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Autore: Amy_Streghetta    27/12/2022    0 recensioni
Dalla storia:
“E quindi, ehm, Martina e Riccardo, voi come vi conoscete?” era la sesta volta che Edo provava a ravvivare una conversazione inesistente.
La domanda mi colse di sorpresa e la granella di pistacchi che mi stavo sforzando di mandare giù approfittò dell’attimo di distrazione per lanciarsi dritta dritta verso il condotto sbagliato. Esplosi in una tosse violenta e senza dignità.
“Oh, ehm … ci siamo frequentati. Per un periodo” dissi, dopo aver ripreso fiato, gesticolando un po’ troppo con le mani.
Riccardo corrugò la fronte.
“Stavamo insieme” precisò, piccato.
“Si, una frequentazione” mi affrettai a spiegare, continuando a tossire il pistacchio fuori dai polmoni e annaspando per l'imbarazzo generale “diciamo, una cosa poco importante”.
“Disgustoso” fu il laconico commento di Silvia, ma non sono sicura se fosse riferito alla scena a cui aveva appena assistito o al ricordo del giorno in cui io e Riccardo ci eravamo incontrati per la prima volta.
Ci fissammo tutti e tre in silenzio per qualche secondo. Si preannunciava una lunga, lunghissima serata."
Genere: Angst, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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Di cene di compleanno e improbabili triangoli sentimentali


Era una gelida sera di dicembre.
Strinsi la sciarpa più stretta intorno al collo, domandandomi cosa mi fosse passato per la testa quando avevo accettato di rinunciare a un buon libro e una tisana calda sotto le coperte per una festa in cui conoscevo solo il festeggiato, Edoardo – ci eravamo conosciuti in ufficio un paio di anni prima e, anche se in poco tempo, eravamo diventati ottimi amici.
Arrivai al portone. Ormai che c’ero, tanto valeva salire e fare un tentativo. Bussai al citofono.
“Quinto piano. Ah, l’ascensore è rotto.”
Cominciamo bene.
***
Edo mi accolse sulla soglia con il solito sorriso allegro e contagioso. Dalla porta aperta di casa cominciò a diffondersi per tutto il pianerottolo un profumo di cibo in cottura non meglio identificato che fece brontolare violentemente il mio stomaco. Della cucina si era occupato Marco, il fidanzato di Edo, perciò ero sicura che almeno la cena sarebbe stata buona.
“Martina! Lode agli dei, sei viva! Non mi hai risposto ai messaggi e alle chiamate, cominciavo a preoccuparmi che ti avessero rapita o peggio, che mi avessi dato buca.”
“Se mi avessi avvisato dei cinque piani di scale a piedi ti avrei sicuramente dato buca” risposi, ancora col fiatone, lanciandogli un’occhiataccia. Lui assunse una finta espressione offesa.
“L’avrei presa sul personale se non ci fossi stata al mio compleanno. Vieni, ti presento agli altr …”
“Edo, dove posso prendere una bottiglia di vino e dei bicchieri?” lo interruppe una voce alle spalle. La voce apparteneva a una ragazza minuta, con i capelli castani corti e l’eyeliner perfetto. Aveva un qualcosa di familiare, ma mi ci volle qualche secondo per mettere a fuoco cosa. Lei invece probabilmente mi riconobbe all’istante, perché mi fissò con gli occhi sbarrati come se avesse visto un fantasma del passato riemergere dall’oltretomba per infestarle casa.
“Uh? Vedi in cucina, nel mobile a destra del frigo … a proposito, Silvia, lei è la mia amica Martina”.
Il brontolio del mio stomaco si trasformò all’istante in un conato di vomito.
“Sì, ci conosciamo già” disse Silvia, sforzandosi di sorridere e sembrare gentile.
Io annuii, mentre intanto elaboravo mentalmente tutta una serie di scuse più o meno plausibili per scappare via di là senza voltarmi indietro.
