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Autore: Parmandil    01/01/2023    0 recensioni
Tornate con noi ai giorni gloriosi in cui veri uomini con pistole a raggi e splendide donne in abiti succinti affrontavano gli orribili mostri dello spazio esterno! Tornate ai giorni in cui Capitan Proton, difensore della Terra, dominava i cieli!
Per l’equipaggio della Destiny, sperduto nel Multiverso, il ponte ologrammi può costituire una piacevole distrazione. Specialmente se s’indossano i panni di Capitan Proton, l’eroe in bianco e nero ispirato alla Golden Age della fantascienza. Ma tutto cambia quando, visitando lo Spazio Fotonico, il programma olografico sovrascrive la realtà stessa, materializzando meraviglie e pericoli dalle Avventure di Capitan Proton. Stavolta la finzione esce dalle anguste pareti del ponte ologrammi, facendosi realtà, dalla Nave a Razzo fino alla Fortezza del Destino. Seguite l’audace Capitan Proton e il leale Buster Kincaid nella lotta contro il perfido dottor Chaotica e i suoi biechi scagnozzi, per salvare il cosmo e liberare l’incantevole Constance Goodheart. Sempre che Malicia e Demonica, le Signore Gemelle del Male, non abbiano qualcosa in contrario...
Genere: Avventura, Comico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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-Capitolo 8: Game over
 
   La Battaglia del Pianeta X, come fu detta in seguito, era entrata nel vivo. Nell’orbita, la flotta di Solara e la Destiny avevano preso le navi a razzo di Chaotica nel fuoco incrociato e le distruggevano metodicamente. Frammenti delle astronavi distrutte precipitavano sul pianeta, rigando il cielo come stelle cadenti. Alcuni raggi arrivavano fino alla Fortezza del Destino, venendo tuttavia parati dal suo Scudo di Lampi; gli attaccanti dovevano demolire la flotta prima di concentrarsi su quel bersaglio. Il Centurion, che aveva portato Losira alla Fortezza, decollò e lasciò il pianeta, in quanto i piloti vedevano avvicinarsi il bombardamento e volevano essere ben lontani per allora. Per quanti si trovavano prigionieri nella Fortezza, il teletrasporto era l’unica speranza, a patto che riuscissero a disattivare lo scudo; cosa che erano ancora ben lontani dal fare.
   Nella sala del trono, Chaotica stava caricando la sua superarma, col proposito di distruggere la Destiny. Era così concentrato sui comandi da aver quasi dimenticato i prigionieri; ma Lonzak non se li era scordati. Il capo delle guardie aveva l’ordine di appendere Arachnia – ovvero Losira – sopra il pozzo dei sacrifici, con gli altri ostaggi, e aveva tutte le intenzioni di farlo.
   «Preparati a un bel viaggetto all’Inferno, ingannatrice!» disse il grassone, agguantandola per legarla. La Risiana si dibatté, ma sapeva che non l’avrebbe spuntata. Allora ricorse al suo ultimo trucco. Cavò la boccetta di feromoni dalla manica e la svuotò interamente addosso all’avversario, approfittando della breve colluttazione. Poteva solo sperare che avessero lo stesso effetto già sperimentato su Chaotica.
   E l’effetto ci fu, eccome! I movimenti di Lonzak rallentarono, i suoi occhi si fecero sfocati. «Arachnia... oh, regina... quanto mi dispiace che debba finire così...» mormorò.
   «Non deve finire per forza, sai?» fece la Risiana, tentatrice. «Non era destino che fossi di Chaotica, ma potrei essere tua, se solo mi liberassi!».
   «Quanto vorrei... ma non posso!» fece il grassone, quasi piangendo per il dispiacere. «Sua Maestà mi ha ordinato di sottoporti al supplizio».
   «E se gli disobbedissi, per una volta?».
   «Supplizierebbe me!».
   «Non se ci alleiamo per scalzarlo!» suggerì Losira, dando fondo alle sue capacità persuasive. «Finora ti avevo sempre sottovalutato, lo ammetto. Ma quando ti ho visto tenermi testa, ho capito che finalmente avevo trovato il mio eguale. I giorni di Chaotica sono agli sgoccioli... e morto un re, se ne fa un altro. Pensaci: puoi essere tu, il Dominatore del Cosmo! Lonzak Primo, l’Inarrestabile! E io sarò con te, sempre!» gli bisbigliò all’orecchio, mentre si strusciava contro di lui.
   «Non posso, proprio non posso!» frignò Lonzak. Che fosse per fedeltà a Chaotica, o per timore della punizione, nemmeno l’overdose di feromoni bastava a farlo ribellare. Però lo teneva bloccato, impedendogli di procedere a legarla.
   A pochi metri da loro, Rivera osservava la scena senza poter intervenire. Il Capitano era ancora sospeso sopra il pozzo sacrificale, sudato e mezzo asfissiato, con le braccia che gli dolevano in modo atroce. Se solo avesse potuto liberarsi, per contribuire in qualche modo alla battaglia...
   «Be-beep?». Il pigolio elettronico veniva da sopra di lui. Alzando il viso per quanto possibile, Rivera intravide Ottoperotto – ancora verniciato col motivo a ragnatela – che fluttuava accanto alla corda. Non rischiava mica di precipitare nella lava, lui.
   «Ti dispiace darmi una mano?!» fece l’Umano, ormai allo stremo. «Voglio dire, liberami. Ma senza farmi cadere!» precisò, temendo che l’ordine fosse eseguito alla lettera.
   «Be-beep!» assicurò il robottino, nel tono di un «certo, come no, sta’ tranquillo che ci penso io!». Schizzò presso il verricello, sul lato opposto del pozzo rispetto a dov’erano Lonzak e Losira. Qui, sfruttando il replicatore incorporato sul muso, il robot riparatutto si dotò di un nuovo strumento, simile a una tenaglia. Con quella azionò i comandi, attirando verso di sé la fune a cui era appeso Rivera, finché il Capitano ebbe di nuovo il pavimento sotto ai piedi. Poi l’Exocomp afferrò la manovella, sempre con la tenaglia, e prese a girarla, così da far calare il prigioniero.
   Per la prima volta da ore, i piedi di Rivera toccarono il suolo. Per l’Umano fu un enorme sollievo non trovarsi più appeso per le braccia. Il dolore muscolare diminuì, pur senza svanire del tutto, ed egli barcollò, cercando di riprendere l’equilibrio. Abbassò le braccia, così che il sangue tornasse a irrorarle, ma aveva ancora i polsi legati.
   «Be-beep!» fece Ottoperotto, convertendo la tenaglia in una corta vibro-lama. Con quella tagliò la fune, liberando anche le mani al Capitano.
   «Ben fatto!» si congratulò Rivera, massaggiandosi rapidamente le braccia per riattivare la circolazione e far passare l’intorpidimento. Guardando oltre il pozzo, notò che Losira stava ancora trattenendo Lonzak. Mentre il grassone gli rivolgeva le spalle, e quindi non poteva accorgersi della sua liberazione, la Risiana era nella posizione giusta per vederlo, e anzi l’aveva certamente notato. I loro occhi s’incontrarono per un attimo, scambiandosi uno sguardo d’intesa; poi ciascuno tornò al lavoro. Losira tornò a incantare Lonzak, riuscendo a togliergli l’elmo per carezzargli il testone calvo. Intanto Rivera sganciò dal verricello la fune a cui era stato appeso, tirandola a sé fino a sfilarla del tutto dalla carrucola. Quando l’ebbe tutta tra le mani, la riannodò rapidamente in modo da formare un lazo.
   Ringraziando la sua passione per il ponte ologrammi, e in particolare le volte in cui aveva giocato al cowboy, il Capitano fece roteare il lazo sopra la sua testa. Lo lanciò al di sopra del pozzo... e centrò il bersaglio. Il bersaglio era il testone calvo di Lonzak, che d’un tratto si trovò con un cappio attorno al collo.
   «Ehi, ma che succede?!» fece il grassone, riscuotendosi. Le sue mani corsero istintivamente al cappio, per cercare di allentarlo.
   «Succede che, ripensandoci, neanche tu sei il mio tipo» disse Losira, con un sorriso perfido. Gli strappò la pistola a raggi dalla cintura e arretrò precipitosamente.
   Fu allora che il Capitano puntò un piede contro il parapetto del pozzo e tirò a sé la fune con tutte le sue forze. Lonzak cercò di afferrare Losira mentre questa gli sfuggiva, ma fu tirato all’indietro e ghermì solo l’aria. Urtò la balaustra del pozzo con la schiena, emettendo un lamento soffocato: «Ghak!». Il cappio lo soffocava sempre più ed egli cercò disperatamente di allentarlo, per tornare a respirare. Ma Rivera aveva altri piani.
   «Mi spiace, ma è la guerra» disse il Capitano, continuando a tirare strenuamente, puntando entrambi i piedi contro il parapetto per esercitare ancora più forza.
   Tirato così vigorosamente all’indietro, Lonzak perse l’equilibrio e si ribaltò oltre la balaustra. Cadde nel pozzo sacrificale, rimbalzando più volte contro la parete concava mentre lanciava il suo ultimo grido. E sprofondò nella lava incandescente che lo finì.
