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Autore: Jason_Trth Hrtz    31/12/2022    0 recensioni
L’uomo era appeso a mezz’aria con un cappio al collo e solo la punta delle scarpe nere lucide a offrirgli l’illusione che la sua morte potesse essere rimandata. Un sorriso sghembo e sporco del suo stesso sangue e vomito, colato fino al mento, gli donava un’aria di stupida caparbietà.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Shonen-ai | Personaggi: Altro Personaggio, Dino Cavallone, Kyoya Hibari
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'LIMITI'
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Titolo: Limiti (3)

Autore: Jason_Trth Hrtz

Fandom: Katekyo Hitman REBORN!

Pairing: nessuno/D18 (accennato)

Rating: arancione

Parole: 2674

Avvertimenti: violenza, contenuti delicati, Older!Kyoya (34 anni), Older!Dino (38 anni), accenno Female!OC (21 anni).

Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, sono proprietà di Akira Amano

Note: ho specificato le età, perché in futuro ritorneranno utili alla comprensione di queste tre OS collegate tra loro.

Ho già pubblicato “Limiti (1)” e ora sto pubblicando “Limiti (3)”. La parte 2, l’intermezzo della vicenda, verrà pubblicato in seguito.

Mentre scrivevo la prima OS di questo filone, continuavo ad aggiungere headcanon e OC, quindi, per non snaturare fin troppo la natura dell’opera originale (Katekyo Hitman REBORN!), mi sono assicurato di separare i progetti e sviluppare queste OS in un modo, mentre il resto di quello che avevo in mente l’ho tramutato in Originale e quindi mi sto dedicando a creare tutto il resto da zero. Le Originali di questo tipo richiedono molte ricerche, e non sarà mai comunque abbastanza. Bisogna farsene una ragione, a un certo punto.

Le età le ho messe già da ora per far capire anche a eventuali lettori futuri che queste tre OS sono effettivamente collegate tra loro. Le note dovrebbero bastare a chiarire il concetto, ma ho preferito specificarlo anche negli avvertimenti per un mio desiderio personale di “completezza” espositiva.

Mi rendo conto che qualcuno lo troverà ridondante o non necessario.

Vi avrò annoiato già abbastanza con queste note chilometriche, vi lascio alla lettura di questa OS e spero che vi sappia tenere compagnia.

 

Buona lettura!

                

                   Jason.

 

 

P.S.

Ci tengo a specificare che la OS non è stata betata.

 

 

 

 

 

 

 

LIMITI (3)

 

 

 

L’uomo era appeso a mezz’aria con un cappio al collo e solo la punta delle scarpe nere lucide a offrirgli l’illusione che la sua morte potesse essere rimandata. Un sorriso sghembo e sporco del suo stesso sangue e vomito, colato fino al mento, gli donava un’aria di stupida caparbietà.

Sarebbe morto. Lo sapeva lui e lo sapeva Hibari, il suo “aguzzino”, eppure l’uomo sembrava non voler ancora cedere alle lusinghe della morte.

 

ooOoo

 

Quella stessa mattina, sul presto, Hibari aveva scoperto l’ubicazione dell’uomo e lo aveva prelevato seduta stante. Lo aveva condotto lontano dal paese di provincia in cui l’uomo era andato a salutare i genitori defunti. L’unico motivo per cui Hibari poteva essere certo di ciò, era perché in quei minuti quella parte del cimitero era vuoto e il vento stava soffiando a suo favore.

 

 

L’attimo prima, l’uomo stava cambiando i fiori a sua madre, bisbigliandole carinerie in un forte accento dialettale—tipico di una regione specifica del Sud Italia, Hibari lo aveva sentito troppo spesso per non saperlo riconoscere immediatamente. L’attimo dopo, con un colpo a sorpresa dritto in faccia, l’uomo si era ritrovato disteso a terra: incosciente. Hibari lo aveva trascinato di peso lungo il terreno argilloso del cimitero, fino ad arrivare al cancello secondario.