Edo parve accorgersi di quel mio momento di debolezza e decise di approfittarne. Mi tirò dentro senza troppi complimenti prima che riuscissi a mettere insieme qualcosa di sensato e richiuse la porta.
“Fantastico! Visto? Qualcuno che conosci c’è” mi disse con aria incoraggiante. “Anzi, sedetevi vicine, no? Anche Silvia e Riccardo sono qui da soli. Vi sistemo i posti, ok? Marti, tu Riccardo lo conosci?”
Tentennai.
“E che ne so, Edo? Riccardo è un nome comune …”
“Martina?” chiese qualcuno dietro di me.
“Riccardo?” risposi, con una voce che mi parve aliena, almeno due ottave superiore rispetto al solito.
Ci fissammo tutti e tre in silenzio per qualche secondo. Io guardavo Silvia, che mi lanciava occhiate di odio troppo poco velato miste a incredulità, e Riccardo guardava me, con un’espressione indecifrabile che avrebbe tanto potuto essere felicità oppure disprezzo – o semplicemente indifferenza.
“Che coincidenza! Vi conoscete!” esclamò Edo, evidentemente inconsapevole del dramma che si stava consumando in silenzio sotto ai suoi occhi. “Sedetevi qui, ecco. Marti, io mi metto a fianco a te qui” e ci indicò i posti.
Nessuno di noi tre ebbe la prontezza di ammettere che forse non era il caso di sederci vicini. Posai la borsa sulla sedia. Si preannunciava una serata lunga. Il profumo delle crespelle di riso in crema di broccoli che Marco stava portando in tavola mi diede il colpo di grazia.
“Edo scusa, il bagno?”
***
La serata procedeva con una lentezza da far venire le allucinazioni.
Il tavolo a cui eravamo seduti non era troppo piccolo per non starci tutti ma nemmeno abbastanza grande da starci comodi, perciò io avevo a destra Edo, che mangiava con i gomiti larghissimi, tipo granchio; a sinistra avevo una ragazza che parlava, parlava senza sosta, e per di più urlando come se la sua vita dipendesse dal numero di parole che era in grado di vomitare al minuto (avevo sperato che almeno quando avesse cominciato ad arrivare il cibo sarebbe stata zitta, invece era andata peggio, e aveva iniziato a parlare a bocca piena sputacchiando qua e là); di fronte avevo Riccardo, e vi giuro che anche con ogni buona intenzione era impossibile non sfiorarsi di quando in quando, ed era tutta la sera che le nostre ginocchia si toccavano, non essendoci fisicamente lo spazio per spostarle (okay, a dire tutta-la-verità-nient’altro-che-la-verità-vostro-onore, lo spazio per spostarle ci sarebbe stato, ma io non volevo, lui chissà).
Avevo mal di testa, in parte perché Edo continuava a versarmi vino nel bicchiere per “allentare la tensione” (che lui attribuiva alla mia normale timidezza), in parte perché sentivo gli occhi grigi di Riccardo addosso pizzicarmi sulla pelle come spilli.
Fingevo di non notare gli sguardi civettuoli che Silvia gli lanciava in continuazione, la confidenza e la naturalezza con cui sedevano vicini e commentavano le portate, il modo in cui l’uno mangiava dal piatto dell’altra per gioco, ma la verità è che non riuscivo a non chiedermi: ma stanno insieme?
“E quindi, ehm, Martina e Riccardo, voi come vi conoscete?” era la sesta volta che Edo provava a ravvivare una conversazione inesistente.
La domanda mi colse di sorpresa e la granella di pistacchi che mi stavo sforzando di mandare giù approfittò dell’attimo di distrazione per lanciarsi dritta dritta verso il condotto sbagliato. Esplosi in una tosse violenta e senza dignità. Silvia mi lanciò un’occhiata a metà tra il disgusto e la derisione – forse sperava che quel pistacchio mettesse radici nei miei polmoni in via definitiva, ma per fortuna riuscii ad espellerlo: finì dritto nel piatto della ragazza alla mia sinistra che, troppo presa dalla conversazione che mandava avanti con sé stessa, non si accorse di nulla, e continuò a mangiare la pasta come se nulla fosse. Divenni paonazza per l’imbarazzo. “Disgustoso” fu il laconico commento di Silvia, ma non sono sicura se fosse riferito alla scena a cui aveva appena assistito o al ricordo del giorno in cui io e Riccardo ci eravamo incontrati per la prima volta.