   Rivera, dal canto suo, mollò immediatamente la fune per non essere trascinato con lui. Cadde a terra, si rialzò e corse da Losira, che gli diede la pistola a raggi sottratta al grassone. I due non persero tempo a complimentarsi e non poterono nemmeno liberare Giely, ancora precariamente sospesa sul pozzo. Davanti a loro avevano un buon numero di guardie, allertate dall’ultimo grido di Lonzak. Anche il dottor Chaotica, sul punto di aprire il fuoco con la superarma, si girò e li vide liberi.
   «UCCIDETE PROTON!» gridò il despota, con quanto fiato aveva in gola. Poi tornò a mirare la Destiny, deciso a sottrargli ogni via di fuga.
 
   Da quando era entrata in quella sala, mascherata come ancella di Arachnia, Shati aveva atteso il momento propizio per entrare in azione. Ora che il Capitano s’era liberato e le guardie correvano ad affrontarlo, la Caitiana sentì che era il momento d’agire. Si contorse con la sua agilità felina, sfuggendo alla presa d’acciaio del Robot Satanico.
   «ARRENDITI, DONNA-GATTO, O SARAI DISTRUTTA!» tuonò l’automa, cercando di riacciuffarla. Ma era troppo lento e goffo per la Caitiana, che in due balzi fu già lontana. Vedendo che la superarma stava per sparare – e che la Destiny era inquadrata come bersaglio – Shati vi si gettò contro con tutte le sue forze. L’urto fu così violento che l’ordigno piramidale si rovesciò su un fianco, proprio nel momento in cui apriva il fuoco.
   Un raggio d’energia bianca, intensissima, scaturì dalla cima della piramide e partì verso l’alto. Mancò la Destiny di un soffio, disintegrando invece una delle navi a razzo di Chaotica che si trovavano più avanti. Poiché l’arma si stava ribaltando, il raggio distruttore disegnò una sciabolata nello spazio. Colpì il soffitto della Fortezza, poi la parete dietro il trono di Chaotica, tagliando l’acciaio come se fosse burro. Il palazzo fu praticamente tagliato in due e il trono stesso venne liquefatto. Alcuni elementi del soffitto caddero, travolgendo un paio di guardie. Solo allora il raggio s’interruppe e la superarma giacque ribaltata su un fianco. Poteva sparare ancora, ma prima bisognava rialzarla, o avrebbe ulteriormente danneggiato la Fortezza. E considerato il suo peso, non era facile raddrizzarla. Solo un uomo in forze, o meglio ancora il Robot Satanico, ci sarebbero riusciti.
   «Ooops, spero che il tuo palazzo sia assicurato contro gli incidenti!» infierì Shati all’indirizzo di Chaotica, che era rimasto a bocca aperta. Senza perdere altro tempo, la Caitiana si gettò nella mischia per aiutare il Capitano. Prese la pistola a raggi di una guardia che era stata travolta dalle macerie e si nascose dietro una colonna, ingaggiando la sparatoria con quelle che restavano.
   Chaotica sputacchiò, pazzo di collera, prima di riuscire a dare un ordine intellegibile. «Robot, raddrizza l’arma!» comandò. Era deciso a usarla di nuovo, e stavolta si sarebbe accertato di non mancare il bersaglio.
   «RADDRIZZARE L’ARMA!» ripeté il Robot Satanico, accostandosi all’ordigno, con le braccia meccaniche già protese. Ma dovette fermarsi quando un altro robot gli sbarrò il passo.
   «Be-beep! Vietato passare!» avvertì Ottoperotto, fronteggiando coraggiosamente il collega più grosso.
   «ORDINE NON RICONOSCIUTO» ribatté l’automa cilindrico. «VATTENE, MICROBO, O SARAI DISTRUTTO!».
   «Ottoperotto non scappa, be-beep!» lo sfidò il robottino. «Ottoperotto aggiusta e Ottoperotto guasta. Ottoperotto disattiva collega grosso e primitivo!» minacciò. Così dicendo gli fluttuò davanti, ondeggiando a mezz’aria per non farsi afferrare, come un grosso calabrone. Le sue lucette sfarfallavano a un ritmo combattivo, come una danza di guerra.
   «Come sarebbe, primitivo?!» s’indignò Chaotica, che assisteva alla scena. «Quello l’ho costruito io, è il mio capolavoro del male. Mi senti, macchina senz’anima? Obbedisci al tuo padrone, schiaccia quella mosca!» ordinò.
   «DISTRUGGERE OTTOPEROTTO!» confermò il Robot Satanico. Si avventò sull’Exocomp, cercando di afferrarlo per poi stritolarlo, ma le sue mani a tenaglia scivolarono sul guscio ovoidale del robottino. Questo prese a spostarsi agilmente, cambiando altezza, direzione e velocità ogni pochi secondi. I suoi movimenti erano così rapidi e imprevedibili che l’altro automa, più lento e goffo, non riusciva mai ad agguantarlo.
   «Rottamare il Robot Satanico, be-beep!» disse Ottoperotto in tono bellicoso. A ciò fece seguire uno squillo di tromba, riprodotto col suo sintetizzatore vocale. Attivato il replicatore anteriore, prese a materializzare una serie di strumenti con cui attaccare. Non erano altro che gli attrezzi comunemente usati dagli Exocomp per le loro riparazioni ingegneristiche, perché i robottini non erano in grado di produrre armi. Al tempo stesso analizzò il Robot Satanico, in cerca di un punto debole.
   Dapprima Ottoperotto colpì l’avversario con scosse elettriche ad alto voltaggio, ma si avvide che i fulmini crepitavano sul suo rivestimento senza danneggiare i circuiti all’interno. Allora creò un saldatore e si mise a colpire con quello, mirando alle giunture degli arti. Colpì più volte, provocando piogge di scintille e lasciando piccole lesioni sul rivestimento del Robot Satanico. Ma non era abbastanza per recidergli gli arti, o anche solo per metterli fuori uso. Il robottino provò con una piccola sega circolare, infliggendo qualche danno in più, ma ancora non bastava. Nel frattempo continuava senza sosta a schivare gli attacchi nemici, ronzando attorno e sopra al Robot Satanico, disegnando intricati arabeschi nell’aria, sempre fuori portata. La capacità di volare lo avvantaggiava, così come il suo guscio liscio che non offriva appigli. Il suo cervellino positronico calcolava migliaia di schemi d’attacco al secondo, scegliendo il più efficiente e valutando l’efficacia di ogni nuovo assalto per migliorare le successive stime. Per contro, i primitivi circuiti del Robot Satanico non gli garantivano una capacità di calcolo e d’apprendimento così elevata. I suoi attacchi erano prevedibili e ripetitivi.
   «DISTRUGGERE OTTOPEROTTO! DISTRUGGERE, DISTRUGGERE!» ripeté l’automa cilindrico, surriscaldato dallo sforzo. I suoi movimenti divennero più rapidi, ma anche erratici.
   L’Exocomp calcolò che era il momento giusto per l’attacco finale. Riconvertì in energia la sega circolare e al suo posto materializzò una piccola vibro-lama, come quella che aveva usato per slegare il Capitano. A forza di analizzare l’avversario, i suoi sensori ne avevano individuato il punto debole; fu lì che concentrò l’attacco. Dapprima gli colpì lo sportello anteriore, facendo saltare il meccanismo di chiusura. I bruschi movimenti dell’automa spalancarono lo sportello. Allora Ottoperotto, muovendosi alla massima velocità, sferrò nuovi affondi. Colpì il Robot Satanico nella sua elettronica interna, tagliando cavi, bruciando resistenze, scassando fusibili. Infine trafisse una grossa valvola e la strappò dal suo alloggiamento.
   Il Robot Satanico emise un fischio agonizzante, mentre una pioggia di scintille scaturiva dal suo sportello aperto, seguita da un acre fumo nero. Scariche elettriche, provenienti dall’interno, percorsero il suo rivestimento. Con un mesto «BZZZT!» finale, l’automa si piegò in avanti e rimase inerte. Le sue braccia telescopiche si srotolarono per il loro stesso peso, fino a toccare il pavimento. E così rimase: immobile, disattivato. Morto.
 
   Vittorioso, Ottoperotto emise un nuovo squillo di tromba. «Robot Satanico rottamato!» si vantò, ronzandogli sopra in cerchio. Infine lo urtò con abbastanza forza da farlo cadere a terra, dove restò inerte.
   «Dannato sgorbio volante, la pagherai anche tu!» minacciò Chaotica, ma dovette arretrare quando vide l’Exocomp che gli veniva contro, sfoggiando di nuovo il fulminatore elettrico. Il folle scienziato si nascose dietro un paio di guardie e scivolò lungo la parete, allontanandosi.