Aveva incontrato poche persone nel suo tragitto a ritroso, ma solo una di queste sembrò infilare di soppiatto una mano nella tasca frontale della felpa oversize che stava indossando. Probabilmente per prendere il telefono e filmare l’accaduto o chiamare aiuto. Hibari non se ne era curato. La sua furia era ancora ai massimi livelli, e, a dispetto di quel che il giovane se stesso avrebbe pensato, non poteva sfogarla su una ragazzina innocente che credeva di star facendo la “cosa giusta”.

Non lo aveva sorpreso neanche il fatto che, al contrario, le altre persone, per lo più anziane, avevano tenuto la testa bassa o non si erano degnate di sprecargli nemmeno uno sguardo; da fornire eventualmente alle forze dell’ordine che sarebbero arrivate.

Sempre che si fossero degnate di arrivare.

Per esperienza personale, Hibari sapeva che spesso non arrivavano mai quando c’era davvero bisogno di loro. Supponeva che tutto il mondo fosse paese anche in casi del genere. Se la Giustizia fosse tempestiva, e davvero giusta, non sarebbero nate le Famiglie come quelle dei Vongola.

Mentre si lasciava il cancello dalla superficie arrugginita alle spalle, si era messo a riflettere sui dettagli della scena di poco fa, prima ancora che tramortisse l’uomo.

A meno che quello non fosse stato il suo patrigno, il cognome sulla lapide del defunto, posizionato accanto a quello della donna a cui, in precedenza, l’uomo si era riferito con “mammà”, era lo stesso che Hibari aveva sentito pronunciare al telefono dall’uomo che Hibari aveva ucciso all’inizio della missione di recupero di Cavallone Decimo.

Il tizio, quello che si era rifugiato con l’amante in una villetta di campagna la Vigilia di Natale, sapeva essere il nipote di uno degli uomini di Cavallone. Il cognome ero lo stesso, le tempistiche erano sospette, e il tutto sembrava collegarsi tra un filo teso e l’altro.

Doveva essere successo tutto in quello stesso giorno.

Lo stesso giorno in cui Cavallone Decimo era stato rapito dal suo letto di ospedale, lo stesso giorno in cui Hibari aveva perso il conto delle persone uccise per arrivare al responsabile di quell’affronto alla Famiglia Cavallone.

Tecnicamente dovevano essere gli uomini di Cavallone a occuparsi della cosa, i Vongola potevano offrire supporto, ma Hibari non era mai stato alle dipendenze e ai desideri di nessuno. Faceva solo quello che voleva e interessava a lui.

 

Se i suoi desideri, i suoi piani, si incrociavano con quelli dei Vongola e dalla collaborazione poteva risultarne qualcosa di favorevole per lui: bene, altrimenti andava per la sua strada e chiunque si mettesse in testa di ostacolarlo non arrivava incolume al giorno successivo.

Per certi aspetti, lo avevano spesso accomunato a Mukuro Rokudo, il Guardiano della Nebbia della Famiglia Vongola, eppure Hibari non sentiva di condividere granchè con quel maledetto illusionista barocco.

I loro metodi erano diversi, così come le loro motivazioni personali scaturivano da necessità ed emozioni diverse. Tuttavia, se c’era una cosa che il tempo aveva guarito in lui, era proprio il desiderio di essere capito dagli altri.

 

Fin dall’infanzia, attraverso l’adolescenza, non si era mai sentito capito, apprezzato, o voluto, se non per essere sfruttato, quindi aveva presto capito che il mondo in cui viveva non sarebbe mai stato in grado di offrirgli neanche una carezza sul viso umido di lacrime e sangue.

Arrivato a una certa età, ormai era troppo tardi per piangersi addosso. L’unica soluzione che aveva trovato era stata quella di allontanare tutti e vivere da solo, seguendo le sue regole.

Durante le sue missioni, ordine e disciplina lo aveva tenuto lucido, senza farsi distrarre da sentimentalismi inutili.