“E quindi? Come vi siete conosciuti?” insistette Edo.
Lo fissai negli occhi formulando una minaccia silenziosa. Continua così e stasera ti defenestro.
Riccardo taceva. Decisi per una risposta secca, sperando che l’argomento si sarebbe spento da sé come tutti quelli fino ad ora proposti.
“Oh, ehm … ci siamo frequentati. Per un periodo” dissi, gesticolando un po’ troppo con le mani.
Riccardo corrugò la fronte.
“Stavamo insieme” precisò, piccato.
“Si, una frequentazione” mi affrettai a spiegare “diciamo, una cosa poco importante”. Non volevo che Edo si facesse un’idea sbagliata. No, meglio: non volevo che Riccardo si facesse un’idea sbagliata. A suo tempo ero stata innamorata di lui, per davvero. Ma ero anche convinta che la cosa non fosse stata reciproca - insomma, una persona che ti ama per davvero, e non solo a parole, non parte per la Norvegia per due anni senza un tentennamento, senza un esitazione, e poi sparisce per sempre dalla tua vita, senza nemmeno una chiamata o un messaggio su Whatsapp, no? Non volevo dargli la soddisfazione di fargli sapere che per me, a differenza sua, dimenticarlo era stato difficile, e doloroso, e che forse dopo due anni nemmeno ci ero davvero riuscita.
“Concordo” aggiunse lui, come punto sul vivo “decisamente poco importante”.
Quella risposta mi irritò. Va bene che di me non si era innamorato, però nemmeno mi sembrava troppo carino sottolineare con tutta quella insistenza che la nostra relazione per lui non avesse significato nulla.
“Una cosa da niente” replicai, sorridendo. A me di te frega meno di quanto a te frega di me, comprendi?
Lui mi guardò fisso negli occhi, socchiudendo leggermente le palpebre. “Una cosa che valeva zero” disse, gelido.
Sentii il sangue salirmi leggermente in testa, ma forse era solo il vino. Stavo per rispondere male, quando Silvia si intromise nella conversazione.
“Beh, si dai, alla fine erano stati solo quanti? Due mesi?” chiese, sorridendo, guardando prima me e poi Riccardo come per avere la conferma di aver detto una cosa sensata e condivisibile.
“Cinque” rispondemmo all’unisono.
“Si vabbè, lo stesso” disse Silvia, con un gesto svolazzante della mano. “Ma poi si vedeva che non eravate proprio compatibili” continuò imperterrita “davvero, io proprio non capivo, senza offesa Marti, eh, proprio non capivo cosa ci trovasse Richi in te”. Lo disse ridendo, e avvinghiandosi al suo braccio come una piovra.
Io e lui ci guardammo negli occhi. Forse ci aspettavamo entrambi che l’altro dicesse qualcosa, che smentisse quell’affermazione – o per lo meno questo era quello che speravo io. Avrei voluto essere in grado di comprendere cosa gli passasse per la testa, ma non ne ero capace, e il vino che avevo bevuto non aiutava a mettere chiarezza nella nebbia dei miei pensieri.
Restammo qualche secondo in silenzio. L’osservazione finale di Silvia restò sospesa nell’aria per qualche tempo, ponendo tra di noi una barriera solida e densa, che nessuno dei due sapeva come superare.
“Scusatemi un minuto” disse alla fine lui, alzandosi di scatto e dirigendosi verso il terrazzo. Lo seguimmo entrambe con lo sguardo.
Concentrai la mia attenzionesul piatto ancora pieno. La bistecca era diventata fredda, e ormai incommestibile. Nemmeno mi piace la carne, avrei dovuto avvisare, riflettevo. Restai per un po’ persa nella nebbie della mia mente, gli occhi fissi sul pezzo di vitello che era pure morto invano.