   Osservando la battaglia, Chaotica vide che i suoi nemici stavano prendendo il sopravvento. Proton e Shati erano armati di pistole a raggi e colpivano una guardia dopo l’altra, mentre non c’era verso che quei buoni a nulla centrassero loro. Il Capitano, in particolare, si era posto dietro la superarma rovesciata e quindi le guardie non osavano neanche sparargli, per timore di guastare definitivamente l’ordigno. Ogni pochi attimi si udiva un «Urgh!» e un altro tirapiedi si abbatteva sul pavimento. Anche Arachnia aveva preso l’arma di un caduto e partecipava alla sparatoria, seppure senza esporsi quanto i colleghi. Ottoperotto aleggiava sopra tutto e tutti, inafferrabile; ogni tanto scendeva a dare la scossa a qualche malcapitato scagnozzo. Nello spazio, poi, i Solarani e quell’altra nave avevano ormai demolito la sua Forza Spaziale e da un momento all’altro avrebbero rivolto le armi contro la sua Fortezza. Tutto il suo regno si stava disfacendo attorno a lui, e non aveva nemmeno un posto sicuro in cui scappare.
   «Arrenditi, Chaotica! Il tuo potere sta crollando!» tuonò il Capitano, tra grida ed esplosioni. «Se ti arrendi ora avrai salva la vita, ma se ti ostini allora non la scamperai!».
   «No, non può finire così! Maledetto Proton, non mi arrenderò mai!» ringhiò Chaotica, pensando a come poteva fare del male ai suoi avversari. C’era almeno uno di loro che fosse ancora in posizione vulnerabile? Sì, notò il despota con sommo gaudio. Constance Goodheart, l’inutile segretaria, era ancora appesa sopra il pozzo dei sacrifici. Presi com’erano dalla sparatoria, i colleghi non avevano avuto la possibilità di liberarla. Bene, lui glielo avrebbe impedito definitivamente.
   Scivolando lungo le pareti, il folle scienziato si avvicinò al verricello cui era appesa la vita dell’ostaggio. Estrasse un sottile pugnale, una sorta di stiletto, che teneva nascosto nella manica. Intendeva recidere la corda, per far precipitare Constance nella lava ribollente. Così alla fine l’avrebbe sacrificata, anche se non certo ad Arachnia, si disse, storcendo il viso in una smorfia ironica. No, l’avrebbe sacrificata alla vendetta, alla sua eterna lotta contro Proton; e stavolta nemmeno l’eroe dello spazio l’avrebbe salvata.
 
   Nella sua scomoda posizione, Giely aveva un solo vantaggio: una buona visuale di ciò che accadeva nella sala del trono. Se in precedenza il calore e le esalazioni sulfuree l’avevano stordita, ora il frastuono della battaglia l’aveva ridestata, ed ella non si perdeva un solo dettaglio dello scontro. In particolare non le era sfuggito il disperato coraggio del Capitano nell’affrontare Lonzak e le guardie. Il suo cuore palpitava ogni volta che Rivera si gettava allo scoperto per guadagnare terreno, o che un colpo gli cadeva vicino. Udendolo intimare la resa a Chaotica, la Vorta si mordicchiò il labbro, rendendosi conto di quanto valesse l’Umano.
   D’un tratto però la dottoressa vide il despota avvicinarsi con la lama in pugno e intuì le sue intenzioni. Si guardò freneticamente attorno, ma nessuno dei colleghi era tanto vicino da poterla aiutare.
   «Addio per sempre, Constance Goodheart della Terra!» fece il despota, levando il pugnale per tagliare la fune.
   «Io non mi chiamo Constance e non vengo dalla Terra!» rivendicò Giely, scrollando il capo. La parrucca bionda, già fuori posto, si staccò del tutto e cadde nel pozzo vulcanico, scomparendo in una fiammata. Ora i corti capelli neri della Vorta erano ben visibili; come lo erano le sue orecchie zigrinate.
   A quella vista Chaotica restò paralizzato dallo stupore. Ovviamente non aveva mai visto un Vorta in vita sua, né sapeva cosa fossero. «Tu non sei Constance!» fu tutto ciò che riuscì a dire.
   «Ben svegliato! È un’ora che te lo diciamo, scimunito!» lo canzonò Giely.
   «Chiunque tu sia, è chiaro che il Capitano ti ama» ragionò il folle scienziato, suscitando inavvertitamente un brivido nella Vorta. «Quindi mi prenderò la mia vendetta!» decise, avventandosi col pugnale contro la corda.
   A quella vista Giely lanciò un acuto strillo, degno di Constance Goodheart, attirando l’attenzione di Rivera. Il Capitano vide Chaotica sul punto di colpire e reagì d’istinto, fulmineo. Sparò al despota, centrandolo nella schiena.
   Per un attimo Chaotica restò paralizzato, con un’espressione di dolore e stupore sul volto. Poi cadde in avanti, faccia a terra. Ma nel far questo, con le ultime energie, menò una pugnalata che tagliò quasi del tutto la corda. Restò una manciata di fibre a reggere il peso della Vorta. E per quanto fosse un peso lieve, quelle poche fibre presero subito a sfilacciarsi.
   «La corda sta per cedere!» gridò Giely, sperando che qualcuno dei colleghi la salvasse in tempo. Ma guardandosi attorno, vide che erano tutti alle prese con le ultime guardie. Losira, Shati, persino Ottoperotto erano in mezzo alla gragnola e non potevano uscire allo scoperto per soccorrerla. Angosciata, la dottoressa tornò a cercare il Capitano con lo sguardo. L’ultima volta lo aveva visto ripararsi dietro alla superarma rovesciata, ma ora non c’era più. Lo cercò disperatamente, ma dalla sua posizione non riusciva a vedere cosa accadeva alle estremità del salone. Così non vide l’Umano che staccava un trofeo appeso accanto al trono semidistrutto di Chaotica. Non lo vide indossare lo zaino metallico, né assicurarsi le cinghie sul petto.
   Un suono di lacerazione riportò l’attenzione di Giely sulla corda. Le ultime fibre si stavano strappando, era questione di attimi. Ah, se quand’era fuggita dal Dominio avesse saputo che andava incontro a questa sorte! Magari sarebbe rimasta lì dov’era. Anni a inseguire un sogno di libertà... di realizzazione personale... a cos’erano serviti, se doveva morire come una schiava sacrificata?
   Con un ultimo crepitio, la corda si strappò del tutto. La Vorta precipitò nel pozzo di lava ribollente, lanciando un ultimo grido disperato. Come al rallentatore, vide il soffitto allontanarsi e gli orli del pozzo chiudersi su di lei, mentre i fumi roventi l’avvolgevano. Ma in quell’attimo due forti braccia l’afferrarono, sostenendole una le spalle e l’altra le ginocchia, interrompendo la caduta.
   «Niente paura, t’ho presa!» disse una voce familiare.
   Esterrefatta, col cuore che batteva all’impazzata, la Vorta si sciolse le mani dai resti della fune e si afferrò strettamente al suo salvatore. Alzò gli occhi su di lui – i loro volti erano a un soffio – e si vide riflessa negli occhialoni da aviatore di Capitan Proton. Abbracciandolo, gli tastò dietro la schiena e sentì lo zaino metallico, il cui frastuono peraltro le riempiva le orecchie. Dunque il Capitano aveva spiccato il volo con lo zaino a razzo, salvandola da morte certa. Allora le sorse spontanea alle labbra quella che, in fondo, era la sua unica battuta come Constance Goodheart: «Oh, mio eroe!».
   «Reggiti forte piccola, ti porto via da qui!» promise il Capitano, dando piena energia allo zaino a razzo. Dopo aver galleggiato a mezz’aria, i due partirono dritti sparati verso l’alto. Giely temette che si schiantassero contro il soffitto, ma Rivera si diresse verso un quadrato di cielo libero. Era l’apertura che, ironicamente, Chaotica aveva spalancato nel tentativo di usare la superarma. La Vorta non sapeva come facesse l’Umano a dirigere la traiettoria di volo, ma evidentemente in qualche modo ci riusciva; forse c’entravano i movimenti della testa. Fatto sta che i due infilarono dritti il passaggio, emergendo all’esterno – e al di sopra – della Fortezza del Destino. Guardando sotto di sé, Giely vide con una prospettiva vertiginosa le torri che s’innalzavano dal corpo principale dell’edificio. Una caduta da quell’altezza era fatale; poteva solo augurarsi che lo zaino a razzo avesse abbastanza carburante da farli atterrare.
   «Ora dove andiamo?!» chiese, urlando per farsi sentire sopra il rombo del razzo e il fischio del vento.
   «Atterreremo a distanza di sicurezza, così potrai teletrasportarti sulla Destiny» rispose Rivera.
   «E tu?».
   «Io devo tornare indietro, non posso abbandonare Losira e Shati» spiegò il Capitano, che le aveva lasciate nel bel mezzo di una sparatoria. «Non temere, abbasseremo lo scudo e ci salveremo tutti...».
   In quella però la luce del sole venne meno. Un’enorme ombra coprì i due fuggitivi e l’intera Fortezza, risalendo lungo le sue torri argentee.
   «E adesso che... oh, no!» gemette Rivera, guardando verso l’alto. Anche Giely alzò lo sguardo e si avvide che l’ombra era gettata da un colossale disco volante. Il suo scafo, liscio e scuro, era senza contrassegni.
   «E quello cos’è?!» chiese la Vorta.