Era quasi divertente pensare come, al tempo, una “missione”, per lui, consisteva nel tenere la sua amata Namimori al sicuro da bulletti e studenti scansafatiche, mentre, sedici anni dopo, una sua “missione” era una questione di vita o di morte. Non solo la sua. Incontrare la Famiglia Vongola aveva cambiato la sua vita, la sua routine e le sue responsabilità. Per sua fortuna, o forse per il suo buon intuito, la maggior parte dei suoi precedenti collaboratori ai tempi della scuola gli erano rimasti fedeli. Tuttora, Kusakabe prendeva il tè insieme a lui dopo ogni missione particolarmente impegnativa. Per ricordare al corpo, e alla mente, che, nel loro mondo, nella vita che si erano scelti, i pochi attimi di pace come quelli dovevano essere custoditi e protetti con il sangue.

Nessuno ti salva se tu non sei in grado di salvare te stesso.

 

Da bambino, a Hibari non è mai stata raccontata alcuna favola della buonanotte. Si addormentava al suono di piatti rotti, le urla dei suoi genitori, e con le ombre pseudo-umane riflesse sui fusuma, mentre su quest’ultimi si proiettava la violenza che stava avvenendo al di là delle porte scorrevoli della sua stanza, a pochi passi di distanza.

Scene a cui un bambino non dovrebbe mai assistere.

Ben presto aveva capito che la vita là fuori era anche peggio.

La propria pace bisogna difenderla con la ferocia, altrimenti si viene sopraffatti da demoni via via sempre più grandi.

Ombre in carne e ossa che non si limitano a volerti far paura. Demoni che non hanno alcun timore di camminare alla luce del giorno, in grado come sono di cambiare pelle e forma in base alla situazione sociale in cui sono coinvolti. Ombre che, alla sera, al sicuro dentro le mura domestiche, diventavano grandi quanto un grattacielo e ti schiacciavano sotto i loro piedi.

I lividi potevano essere facilmente coperti sotto i vestiti, ma le ripetute ferite ai danni del suo orgoglio non sembravano volersi rimarginare mai. Per sino dopo anni.

Per quegli stessi motivi, crescendo, aveva fatto del suo meglio per non permettere a nessuno di abusare delle sue fragilità interiori. Prima era solo un bambino e non avrebbe mai avuto i mezzi per sopraffare quei “demoni” che tanto l’avevano tormentato in giovinezza, ma, appena gli era stato fisicamente possibile, si era ribellato a quel trattamento e, seppur ciò lo aveva fatto rimanere orfano prima del solito, non gli era importato.

La dignità è l’orgoglio dell’essere umano, nessuno dovrebbe mai privare altre persone di questa dote.

Eppure… accade, continuamente.

A Hibari era accaduto. Chissà a quanti altri era accaduto.

 

Poi era arrivato Cavallone. Cavallone Dino era un uomo testardo nella sua gentilezza, lungimirante e paziente, ma, soprattutto, di parola.

Un uomo rispettabile come pochi.

Hibari aveva provato a costringere la sua mente e il suo corpo a resistergli, ma il fascino esercitato da Cavallone sul sé diciottenne era rappresentato da tutte le qualità che Hibari aveva sempre ricercato in sé stesso e negli altri.

A volte, anche lui aveva fallito nelle promesse fatte a se stesso. Cavallone, invece, mai. Mai nei confronti di Hibari, che era poi quello che a Hibari, forse egoisticamente, interessava di più. Mai Cavallone lo aveva deluso e mai Cavallone aveva provato a privarlo del suo orgoglio, della sua dignità.

Tutto ciò che era accaduto in seguito, tra loro due, era stata una “naturale conseguenza”, come avrebbe detto Kusakabe—unico fidato confidente di Hibari.

Per questi stessi motivi, per quello che Cavallone aveva rappresentato, e rappresentava tuttora, nella sua vita, Hibari non poteva permettere a nessuno di infangare il nome di Cavallone e tradirlo.

Gli uomini come Cavallone dovrebbero essere intoccabili.

Hibari aveva sempre pensato che gli uomini di Cavallone portassero lo stesso tipo di rispetto per una figura tanto necessaria, quanto rara, nelle vesti di Cavallone, ma, evidentemente, la vita trova sempre il modo di mettere alla prova la nostra fede.

Hibari aveva la testimonianza proprio davanti ai suoi occhi.

 

ooOoo

 

«Quando avevo la tua età,» tossì l’uomo, «anche a me venivano date missioni del genere… Conosco il gioco.»