Quando sollevai di nuovo gli occhi, Silvia mi guardava sorridendo. Quando Silvia mi sorrideva, ai tempi in cui io e Riccardo stavamo insieme, non era mai un buon segno.
“Martina” cominciò “so che quando tu e Richi stavate insieme tra noi non correva, ehm, buon sangue. Mi dispiace di essermi intromessa nella vostra relazione. Forse a volte sono stata un po’, ehm, inopportuna”.
Inarcai le sopracciglia in una espressione di palese sarcasmo. “Un po’?”
In bocca avevo un sapore amaro.
“Abbastanza” ammise Silvia. Parve rifletterci un istante. “Parecchio” aggiunse subito dopo, buttando giù in tre sorsi e due secondi e mezzo un bicchiere di vino colmo fino all’orlo, come per prendere coraggio prima di continuare il discorso.
“Non ti chiedo di giustificarmi, però cerca di capirmi … lui aveva appena chiuso una storia lunga, tra noi stava per nascere qualcosa, lo sentivo. Ma poi conobbe te e PUFF” mimò un’esplosione con le mani piccole, perfettamente curate “andò tutto in fumo. Quando vi lasciaste pensai di riprovarci, e invece lui partì.” Si interruppe, giù altro vino. Non capivo dove volesse andare a parare con quel discorso, ma volevo assolutamente scoprirlo (e volevo la risposta alla domanda che mi aveva assillato per tutta la durata della cena), perciò non la interruppi. “Quando ho saputo che era ritornato ho capito che questa sarebbe stata la mia ultima occasione” riprese lei. “Alla fine, com’è che si dice? Tutto è bene quel che finisce bene. La perseveranza paga.” Sorrise. “Io non ti porto rancore. Anzi, mi piacerebbe essere amiche” e così dicendo, poggiò la sua mano sinistra sulla mia in un gesto che avrebbe voluto sembrare affettuoso. Il mio sguardo corse verso il suo anulare sinistro, e con orrore le vidi il solitario che portava al dito. Certo, era oggettivamente brutto, sembrava uno di quegli anellini che vendono al mare sulle bancarelle, ma probabilmente anche in questo caso il mio giudizio era offuscato dal vino, e dalla gelosia. Come cavolo avevo fatto a non notarlo prima? Eppure doveva essere sempre stato lì, sotto ai miei occhi per tutto il tempo.
“Certo, figurati. Nessun rancore. Ah, e congratulazioni” dissi, alludendo all’anello di fidanzamento, mentre mi sforzavo di trattenere il groppo in gola che premeva per trasformarsi in lacrime. Non mi ero mai sentita così stupida.
“Vado a prendere una boccata d’aria”.
***
“Pensavo avessi smesso di fumare”.
Trasalii.
“A volte fumo quando sono nervosa”.
Mi voltai. Riccardo mi fissava con i suoi grandi occhi grigi, le pupille dilatatissime.
Avrei voluto dirgli un sacco di cose, ma non sapevo da dove cominciare.
“Posso fare un tiro?” chiese, indicando la sigaretta.
Io non passavo mai le sigarette, mi faceva schifo solo l’idea.
Gliela porsi senza dire niente.
Lui inspirò, espirò, sembrò prendere coraggio.
“Non ci potevo credere quando ti ho vista entrare dalla porta, stasera. Io nemmeno ci volevo venire a questa festa, mi ci ha trascinato Silvia”.
Incassai in silenzio, storcendo la bocca in modo impercettibile.
“Mi sei mancata.” disse, prendendomi una mano.
La tirai via, ustionata.
“E allora perché non mi hai mai chiamato?” sbottai. Avrei voluto restare calma, recitare la parte dell’indifferente, uscirmene da quella conversazione a testa alta, ma avevo bevuto troppo e accumulato troppo in quelle ore per riuscirci. “Mai una telefonata, un messaggio, una lettera, un trillo su MSN, niente. Non ci credo che non sei mai tornato, in questi due anni, nemmeno una volta qui in Italia. Eppure non mi hai mai cercato”.