   «Il vascello delle Signore del Male» rivelò il Capitano. «Hanno rapito il povero Talyn, e sa il Cielo che gli hanno fatto!». Ridusse la potenza del razzo, così che galleggiassero a mezz’aria senza muoversi troppo; temeva infatti che tentare la fuga invogliasse le gemelle ad aprire il fuoco.
   In quella qualcosa si mosse sullo scafo inferiore del disco volante. Una piastra si abbassò, girando su un cardine e sostenuta da due pistoni idraulici ai lati. In tal modo si aprì un ingresso, con la piastra dello scafo che faceva da pedana d’atterraggio. Di norma ciò accadeva solo quando il disco era atterrato e ben saldo al suolo. Stavolta però lo avevano fatto ancora in volo, una mossa insolita. Era un invito inconfondibile, e infatti di lì a un attimo si udì una voce al megafono: «CAPITANO, DEVI ENTRARE SUBITO!».
   «Che facciamo?» chiese Giely, spaventata.
   «C’è poco da fare» rispose cupamente Rivera. «Se tentiamo la fuga, le Signore del Male ci abbatteranno col Raggio della Morte. Non ci resta che fare come dicono, e cercare di affrontarle una volta dentro».
   «Okay, sono con te» annuì la Vorta, sempre stringendosi con tutte le forze per non cadere.
   Presa la decisione, l’Umano ridette piena energia al razzo. Lui e Giely presero sempre più quota, avvicinandosi al disco volante. Il Capitano mirò all’ingresso, sperando che avessero abbastanza propellente per arrivarci. L’autonomia dello zaino era limitata e loro erano in volo ormai da parecchio. L’apertura era sempre più vicina, ma lo zaino cominciava a sputacchiare, a corto di carburante...
   «Appena arriviamo, afferrati a uno dei pistoni laterali» consigliò Rivera alla sua “passeggera”. «Ecco, ora!».
   Con un ultimo sforzo, lo zaino li portò fino all’orlo della pedana d’atterraggio. Il Capitano si afferrò subito a uno dei pistoni che ne regolavano l’apertura e anche Giely fece lo stesso, staccandosi da lui. Restarono avvinghiati al pilastrino metallico con tutte le loro forze, mentre il vento li frastornava, ululando nelle orecchie.
   «Reggiti!» gridò Rivera, sentendo che il disco volante stava già riprendendo quota.
   Il portello prese a richiudersi; i pistoni s’accorciavano richiamando la pedana verso l’alto. I due fuggitivi si trovarono su una superficie sempre più inclinata verso l’interno del vascello. Prima che si chiudesse del tutto dovettero lasciare il pistone, per poi scivolare lungo il piano inclinato, atterrando malamente all’interno. Ci fu un sibilo d’aria, seguito da uno scatto metallico, mentre la piastra tornava a sigillarsi.
   «Stai bene?» chiese per prima cosa il Capitano.
   «Io... credo di sì» mormorò la Vorta, cercando di raccapezzarsi. «Grazie per avermi salvata. Aspetta, ti aiuto» disse, vedendo che l’Umano cercava di slacciarsi le cinghie dello zaino, ormai a secco.
   Slacciato frettolosamente, lo zaino surriscaldato cadde a terra con un clangore metallico, fumando ancora dai razzetti. I due malcapitati si rialzarono, doloranti; ma non era finita. Il Capitano impugnò la pistola a raggi e si guardò attorno, pronto a tutto. Al tempo stesso fece da scudo a Giely, che non aveva armi.
   «Ah, che bella immagine! Siete proprio da copertina!» disse una voce familiare, accompagnandosi con un breve applauso. Una figura umanoide venne avanti, uscendo dalla penombra del corridoio per sbucare nella piena luce della camera d’imbarco.
   Era Talyn.
   «Sei vivo!» lo salutò Giely, che non lo vedeva da quand’erano tra gli Uomini Pesce.
   «Sì, ma... sei ancora dei nostri? Non ti hanno fatto il lavaggio del cervello?» chiese Rivera con sospetto, tenendolo sotto tiro.
   L’El-Auriano, che era disarmato, non alzò nemmeno le mani. «Se le gemelle avessero fatto come volevano, non sarei qui ad aiutarvi. La loro idea era di osservare la battaglia da lontano, come fosse uno spettacolo. Ma hanno abbassato la guardia, ed ecco che mi sono impadronito dell’astronave» disse sbrigativamente.
   «Come? La Sonda Cerebrale...».
   «È di là, nella camera degli interrogatori. L’ho sabotata prima che potessero usarla» spiegò Talyn, additando dietro di sé. «Quanto ai robot, non fanno niente senza un ordine esplicito delle loro padrone, per cui non mi hanno ostacolato».
   «Uhm, e le Signore del Male dove sono? Non le avrai mica accoppate?!» volle sapere il Capitano, ancora sospettoso.
   «Ma no, scherzi? Sono legate, nei loro – ehm – alloggi» spiegò il giovane, arrossendo leggermente.
   «Non in cella?».
   «Non ho ancora potuto trasferirle. Sai, finché ero solo temevo che si liberassero» si giustificò Talyn.
   «Okay, ti aiuterò io. Dove sono le loro stanze?» chiese il Capitano.
   «Di là» fece l’El-Auriano, indicando un corridoio laterale. «Però, senti... è meglio che me ne occupi io, con calma, quando la battaglia sarà finita» aggiunse imbarazzato.
   «Perché?» fece Rivera, troppo trafelato per capire le allusioni.
   «Ecco... diciamo che al momento non sono troppo vestite» chiarì Talyn. «E siccome ho già visto tutto quello che c’era da vedere, ecco... forse saranno meno imbarazzate se le slego io».
   Il Capitano tacque per qualche momento, mentre i suoi neuroni facevano finalmente contatto. Adesso capiva in che modo il giovanotto si era trovato in condizione di legare le gemelle, nella loro camera da letto, senza che si opponessero, se non quand’era troppo tardi. «Per stavolta non ti chiederò alcun rapporto missione, Guardiamarina» ironizzò.
   «Grazie, Capitano» fece Talyn, sollevato.
   «Bene, dobbiamo ancora chiudere i conti con Chaotica!» disse il Capitano, tornando alle faccende più pressanti. «Andiamo in plancia, devo controllare come vanno le cose laggiù».
 
   Shati era ancora impegnata nella sparatoria quando un boato attirò la sua attenzione. La Caitiana si girò appena in tempo per vedere il Capitano, con lo zaino a razzo, che s’involava per l’apertura sul soffitto, tenendo Giely tra le braccia. Allora la timoniera uscì dal riparo e in due balzi fu accanto a Losira, per darle manforte. «Hai visto? Gli ostaggi hanno preso il volo!» commentò, continuando a sparare.
   «Già, speriamo che sappiano anche atterrare» fece Losira, che per tutto lo scontro si era tenuta piuttosto defilata. Il fatto era che il costume da Arachnia la impacciava terribilmente, sebbene si fosse strappata lo strascico per non restare impigliata.
   «Oh, se la caveranno come al solito. Congratulazioni Comandante, missione compiuta!» fece Shati, eliminando un’altra guardia in calzamaglia.
   «Già, peccato che ci siamo rimaste noi qui!» notò la Risiana. Si sporse a sua volta, colpendo l’ennesima guardia. Le rimanenti, prese dal panico, si diedero a una fuga disordinata.
   «Beh, ve ne andate già?! Bah, non ci sono più gli scagnozzi di una volta!» protestò Shati, che si stava divertendo troppo.
   «Sta’ attenta a non esporti. Non hai un’altra coda da perdere» l’ammonì Losira, riferendosi al fatto che poco tempo prima la Caitiana aveva perso la sua coda felina in una sparatoria. Shati annuì, imbronciata, e aspettò che Ottoperotto scansionasse la sala del trono, confermando che non restavano avversari in piedi. Solo allora le avventuriere uscirono allo scoperto.
   «Oh, vediamo di abbassare quel dannato scudo!» fece la Caitiana, affrettandosi alle consolle. Fortunatamente erano ancora integre, malgrado il resto del salone fosse semidistrutto. Mentre Shati cercava di venire a capo dei comandi, Losira si accostò alla superarma Krell rovesciata. La Caitiana la vide trafficarci attorno, ma non si soffermò a chiederle cosa stesse facendo. Finalmente trovò i controlli dello Scudo di Lampi e lo disattivò. Se sulla Destiny rispettavano il piano, le avrebbero teletrasportate subito.
   «Fatto! Ci sei, Comandante?» chiese Shati.
   «Sono pronta» confermò Losira, irrigidendosi nella posizione che facilitava il teletrasporto.
   «Be-beep!» pigolò Ottoperotto, venendole accanto. La sua vernice era graffiata in più punti, ma nel complesso l’Exocomp non aveva riportato danni.
   «Arachnia, noooo!» gridò il dottor Chaotica, riavendosi dallo stordimento. Tese una mano verso di lei, mentre cercava di rialzarsi. Ma in quella Losira, Shati e Ottoperotto svanirono nei bagliori del teletrasporto, lasciandolo ammutolito.
 
   «Rapporto!» ordinò Losira, passando dalla sala teletrasporto all’attigua plancia della Destiny. Era ancora paludata con l’eccentrico abito di Arachnia, ma i colleghi non ci fecero caso, avendola già vista prima che partisse in missione.
