piacere le bambine.

E comunque non mi piaci in quel modo: non vorrei baciarti, non vorrei portarti al cinema e neppure vorrei offrirti un gelato. Che poi non riesco neanche a immaginarti mentre mangi un gelato.

Non mi piaci in quel modo, davvero. Però ti guardo i piedi e cerco di capire cosa c’è dentro. Ti guardo gli occhi, anche. Hai le ciglia così lunghe che fanno ombra sulle guance e pupille troppo scure, e dure, come due pietre nere aguzze e levigate, senza compassione.

Per me, intendo. Non ne hai per nulla, di compassione per me.

E nemmeno per te stessa.

Mi fai paura e allora smetto di guardarti gli occhi. Ti guardo i piedi, invece, e tu mi lasci fare senza vomitare domande insolenti e disprezzo, non so perché.

Ti guardo quando slacci i nastri delle scarpe da punta, seduta sul pavimento, con quelle mani lunghe e magre e così precise nei movimenti, come se la danza assorbisse tutta la loro poesia e non te ne restasse neppure un brandello per quando la musica finisce. Slacci il nodo, disfi l’intreccio e sfili via la scarpa e le protezioni di silicone, mostrandomi un piede livido e martoriato, pieno di pezzi di cerotto insanguinati, piaghe, abrasioni, vesciche che non fanno mai in tempo a rimarginarsi.

“Fammi vedere i tuoi” mi dici a quel punto, mentre ti sciogli i capelli.

E io mi tolgo le scarpe davanti a te e i miei piedi, qualche volta, sono peggio dei tuoi e raccontano la stessa storia, di ostinazione e tortura.

“Quella è una micosi” commenti disgustata indicando un punto dove la pelle è rossa e squamata, fra un dito e l’altro. Frughi nella tasca della tua borsa e mi lanci addosso un tubetto di pomata, già mezzo spremuto.

Intanto tiro fuori dal mio zaino il flacone del disinfettante e svito il tappo.

Lo annuso e faccio un’espressione idiota, sempre la stessa.Ti fa sorridere, tutte le volte. E’ l’unico tuo sorriso che conosco.

E poi mi lasci curare i tuoi piedi distrutti.

In silenzio, perché non abbiamo proprio niente da dirci. Parla il rumore del fiato trattenuto quando il liquido gocciola sulla carne viva, la carta strappata delle alette del cerotto, il tappo di plastica dell’unguento che cade sul pavimento e fa un rumore secco che sembra fortissimo.

Le mie mani che curano i tuoi piedi, il tuo respiro sulla mia nuca. Penso sempre che tu stia per dire qualcosa, e invece no. Ti asciugo per bene un piede e poi l’altro, li infilo nei calzini puliti. Quelli di ieri erano verdi, logori, un po' macchiati di gesso, con un motivo infantile di ranocchie.

Non mi dici mai grazie. Non vorrei che lo facessi.

Dopo aver curato i tuoi piedi, curo i miei e tu resti lì a guardarmi, con le gambe divaricate e il busto chinato in avanti, la guancia appoggiata al pavimento, i capelli sparsi tutto intorno, come un fiore nero enorme, sbocciato dal parquet.

Appena finisco, ci alziamo e ce ne andiamo.

Ieri, per sbaglio, ho spento la luce prima che tu aprissi la porta. Il buio ci è caduto addosso all’improvviso e ha inghiottito i tuoi contorni.

“Lo hai detto a qualcuno?” ti ho chiesto.

“Cosa?”

“Di questo. Di noi che parliamo, quasi tutte le sere.”

“Non è vero che parliamo.”

“Ora stiamo parlando.”

“Allora smettiamo.”

"Aspetta. C’è una cosa che devo dirti.”

Avevi la mano sulla maniglia, ma non hai completato il gesto e siamo rimasti a galleggiare nell’oscurità insieme ai nostri riflessi oltre gli specchi.

“Al centro dei miei piedi c’è qualcosa che brucia. Tipo, da sempre.”

“Lo so. Anche nei miei.”

“Cos’è?”

Hai alzato le spalle, come se non valesse la pena scoprirlo.

“Fa male, vero?” 

“Ogni tanto.”

“Bugiarda. Fa male sempre. Tranne quella volta."

Non c'è bisogno che ti dica quale volta. Non abbiamo mai più ballato insieme.

Vorrei danzare ancora con te. Lo penso sempre, non lo dico mai. Neanche ieri l'ho detto.

“Non farti strane idee, non mi piaci per niente” ho detto invece.

Anche tu pensi sempre cose che non dici. Hai abbassato lo sguardo, hai piegato la punta del piede, hai spostato una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

“Nemmeno tu, scimmia.”

Quando spalanchi la porta, la luce si porta via tutto, te compresa. E io resto a guardare i calzini con i tuoi piedi dentro, che spariscono oltre l’angolo del corridoio.

 
   
 
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