 

 

L’uomo, in un primo momento, dopo che Hibari lo aveva rapito e portato nel luogo precedentemente preparato a dovere per l’occasione, aveva sbiascicato qualche frase in Inglese. Hibari si era limitato a ignorarlo: non importava cosa gli dicesse per giustificarsi o tentare di farselo amico, quando Hibari si prefissava un obiettivo, nulla poteva distoglierlo dal completarlo.

Era qualcosa di cui era sempre andato fiero.

Negli anni, in quell’ambiente, si era rivelato utile. Hibari non era mai stato famoso per la sua pazienza, ma per la sua perseveranza, invece, la sua figura era sulla bocca di tutti; sia in Giappone, sia in Italia. Quasi nessuno conosceva il suo nome, si era impegnato ad agire nell’ombra e uscire allo scoperto solo qualora fosse stato necessario; Hibari rappresentava un po’ “l’ultima speranza” per i Vongola.

 

Vedendosi ignorato, l’uomo aveva cominciato a imprecare e a insultarlo in Italiano.

Notando il sorriso a lato della bocca di Hibari, l’uomo doveva aver capito che Hibari era in grado di parlare Italiano. Inoltre, il suo aspetto “orientale”, l’età che a occhio e croce poteva avere, secondo un occhio esterno attento, e il fatto che era stato rapito davanti alle lapidi dei suoi genitori, doveva aver fornito all’uomo il collegamento necessario per giungere alla conclusione che il “ragazzo” che lo teneva in ostaggio, altri non era che il Guardiano della Nuvola dei Vongola, nonché pupillo di Cavallone Decimo, il Boss su cui aveva fatto la spia alla Famiglia dei Pavone.

Anche nella semi-oscurità del capannone in cui lo aveva portato, Hibari lesse lo sconcerto sul volto pietrificato dell’uomo appeso come un salame al gancio che penzolava dalla trave in metallo dell’alto soffitto.

Gli puntò una lampada portatile in faccia per gustarsi al meglio le condizioni in cui lo aveva ridotto.

L’uomo poteva essere sulla quarantina: capelli neri e ondulati che gli arrivavano dietro l’orecchio, nonostante fossero intrisi di gel modellante, la sessione di tortura lo aveva scomposto in tutto il suo aspetto. Dalla testa, fino ai piedi—sicuramente gonfi e paonazzi all’interno delle scarpe strette. Emettevano uno scricchiolio ogni volta che dondolava sulla sedia, rischiando di compromettere il suo equilibrio.

L’aria era gelida quella sera, e dopo un intero giorno di torture, senza cibo né acqua, trattenere le proprie emozioni e rimanere tutto d’un pezzo cominciava a risultare difficile anche per un individuo con anni di esperienza nello stesso campo.

Hibari si era informato, sapeva che l’uomo non stava mentendo quando diceva che conosceva il “gioco” a cui Hibari sembrava volerlo sottoporre.

L’uomo doveva essere convinto che quella maschera di freddezza e impassibilità lo avrebbe fatto apparire come inscalfibile.

La verità, era che quell’uomo era soltanto un uomo; indifeso e senza aiuto alcuno. Hibari non aveva mai amato i giochetti. Quella era una semplice vendetta. Nuda e cruda nella sua infallibilità.

 

Per l’uomo, era una battaglia persa in partenza. Poteva solo cercare di incassare al meglio i colpi che Hibari gli assestava da più di quindici ore. Le pause tra una sessione e un’altra troppo brevi per riuscire a riprendersi.

Tra una pausa e l’altra, l’uomo lo aveva deliziato con frasi che coinvolgevano la minaccia della sua famiglia. Peccato solo che Hibari non ne avesse una da molto tempo. I membri di quella che si era creato, al contrario, avrebbero riso di fronte a quelle parole gettate al vento.

Un uomo privato della propria libertà non fa paura, solo pena.

E Hibari non era in grado di provare neanche quella per lui.

 

Hibari dentro di sé rise davanti a quel quadro grottesco.