   «Bentornata, Comandante» la salutò Irvik, cedendole la poltrona. «Allora, sono andate bene le nozze?».
   «Temo che io e Chaotica le passeremo in bianco» ironizzò Losira, accomodandosi. «Rapporto, ho detto».
   «Tutte le navi a razzo sono state distrutte» riferì Naskeel. «I Solarani volevano bombardare la Fortezza, ma li abbiamo persuasi ad aspettare».
   «E c’è dell’altro» aggiunse Irvik. «È arrivato un disco volante con una bella sorpresa. Aprire un canale».
   Un po’ perplessa, Losira notò la sagoma discoidale che stava risalendo dall’atmosfera del Pianeta X. Prima che potesse chiedere spiegazioni, il canale fu stabilito. E fu con immensa gioia che la Risiana vide apparire Talyn, in compagnia di Rivera e Giely.
   «Capitan Kincaid a Destiny, ho recuperato gli ostaggi di Chaotica e sono pronto a rientrare! Ho anche catturato le Signore del Male e distrutto la loro Sonda Cerebrale. Mettiamo un po’ di distanza tra noi e la Fortezza del Destino, prima che comincino i fuochi d’artificio!» disse il giovane, gasatissimo.
   Per un attimo Losira restò interdetta da quel linguaggio, poi non riuscì a trattenersi. «Razza di scavezzacollo! Smetti di parlare in codice e torna qui, prima che venga a prenderti per la collottola!» ordinò, quasi ridendo per il sollievo di vederlo sano e salvo.
   «Arrivo, Mamma Orsa» la prese in giro Talyn, e chiuse il canale.
   «Il ragazzo ha ragione, dobbiamo decidere cosa fare con la Fortezza» notò Irvik. «I Solarani premono per bombardarla. Non so se possiamo avallarlo... in fondo ormai Chaotica è sconfitto...» rimuginò.
   «Se le cose vanno come prevedo, non avremo neanche bisogno di bombardare» disse Losira con un sorriso sadico, rigirandosi una piccola pietra ovoidale tra le mani.
 
   Ancora dolorante per il colpo alla schiena, il dottor Chaotica si rimise faticosamente in piedi. Si aggirò per la sala del trono semidistrutta, stentando a credere a ciò che vedeva. Il Robot Satanico era a terra, disattivato. Le sue guardie erano morte o stordite o fuggite. La sua bella fortezza era devastata e la sua Forza Spaziale era distrutta fino all’ultima nave. Non poteva sperare di ricostruire la sua potenza, dopo una simile batosta. I suoi sogni di gloria erano ridotti in cenere, a causa di Proton... e di Arachnia! Ormai non gli restava che un ultimo desiderio, la vendetta. E vedendo la superarma Krell con le quattro Pietre incastonate, il despota si disse che poteva ancora prendersela.
   Con un grosso sforzo, Chaotica riuscì a raddrizzare l’ordigno piramidale, assicurandosi che fosse posto sotto l’apertura nel soffitto. Premette i geroglifici sulla sua superficie, innescando la sequenza d’accensione. Poi si recò alle consolle, ancora funzionanti. L’immagizzatore era pieno d’interferenze, ma il folle scienziato riuscì a inquadrare le astronavi in orbita. Riconobbe i vascelli solarani e, più stranamente, il disco volante delle Signore del Male. Ma lui non aveva occhi che per la misteriosa astronave a cui doveva la sconfitta. In qualche modo doveva essere collegata a Proton, se lo sentiva. Così la prese di mira. Poi, mentre il fischio di carica della superarma si faceva sempre più acuto, non resistette alla tentazione di un’ulteriore rivalsa. Prese il microfono e contattò l’astronave.
   «Chaotica a Proton, rispondi! Lo so che sei lì!» ringhiò.
   E il Capitano gli rispose, essendosi già teletrasportato a bordo. «Qui è il Capitano Rivera, dell’USS Destiny» si presentò, abbandonando la recita.
   «Non prenderti gioco di me, Proton!» strepitò Chaotica. «Avrei dovuto immaginare che quell’astronave è tua. Sempre, sempre ti frapponi tra me e la vittoria! Anche nella Quinta Dimensione ti sei alleato coi miei nemici. Sei persino riuscito a corrompere Arachnia, inducendola a tradirmi!».
   «Come no, è stato lui a corrompermi. Certo che sei sempre più sveglio!» lo sfotté Losira, ma il despota la ignorò, tanto era concentrato sull’avversario.
   «Maledetto Proton, hai vinto di nuovo! Ma bada a te, la mia vendetta sarà terribile!» inveì il folle scienziato.
   «Certo, domani è un altro giorno e bla bla bla» tagliò corto Rivera.
   «Chi ha parlato di domani?» fece Chaotica, con un ghigno diabolico. «La mia superarma è carica e tra un attimo vi ridurrà tutti a polvere spaziale!» minacciò.
   «Non ti conviene provarci. Anzi, ti ordino di arrenderti, o stavolta non te la caverai!» intimò il Capitano, che aveva le sue ragioni per non temere più l’arma.
   «Ti riferisci al fatto che i tuoi alleati mi bombarderanno? E che me ne importa?!» sbottò Chaotica, al colmo della furia. «Anche dal cuore dell’Inferno, io ti trafiggo! Nel nome dell’odio, sputo il mio ultimo respiro su di te!» ruggì, rievocando le immortali parole del Capitano Achab, mentre la superarma raggiungeva il picco d’energia.
   Fu allora che una nota discordante rovinò l’armonia delle quattro Pietre. Chaotica si volse di scatto e vide che mentre tre di esse brillavano come la prima volta, una era rimasta opaca. La Pietra inerte era, guarda caso, quella del Fuoco.
   «Cercavi questa?» chiese Losira in tono innocente, estraendo la vera Pietra dall’enorme manica svasata. «Temo di averla sostituita di nuovo con quella falsa, mentre facevi il bell’addormentato. Niente di personale, sai... è solo lavoro» spiegò. Accanto a lei, il Capitano – già informato della sostituzione – fissò Chaotica con commiserazione.
   «Arachnia... NOOOOOOO!» gridò il despota, levando le mani al soffitto. Era troppo tardi per spegnere l’arma; troppo tardi per impedire che l’energia delle prime tre Pietre, non bilanciata dalla quarta, detonasse rovinosamente. E così avvenne: la superarma esplose con indicibile violenza, obliterando Chaotica con tutta la sua Fortezza e le sue truppe. La rupe stessa fu disintegrata, assieme a un ampio tratto del deserto circostante.
   Dall’orbita gli avventurieri videro un lampo accecante, seguito da un’immane colonna di fuoco e fumo che giunta nella stratosfera si allargò in forma di fungo. I venti d’alta quota trascinarono le ceneri, ricoprendo in breve tempo l’intero pianeta sotto una cappa nerastra. Sotto di essa, nel luogo dell’esplosione, i sensori mostrarono un immenso cratere, colmo di lava ribollente. Rocce semiliquefatte d’ogni misura furono scagliate a enorme distanza. Alcune ricaddero come una pioggia di meteore sull’intero emisfero; altre furono scagliate in orbita, tanto che le astronavi dovettero allontanarsi a distanza di sicurezza. Nei giorni successivi il Pianeta X, ora nero come la pece, vide formarsi attorno a sé un anello di detriti rocciosi, tutto ciò che restava di Chaotica e delle sue mire dispotiche.
   «Beh, direi che questo è il game over» commentò il Capitano.
   «E adesso che succederà?» s’inquietò Talyn. «Voglio dire, ormai sappiamo che lo Spazio Fotonico è di natura computazionale e ha processato la nostra avventura olografica, trasformandola in realtà. Ma ora che la partita è finita...» lasciò in sospeso.
   Gli avventurieri non tardarono a scoprirlo. Da un attimo all’altro ogni cosa, attorno a loro, riacquistò i colori. Pianeti e astronavi, oggetti e abiti, i loro stessi corpi ripresero le tinte naturali. Ora che il gioco era finito, non vivevano più in un cosmo monocromatico. Ma il Pianeta X c’era ancora, e così pure il disco volante. Persino la Pietra del Fuoco, ora di colore rosso, era ancora in mano a Losira.
   «Finalmente! Non ne potevo più di vivere in bianco e nero!» commentò la Risiana, ancora nei pittoreschi abiti di Arachnia.
   «Beh, è già qualcosa» commentò Rivera. Passò lo sguardo sui colleghi che avevano condiviso quell’incredibile avventura, sincerandosi che stessero bene: Losira, Shati, Talyn e per ultima Giely. Si soffermò sulla Vorta, che sembrava la più provata del gruppo. Avrebbe voluto dirle qualcosa, ma la vide svicolare dalla plancia e imboccare l’uscita prima che potesse fermarla. Allora si rassegnò a parlarle solo quando lei fosse stata pronta.