“E cosa avrei dovuto dirti, Marti’?” esplose. “Cosa? Che mi avevi lasciato così, senza una spiegazione, dopo i cinque mesi più belli della mia vita?”
Ahi ahi. Un’uscita un po’ melodrammatica, ma d’effetto. L’aveva lanciata così, quella piccola bomba, con la naturalezza con cui avrebbe potuto dire “mi passi l’olio, per favore?”. La mia già fragile sicurezza si incrinò con un impercettibile crack.
La voce mi uscì tremolante.
“Infatti, stavamo insieme da cinque mesi. Tu stavi partendo per un lavoro di due anni. A Oslo.”
“Per me non sarebbe stato un problema mantenere la relazione a distanza, e lo sapevi.”
“Ma per me sì!” dissi, quasi gridando. Due ragazzi dall’altro lato del terrazzo si voltarono a guardarmi. Mi sforzai di parlare più piano. “Le relazioni a distanza non reggono quando la gente sta insieme da anni, figurati cosa sarebbe successo alla nostra che era appena uscita dalla zona “frequentazione””.
“Quindi mi hai lasciato per paura” fece lui, l’espressione addolorata, il tono amareggiato. “Io ti ho detto che ti amavo e tu mi hai lasciato per paura, di cosa poi, che ti avrei tradita?” lo disse come se il pensiero di quella mia mancanza di fiducia fosse per lui un’offesa mortale.
Questa non l’accetto, pensai.
“E puoi biasimarmi?” gli urlai in faccia, con violenza. “Sei qui a dirmi che ti sono mancata, a guardarmi in faccia e a dirmi che mi amavi, a prendermi per mano, mentre lì dentro c’è la tua fidanzata con il tuo cazzo di anello al dito? Che razza di sadico sei?” ero proprio accecata dalla rabbia, prima di tutto verso me stessa, perché una parte di me avrebbe voluto davvero credere alle sue parole.
“Cos … ma che stai dicendo?” esclamò lui. Sul viso gli comparve un’espressione di rabbia gelida e fredda, così diversa dalla mia. “Quanto hai bevuto, santo cielo?”
“Non abbastanza da credere alle stronzate che dici con quella bocca”. Feci per andarmene, ma lui mi trattenne delicatamente per il braccio.
“Marti, ascolta, non so di cosa stai parlando. Chi te l’ha detto? è stata Silvia?” la sua voce aveva una sfumatura velatamente minacciosa.
“Davvero conoscendola pensavi che non mi avrebbe sbandierato l’anello in faccia alla prima occasione utile?”
Lessi nei suoi occhi un lampo di rabbia, questa volta di un colore diverso.
“Marti, si è inventata tutto. Tra me e Silvia non c’è mai stato niente, te lo giuro.” Mi guardò con occhi supplichevoli, ma onestamente ero troppo arrabbiata, e non avevo nessuna voglia di perdere altro tempo dietro a quella farsa, dietro a lui, dietro a Silvia, di cui ne avevo avute le scatole piene già due anni prima, dietro a quella serata orribile alla quale non avrei mai dovuto accettare di andare.
Raccontale a qualcun’altra le tue cazzate, Ricca’. Stasera ho avuto la conferma che ho fatto bene a lasciarti due anni fa. Non voglio più vederti.” dissi, divincolandomi dalla sua presa. Corsi via prima che potesse rincorrermi, prima che i suoi occhi grigi riuscissero a farmi cambiare idea.
Lacrime bollenti mi bruciavano le guance mentre camminavo via nel freddo della notte. Ero arrabbiata, delusa, ma c’era anche dell’altro. Me ne andavo a testa alta. Forse per la prima volta nella mia vita, davanti ad un uomo e alle promesse inutili, alle belle parole a vuoto a cui, in tutte le mie relazioni fino a quel momento, non erano mai seguiti i fatti, avevo scelto me stessa.