Non aveva più fretta, come all’inizio di quella Odissea. Poteva godersi l’annullamento dall’esistenza dell’uomo che aveva osato tradire la fiducia di Cavallone Decimo. Un Cavallone Decimo malato, alla fine dei suoi giorni, la cui ultima preoccupazione doveva essere avere dei Giuda in mezzo alla Famiglia che si era costruito con fatica.

Hibari non poteva sopportarne l’idea.

Colpì l’uomo dritto nello stomaco con la punta di un suo tonfa. Il verso strozzato che sentì, fece uscire Hibari per qualche secondo dall’angolo buio in cui la sua mente tentava costantemente di rinchiuderlo.

Rasserenarsi all’idea che quel calvario fosse finito non era facile. La consapevolezza che altre mele marce potessero nascondersi nella Famiglia di Cavallone, o nelle Famiglie alleate, lo stava rendendo paranoico.

 

Le ultime parole di Romario continuavano a ronzargli nella mente, giorno dopo giorno: “So che proteggerai il Boss al meglio delle tue capacità, meglio di chiunque altro. Avete un legame speciale, confido nel fatto che nessuno riuscirà a fargli del male mentre tu sarai al suo fianco, giovane Guardiano della Nuvola.”

 

Non aveva mai saputo perché Romario sembrasse fidarsi più di Hibari che del resto della Famiglia Cavallone, ma all’Hibari di cinque anni fa non sembrò importare dei dettagli. Aver ricevuto l’approvazione da colui che Dino considerava come un padre, era stato abbastanza affinché Kyouya si lasciasse pervadere dal senso di responsabilità che da sempre lo aveva contraddistinto in ogni sua azione.

I suoi sentimenti, più o meno celati, a quanto pare non agli occhi esperti di Romario, per Cavallone Decimo erano stati la chiave di volta della sua ossessione verso l’incolumità di Cavallone.

Era arrivato a mettere il benessere di Dino prima del suo, soprattutto dopo che la “Maledizione dei Cavallone” si andava compiendo sul corpo oramai indebolito di Dino. Nessuno poteva fermare l’inevitabile, ma Kyouya si era promesso di impedire alle sanguisughe in circolazione di prosciugare Cavallone delle sue ultime forze.

L’Hibari adolescente avrebbe deriso e forse maledetto chi era diventato, ma il tempo, in quegli anni perso dietro a interminabili isolamenti forzati, gli aveva insegnato che non è rimanendo da soli che si sconfigge la sofferenza.

Il male si cela ovunque, anche nella solitudine.

Non si sceglie, è lui a trovarci, e sfuggirgli è impossibile. L’unica arma di difesa verso questo male primordiale, è costruirsi la propria felicità. La stanza sicura in cui conservare ogni ricordo bello accumulato e in cui passare il tempo con le persone che, con la loro presenza, fanno sembrare quella felicità eterna.

Hibari Kyouya aveva trovato quel tipo di felicità in Cavallone Dino. La chiave era nascosta dentro la sua carne, in profondità, e non l’avrebbe ceduta per nulla al mondo.

 

 

Doveva ricordarsi che ora Cavallone era sano e salvo, a casa sua.

Dopo giorni di dolore, avrebbe festeggiato il nuovo anno circondato dai suoi uomini e la sua famiglia.

La ragazzina Ucraina, che si era unita a Hibari nel salvare Cavallone, nonostante le proteste di Hibari, era da tempo una nuova fonte di gioia per Cavallone. L’arrivo nella sua vita lo aveva segnato così tanto, da decidere di lasciare il ruolo di Cavallone Undicesima a lei, una volta che la Maledizione dei Cavallone avesse prevalso sull’anima di Dino, portando la sua fiamma a spegnersi per sempre.

Era diventata come una figlia per Cavallone. Hibari, in un certo qual modo, se ne sentiva altrettanto responsabile.

In confronto al sé adolescente, adesso Hibari aveva molto di più per cui lottare e proteggere con la sua vita, a ogni costo.

 

ooOoo

 

Affinché l’uomo lo capisse parola per parola, rispose alla sua provocazione parlando in Italiano:

«Non mi è stata affidata nessuna “missione”» gli rivelò Hibari. «Nessuno sa che sei qui, e nessuno lo saprà mai. Neanche la tua famiglia» concluse.

 

 

 

   
 
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