 
   L’indomani il Capitano convocò una riunione in sala tattica. La Destiny era ancora nei pressi del Pianeta X, così come la flotta dei Solarani, impegnati nelle riparazioni. Il disco volante era presidiato da una squadra della Sicurezza, mentre le Signore del Male – rimesse in sesto – erano state trasferite nelle prigioni della Destiny. Ma c’era ancora molto da fare e da decidere.
   «Bene, eccoci di nuovo qui» esordì Rivera, quando furono riuniti attorno al tavolo. «Tra tutte le nostre avventure, questa è stata la più...» e qui esitò per un tempo imbarazzante «... surreale» disse infine. «Considerando che tutto è nato dal mio programma, non posso che fare mea culpa» sospirò.
   «Nessuno avrebbe potuto prevederlo, Capitano» lo consolò Irvik. «Io stesso, con la mia non poca conoscenza in fisica quantistica, non avevo la minima idea che sarebbe accaduto».
   «L’importante è che abbiamo distrutto il nemico» disse Naskeel, sempre dritto al sodo.
   «Abbiamo salvato un intero popolo, i Solarani; ecco l’importante» puntualizzò Shati.
   «Beh, questo non sarebbe stato possibile senza ciascuno di voi» disse il Capitano, passando lo sguardo su tutta la tavolata. «Se quest’avventura mi ha insegnato qualcosa, è che le grandi imprese non sono opera di un singolo eroe come Proton, ma di un lavoro di squadra. E io, per fortuna, ne ho una ottima» riconobbe. «Ora, penso che converrete di non attardarci troppo in questo spazio. Tuttavia ci sono ancora delle questioni da risolvere, prima di riprendere il viaggio nel Multiverso. Punto numero uno: i Solarani. Tu, Losira, hai condotto le trattative con loro. Quanto li conosci esattamente?».
   «Pochissimo, in realtà» ammise la Comandante. «Abbiamo parlato poche volte, sempre solo tramite audio. Non conosciamo nemmeno il loro aspetto fisico. Ma perché lo chiedi, Capitano? Cos’hai in mente?».
   «Ecco, ho fatto qualche ricerca nel database e ho visto che la Flotta Stellare ha già contattato i nativi di questo spazio» spiegò Rivera. «Accadde nel 2375, quando alcuni di loro aprirono delle brecce interdimensionali che li portarono sull’USS Voyager. Pare che fossero esploratori, spinti dal puro gusto di conoscere nuove forme di vita. Tuttavia emersero proprio sul ponte ologrammi della Voyager... dove guarda caso era in corso il programma di Capitan Proton... e in quanto esseri fotonici lo scambiarono per la realtà. Così gli ufficiali della Voyager dovettero aiutarli a sconfiggere Chaotica; solo allora gli alieni si calmarono tanto da richiudere le brecce».
   «Perché ci racconti questo?» chiese Losira.
   «Perché quegli alieni conoscevano le coordinate del nostro Universo!» si entusiasmò il Capitano. «Furono loro a venire da noi, non il contrario! Ed è probabile che dopo il contatto le abbiano conservate. Quindi, se riuscissimo a farcele dire, potremmo finalmente tornare a casa».
   Un mormorio percorse la tavolata, ma Losira lo tacitò. «Un momento, Capitano. I Solarani che abbiamo incontrato non sono lo stesso popolo d’esploratori che contattarono la Voyager. Anche nello Spazio Fotonico ci sono specie distinte, proprio come nel nostro. E dubito che condividano conoscenze così importanti».
   «Sì, ma se descrivessimo ai Solarani quelli che cerchiamo noi, forse saprebbero darci indicazioni su dove trovarli...» insisté Rivera.
   «Possiamo provare, ma sono pessimista al riguardo» intervenne Irvik. «Vede, il fatto di spostarci in una realtà parallela non altera le nostre coordinate assolute. Eravamo nel Quadrante Alfa quando abbiamo abbandonato il nostro Universo, e se ora dovessimo tornarci saremmo ancora nel Quadrante Alfa. Non alle stesse identiche coordinate di prima, certo. In tutto questo tempo ci siamo spostati parecchio, e gli spostamenti si rifletterebbero sulle nostre coordinate d’arrivo. A occhio e croce direi che abbiamo percorso un migliaio d’anni luce, anche se non sempre in linea retta. Ma gli alieni che contattarono la Voyager lo fecero mentre questa era dispersa nel Quadrante Delta, ad almeno 60.000 anni luce dalla Federazione. Il che significa che anche nello Spazio Fotonico, dove siamo ora, vivono a 60.000 anni luce da qui. Troppi, perché i Solarani – che sono agli esordi dell’esplorazione – possano conoscerli. E non possiamo neanche cercarli da soli, perché 60.000 anni luce sono troppi e la destinazione è troppo vaga. Ci troveremmo a vagare per anni in questo cosmo, con scarsissime probabilità d’incrociarli».
   Il Capitano si sentì uno sciocco per non averci pensato subito. Si chiese se il pessimismo di Irvik era giustificato, e concluse di sì. Il Voth era, tra tutti loro, quello più ossessionato dal pensiero di tornare, dato che aveva moglie e figli. Se persino lui aveva gettato la spugna su questo tentativo, significava che era davvero impraticabile.
   «E va bene, niente coordinate» sospirò Rivera. «Ma forse potremo farci dare qualche informazione su questo cosmo. Magari combineremo uno scambio, un baratto. Tentar non nuoce, prima di ripartire». Era coerente con la sua politica del cercare più informazioni possibili sul Multiverso, nella speranza di cederle alla Flotta Stellare in cambio dell’amnistia, se mai fossero riusciti a tornare.
   «Vedrò cosa posso fare» promise Losira.
   «Okay, ora passiamo a discutere dell’elefante nella stanza» disse il Capitano.
   «Quale elefante?» insorse subito Naskeel, guardandosi prudentemente attorno. «Ho fatto ricerche, dopo la prima volta che li ha nominati, e le posso assicurare che non ci sono pachidermi su questa nave».
   «È un’altra frase fatta» sospirò Rivera. «Significa che dobbiamo affrontare l’argomento più evidente, del quale tuttavia nessuno ha voglia di parlare».
   «Ah. E gli elefanti che c’entrano?» chiese il Tholiano.
   «Niente, va bene? Non c’entrano assolutamente nulla! Quindi smettiamo di parlarne!» tagliò corto l’Umano.
   «Veramente è lei che continua a nominarli, ma... come vuole, Capitano» acconsentì l’Ufficiale Tattico.
   Rivera si massaggiò la fronte, cercando di riprendere il filo del discorso. «Dicevo che, sebbene l’avventura olografica sia tecnicamente finita, gli effetti su questo spazio si fanno ancora sentire. Abbiamo recuperato i colori, ma il Pianeta X è sempre là fuori. C’è ancora il disco volante e abbiamo le Signore del Male in cella. E non credo di sbagliare se affermo che là fuori ci sono ancora i pianeti con gli Uomini Pesce, gli Uomini Falco e compagnia bella. Santo Cielo, altro che interferire con gli abitanti... noi abbiamo creato interi popoli e culture! Che ne sarà di loro dopo che ce ne saremo andati? Entreranno in conflitto coi Solarani e gli altri nativi dello Spazio Fotonico?».
   «La soluzione è semplice: dobbiamo trovare i popoli creati dal programma e distruggerli» propose Naskeel.
   «Sei impazzito? Sarebbe un genocidio!» insorse Giely. «Quale che sia la loro origine, ormai quei popoli esistono, hanno vita propria!».
   «Non so... sono pur sempre usciti dal computer» notò Irvik. «Dovremmo lasciarli andare per la loro strada, col rischio che facciano danni?».
   «Ah, non c’è alternativa, a meno che vogliamo sterminarli!» ribatté Talyn, che avendoci passato del tempo assieme tendeva a vederli come veri individui. La discussione si animò; ognuno aveva la propria idea al riguardo.
   «Va bene, conveniamo almeno sul fatto che è una decisione difficile!» esclamò Losira, cercando di riportare l’ordine. «In fondo non è altro che l’eterno dilemma su cosa sia una “persona” e quindi su chi debba godere dei diritti fondamentali. E poiché siamo tutti parte di una catena di comando... la decisione è tua, Capitano» disse, sbolognandogli la patata bollente.
   Scese un silenzio teso. Vedendo che tutti lo fissavano, Rivera si prese deliberatamente del tempo prima di rispondere. «Partiamo da un dato di fatto: al pari di voi, io non so se quegli esseri usciti dal programma vadano considerate persone con dei diritti, oppure no» esordì. «Però una cosa la so per certo: la nostra opinione di cosa sia una persona cambia col tempo. L’idea che abbiamo oggi è diversa da quella che avevamo in passato, e in futuro la penseremo ancora diversamente. Quando dico “noi”, beninteso, mi riferisco all’opinione prevalente nella nostra società. Quindi l’argomento è mutevole, in perenne evoluzione, o se non vi piace questa parola, in perenne cambiamento. La morte, invece, è definitiva. Quindi uccidere qualcuno perché non lo si considera una persona significa imporre una decisione definitiva a quello che è un dibattito in continuo divenire. E io credo che nessuno, ma proprio nessuno, debba arrogarsi una tale autorità».