****
Era marzo, era pomeriggio, e pioveva. Pioveva ormai da giorni senza pausa, ma ero comunque riuscita a dimenticare l’ombrello, come mi accorsi tristemente all’uscita del panificio.
“Serve un passaggio?”
Fu come essere attraversata da una corrente elettrica.
Riccardo mi fissava, l’ombrello in una mano, la busta della spesa dell’altra, in attesa. “Ho preso gli ingredienti per la pizza” aggiunse.
Sorrisi mio malgrado. “Io ho appena comprato la pasta di pane.”
Camminammo fino alla mia auto in silenzio.
“Grazie per il passaggio”.
Salii in macchina e richiusi la portiera.
“Martina, aspetta” disse, palesemente a disagio. “C’è una cosa che ho bisogno di dirti. Avevo anche provato a chiamarti dopo la festa di Edoardo ma non hai mai risposto.”
Rimasi in silenzio. Lui lo prese come un invito a continuare.
“Io e Silvia non siamo mai stati fidanzati, non siamo mai nemmeno stati insieme. L’anello gliel’avevo regalato io, è vero, ma l’avevo trovato in un pacchetto di patatine delle principesse Disney e gliel’avevo dato solo perché le piaceva e non voleva che lo buttassi nel secchio della plastica.” Per una frazione di secondo un mezzo sorriso gli attraversò il volto, ma l’istante dopo era già tornato serio. “L’idea le era venuta approfittando del fatto che tu fossi ubriaca e io non fossi presente. Me l’ha detto proprio lei. Anche di quello che era successo due anni fa.” Fece una pausa. Io tacevo, cercando di metabolizzare quelle informazioni.“A quanto pare era innamorata di me da parecchio, e io ero l’unico a non essersene mai accorto.” Ormai quello di Riccardo era diventato un monologo, ma non lo interruppi. “Voglio bene a Silvia, siamo cresciuti insieme, ma per me lei è come una sorella minore. Non riuscirò mai a vederla con occhi diversi. Stavolta credo abbia capito. Mi ha detto che per il momento non se la sente più di vedermi, non finché non avrà smesso di pensare a me in quel modo.” Fece un respiro profondo e mi fissò negli occhi. “Avevo bisogno di dirtelo. Mi sta bene se non vuoi più vedermi né sentirmi, ma non volevo che l’ultimo ricordo che avessi di me fosse quello di uno stronzo che prendeva per il culo te mentre tradiva la fidanzata.”
Riccardo aveva l’affanno e aveva parlato per cinque minuti sotto la pioggia forte, perciò nonostante l’ombrello era fradicio, dalle scarpe alla testa.
“Non so che dire” fu tutto ciò che riuscii ad articolare.
Lui fece un sorriso triste.
“Almeno ora lo sai. Beh, torno a casa più leggero. Pizza, doccia calda, un film insieme al gatto … mi aspetta il sabato sera perfetto.”
Effettivamente suonava come un buon piano.
Non riuscii a trattenermi. “Vuoi un passaggio?”
Di nuovo, avevo parlato prima di ragionare. “Se sei a piedi. Per ricambiare il favore” dissi, indicando l’ombrello.
“Giusto. Certo, grazie.”
 
Arrivammo sotto casa sua. Parcheggiai.
“Quindi, ehm, ci salutiamo qui” dissi.
Ci guardammo negli occhi, forse entrambi sperando che l’altro avrebbe avuto il coraggio di dire qualcosa, letteralmente qualsiasi cosa, per non doverci perdere di nuovo.
“Se non hai impegni per stasera, possiamo fare due pizze” disse alla fine lui, indicando il mio impasto abbandonato sul sedile posteriore.
Questa volta la mia risposta fu ragionata.
“Volentieri.”
Scendemmo dalla macchina e andammo verso il portone.
Fare la pizza. Mi scappò un mezzo sorriso. Mi sembra un buon modo di cominciare.
  
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