   Detto questo, il Capitano respirò a fondo e riprese. «Perciò, quando non si sa cosa sia giusto fare, io credo che si debba dare ascolto alla voce più misericordiosa. È meglio lasciarli vivere, per poi scoprire che in realtà non erano persone, piuttosto che ucciderli per poi magari scoprire che lo erano. Se volete, è lo stesso principio che regola il sistema giuridico: meglio lasciare impunito un colpevole, piuttosto che punire un innocente. Per questo motivo, stabilisco che tutti gli individui e i popoli scaturiti dal programma siano risparmiati. Lasciamoli vivere a modo loro, sui loro mondi. Del resto nessuno di loro possiede astronavi, e certo passerà molto tempo prima che riescano a costruirne, se mai lo faranno. Fino ad allora non saranno una minaccia per i nativi dello Spazio Fotonico. Se mai torneremo alla Federazione, spiegheremo anche questa faccenda; e allora saranno le autorità federali a decidere».
   Questo discorso parve così giusto che nessuno tra gli ufficiali, nemmeno Naskeel, ebbe nulla da obiettare. Giely in particolare rivolse al Capitano un sorriso di gratitudine. Era la prima volta che lo faceva, da quand’erano tornati a bordo. Rivera ne fu confortato e sperò che la Vorta non ce l’avesse con lui per quella disavventura. Tuttavia quando, al termine della riunione, gli ufficiali lasciarono la sala tattica, la dottoressa se ne fuggì di nuovo in infermeria, senza che lui potesse parlarle a quattr’occhi. Così il Capitano si rassegnò ad aspettare ancora, prima di affrontare la situazione fra loro.
 
   Malicia e Demonica si aggiravano avanti e indietro per la cella, come due tigri in gabbia. L’umiliazione della sconfitta bruciava forte e non avevano su chi sfogarsi, così bisticciavano tra loro, accusandosi reciprocamente. L’oggetto dello scaricabarile era, manco a dirlo, Buster Kincaid, ovvero Talyn.
   «Sei tu che hai insistito per prenderlo a bordo!» accusò Demonica per la centesima volta.
   «Non mi pare che la cosa ti dispiacesse! E comunque ho voluto la Sonda Cerebrale apposta per controllarlo!» ribatté Malicia.
   «Sì, la Sonda che poi non hai nemmeno saputo usare!».
   «Eravamo lì tutte e due, e nemmeno tu hai saputo sistemarla!».
   «Dovevamo tenere Buster in cella finché non avessimo risolto il problema. Ma tu come al solito non hai voluto aspettare!».
   «Senti chi parla, ma se non gli staccavi gli occhi di dosso! E poi sei stata tu a ordinare ai robot di non intervenire fino a nuovo ordine!».
   «Ah sì, e chi ha deciso che quel giochetto coi nodi fosse una cosa intelligente?!».
   «E chi teneva l’attrezzatura già pronta nel comodino?! Ha usato le tue corde e manette per immobilizzarci!».
   A quell’accusa, Demonica non ci vide più. Si scagliò a testa bassa contro la sorella, rovesciandola all’indietro sulla branda. Le gemelle rotolarono una sull’altra, scambiandosi insulti e schiaffi. Leggermente in svantaggio, sotto la foga dell’assalto, Malicia afferrò il cuscino per difendersi. Allora Demonica si disimpegnò e prese l’altro, dalla sua branda, per non essere da meno. Con quell’arma improvvisata tornò all’attacco. Seguì una serrata lotta di cuscini tra le due gemelle, sempre più inviperite. Si colpirono con tutte le loro forze, ma i cuscini erano talmente imbottiti che non potevano farsi male.
   «Allora, ti arrendi?!» fece Malicia.
   «Mai! Posso andare avanti fino a sera!» ribatté Demonica.
   Fu allora che un applauso interruppe la baruffa. Le gemelle, stremate e scarmigliate, si fermarono e si volsero verso la parete trasparente. Solo allora si accorsero che la battaglia di cuscini aveva avuto un pubblico. Il Capitano Rivera era lì, ad applaudire, mentre accanto a lui c’era Talyn, più contenuto. Avevano rinunciato ai loro costumi da Proton e Buster, tornando agli abiti consueti, cioè delle uniformi paramilitari con l’aggiunta dei comunicatori della Flotta Stellare.
   «Scusate, belle signore» disse il Capitano, smettendo di battere le mani. «Anche se resterei volentieri a guardarvi fino a sera, temo di dovervi interrompere. Dobbiamo parlare del vostro futuro».
   «Bah, quale futuro? Ci assicurerai alla giustizia, come al solito!» brontolò Malicia.
   «Ma attento, nessuna prigione può trattenerci! Domani è un altro giorno, e noi torneremo, più potenti di prima!» minacciò Demonica.
   Rivera sospirò sconfortato davanti a quel campionario di frasi fatte. Si era chiesto a lungo se provare a spiegare come stavano realmente le cose, o se mantenere la finzione narrativa in cui erano immerse. Alla fine, sia pure controvoglia, aveva optato per la seconda opzione. Le Signore del Male non avrebbero mai accettato l’idea d’essere scaturite da una storia di fantasia. Non gli avrebbero creduto, e questo avrebbe ulteriormente ostacolato il dialogo. Quindi non restava che adattarsi alla loro mentalità, fermo restando che era lui a stabilirne la sorte.
   «Temo che stavolta le cose andranno diversamente» avvertì il Capitano. «Ricordate che siamo ancora nella Quinta Dimensione. Qui non ci sono la Terra e gli altri Mondi Incorporati».
   «Che stai dicendo? Che hai in mente di farci?» si accigliò Demonica.
   «Non vorrai mica farci fuori, vero? Sono troppo giovane per morire!» squittì Malicia, spaventata.
   «Figurati! Capitan Proton è troppo buono per uccidere a sangue freddo, dico bene?» fece Demonica, lanciandogli un’occhiata di sfida.
   «Suppongo di sì» ammise Rivera. «Ma non posso nemmeno rimettervi in libertà come se niente fosse. E di certo non posso riconsegnarvi il vostro disco volante e l’esercito di robot, o chissà che combinerete appena ce ne andremo». Dovendo mantenere la finzione, tacque il problema principale: non poteva nemmeno tenerle in cella sulla Destiny, o si sarebbero dissolte non appena lasciato lo Spazio Fotonico. O almeno questa era l’opinione di Irvik, il più esperto in fisica quantistica. Per lo stesso motivo non potevano portarsi dietro il disco volante. Tutto ciò che era scaturito dal programma di Capitan Proton doveva restare nello Spazio Fotonico, o si sarebbe destabilizzato.
   «E allora che farai?» tornò a chiedere Malicia.
   «Beh, per quanto riguarda il vostro vascello, la scelta è semplice» disse il Capitano, recandosi alla consolle della sala di guardia. Inserì alcuni comandi, accendendo un oloschermo direttamente nella parete trasparente della cella. In tal modo potevano osservarlo sia lui da fuori, sia le prigioniere all’interno. L’inquadratura mostrava il disco volante che si librava nello spazio aperto.
   «Capitano a plancia, avete evacuato il disco?» chiese Rivera, premendosi il comunicatore.
   «Affermativo, siamo pronti» rispose Losira.
   «Allora... fuoco» ordinò il Capitano.
   Sotto gli sguardi inorriditi delle gemelle, la Destiny sparò ripetutamente contro il disco volante, che aveva gli scudi abbassati ed era del tutto indifeso. I primi colpi, messi a segno coi phaser e i raggi anti-polaronici, aprirono una breccia nello scafo inferiore. Allora Naskeel scagliò un’intera raffica di siluri quantici, indirizzandoli nello squarcio. I siluri, splendenti di luce azzurra, sparirono all’interno della breccia. L’attimo dopo l’intero disco volante fu annientato da un’immane esplosione, con un’onda d’urto a forma d’anello che si allargò nello spazio. Svanite le ultime fiammate, non restarono che minuscoli detriti in dispersione. Allora Rivera disattivò l’oloschermo.
   Le Signore del Male erano rimase ammutolite, con gli occhi sbarrati e la bocca aperta. Non riuscivano a capacitarsi di ciò che avevano visto. La prima a riprendersi fu Malicia. «E tu saresti uno dei buoni?!» chiese, prossima alle lacrime.
   «Ringraziate che lo sia, o lo avrei fatto con voi dentro!» ribatté duramente Rivera. «Ora devo decidere che fare con voi. Come dicevo non posso deferirvi alla giustizia ordinaria, né rimettervi in libertà su un pianeta qualunque, e nemmeno tenervi sulla mia nave. A conti fatti, non c’è che una strada».
   Le gemelle si abbracciarono, temendo il peggio.
   «Fortunatamente qui nella... Quinta Dimensione ci sono alcuni pianeti i cui abitanti conoscono i vostri trascorsi» spiegò Rivera. «Parlo dei mondi che custodivano le quattro Pietre. Credo che il più adatto a ospitarvi sia Borea, dove l’ambiente non è così proibitivo e gli abitanti sono più umanoidi».
   «Gli Uomini Falco? Bleah! Sono allergica alle penne!» protestò Demonica.
   «Dovrai farteli andar bene, perché non ho altra scelta che lasciarvi lì» avvertì il Capitano. «Spiegherò agli Uomini Falco che non siete responsabili per la morte del principe Griffin, così sarete a piede libero, che è più di quanto meritate. Ma gli chiederò anche di tenervi d’occhio, nel caso vi tornasse voglia di delinquere. Del resto non ci sono molti posti dove andare, fuori dalla cittadella. E non ci sono astronavi, quindi non potrete scorrazzare per lo spazio facendo danni. Vi suggerisco di mettere la testa a posto e approfittare di quest’occasione per ricominciare. Altrimenti tornerete in cella, e quelle degli Uomini Falco sono decisamente più scomode di questa» avvertì.
   «Allora è così che finisce? Noi bloccate con quei gallinacci e voialtri a spassarvela tra le stelle?!» fece Malicia, col labbro tremulo per il dispiacere.
   «La nostra vita è tutt’altro che una festa. Anche noi siamo bloccati nella... Quinta Dimensione e chissà se riusciremo mai a tornare a casa» ribatté il Capitano, incupendosi. «Questo è tutto, belle signore. Godetevi gli ultimi giorni sulla mia nave. Capitano a plancia, rotta per Borea!».
   «Sì, signore» gli rispose Shati. Di lì a poco una leggera vibrazione dell’astronave indicò che erano balzati nel tunnel di cavitazione quantica.
   «Beh, io torno in plancia» disse Rivera a Talyn, che fino ad allora aveva fatto scena muta. Dal suo tono si capiva il sottinteso: «Se vuoi parlare con le prigioniere, questo è il momento. Nessuno v’interromperà».
   L’Umano lasciò la sala di guardia, e solo allora l’El-Auriano si fece avanti, fronteggiando le gemelle.
   «Oh, guarda! Mi chiedevo se avresti avuto il fegato di farti rivedere!» commentò Demonica in tono acido.
   «Il Capitano ci avrà anche distrutto la nave, ma tu ci hai spezzato il cuore!» rincarò Malicia.
   «È un rischio che vi siete assunte, quando mi avete sequestrato e avete fatto affari con quel folle di Chaotica» ribatté Talyn.
   «Che ti aspettavi? Siamo le Signore del Male... se ogni tanto non facciamo le cattive ragazze, che ci stiamo a fare?» obiettò Demonica.
   «Questa è una domanda che dovreste farvi seriamente» notò l’El-Auriano. «Magari è il momento di smettere d’essere le Signore del Male e diventare persone un po’ più... complete ed equilibrate. Altrimenti finirete come Chaotica» avvertì.
   «Senti chi parla! Tu imbrogli e diventi un eroe, noi imbrogliamo e diventiamo le cattive. Non mi sembra giusto!» affermò Demonica.
   «Voi imbrogliate per il vostro tornaconto, o persino per il gusto di farlo. Io l’ho fatto per andare a salvare i miei amici» puntualizzò Talyn. «Comunque non ho mai preteso d’essere un eroe, e infatti non mi aspetta alcuna ricompensa. Avete sentito il Capitano: questa nave è diretta verso l’ignoto e chissà se ce la caveremo».
   «Preferiresti rimanere con noi, tesoro?» lo provocò Malicia, in tono seducente, nell’estremo tentativo di ripicca prima di finire in esilio.
   «Se le circostanze fossero diverse, sarei tentato» ammise il giovane, osservando le gemelle con rimpianto. «Ma le circostanze non sono diverse, purtroppo. Addio, Malicia. Addio, Demonica». Detto questo si girò e lasciò la sala di guardia, senza voltarsi indietro.
 
   Come stabilito, la Destiny si recò a Borea per scaricarvi le Signore del Male. Il Capitano si trattenne a lungo con re Falcon e la principessa Poiana, per spiegare nel dettaglio com’erano andate le cose sul Pianeta X. Quando risalì a bordo, si limitò a dire che gli Uomini Falco avevano accettato di accogliere le Signore del Male e vigilare su di loro.
   «Bene, anche questa è fatta» commentò Irvik. «Adesso possiamo lasciare lo Spazio Fotonico?».
   «Non ancora. Prima dobbiamo tornare a Solara per sistemare gli ultimi dettagli» spiegò Rivera, memore dei suoi progetti.
   Fu così che la Destiny fece ritorno al pianeta che aveva salvato. Losira tornò a trattare con l’Ammiraglio Preon e altre autorità, nel tentativo di ottenere qualche informazione in più su quella regione di spazio.
   Alla successiva riunione tattica, la Risiana si mostrò più animata del solito. «Ho delle buone notizie, una volta tanto. I Solarani ci sono riconoscenti per l’aiuto che gli abbiamo dato, sia per proteggere il loro pianeta, sia per sconfiggere Chaotica. Tanto riconoscenti che ci hanno trasmesso il loro intero database spaziale!» rivelò. «Sono teraquad di dati; da soli avremmo impiegato mesi, forse anni a raccogliere così tante informazioni. E non è tutto! Si sono offerti di rifornirci, se ci mancasse qualcosa».
   «Vorrei averli incontrati quand’eravamo a corto di dilitio» commentò Rivera, malinconico. «Beh, signor Irvik, questo è il suo settore. Ci dica di cosa abbiamo bisogno».
   «Mah, a dire il vero, attualmente non ci manca nulla» rispose l’Ingegnere Capo, quasi vergognandosi della sua efficienza. «Abbiamo sia il dilitio che il deuterio, quindi niente problemi energetici. E tutto il resto possiamo fabbricarcelo quando occorre, coi replicatori».
   «Mi sta dicendo che, per una volta che possiamo esprimere un desiderio, non abbiamo nulla da chiedere?» fece il Capitano, incredulo.
   «Se non ci sono necessità più urgenti, ce l’ho io un’idea» fece Losira, fregandosi le mani per la soddisfazione.
 
   «Ma come hai fatto?» chiese Rivera l’indomani, contemplando il carico che i Solarani avevano consegnato alla Destiny in segno di gratitudine. La stiva numero 1 era stracolma di lingotti di gold pressed latinum, il metallo più prezioso nella Federazione, l’equivalente moderno dell’oro. Essendo uno dei pochi elementi che valevano più dell’energia che si spendeva per replicarli, non poteva essere prodotto artificialmente, poiché l’operazione sarebbe stata in perdita. Perciò il suo valore sul mercato era enorme, secondo solo a quello del dilitio. Un quintale di latinum era già più di quanto avessero guadagnato in anni di traffici. Con una tonnellata avrebbero potuto comprare un’altra astronave, e ne sarebbe avanzato per tutti. Ma lì davanti a loro c’erano centinaia di tonnellate di lingotti, tutti purissimi; le loro cataste salivano fin quasi al soffitto. E la stiva numero 2 era ugualmente ingombra. Ce n’era tanto da svalutare l’intero mercato federale, se lo avessero venduto tutto in una volta. I Ferengi dell’equipaggio vagavano come in trance, lustrandosi gli occhi con quello splendore dorato e balbettando parole incoerenti. Alcuni lucidavano i lingotti, altri cadevano in silenziosa adorazione. Per loro, quello era il Paradiso... o ad essere esatti, la Tesoreria Divina.
   «Oh, è stato facile» rispose disinvoltamente Losira. «A quanto pare, in questo Universo il latinum è più comune di quanto lo sia il ferro nel nostro. E di conseguenza vale ancor meno. I Solarani lo usano come materiale di costruzione a basso costo. Quando gli ho chiesto un carico di latinum, si sono sorpresi che ci accontentassimo di così poco. Hanno detto che, se mai ripasseremo da qui, saranno felici di riempirci di nuovo le stive».
   «Sia lode grandissima ai Solarani!» mormorò Lum. Come tutti i Ferengi, anche lui vagava in stato confusionale, abbacinato dallo splendore. «Siano essi benedetti!».
   «Congratulazioni, ottimo lavoro» approvò Rivera, più controllato ma comunque d’ottimo umore. «Se mai torneremo a casa, saremo tutti sistemati per la vita».
   «Già, se torneremo!» sbuffò la Risiana. «Non ne posso più di girovagare tra gli Universi. Dimmi la verità, credi che ce la faremo?».
   «Beh, la lista di coordinate quantiche si assottiglia» rispose il Capitano. «Presto potremmo essere a casa».
   «O potremmo scoprire che il nostro Universo non è tra quelli» ricordò Losira.
   «Beh, in quel caso almeno moriremo ricchi!» scherzò l’Umano, accennando alle pile di preziosi lingotti.
   «Speriamo piuttosto di vivere ricchi, nel nostro Universo o in uno che gli somigli» corresse la Risiana. Con questo augurio i due lasciarono la stiva di carico e tornarono in plancia, pronti alla prossima avventura.
 
   «Addio, Ammiraglio Preon. È stato un onore e un piacere collaborare con voi» disse il Capitano nel momento in cui la Destiny lasciò l’orbita di Solara.
   «L’onore è stato nostro, Capitan Proton. Lei e i suoi ufficiali avete salvato il nostro mondo, e chissà quanti altri» rispose l’Ammiraglio. «Se mai tornerete da queste parti, sappiate che qui avete un porto sicuro. La vostra fama corre già da un pianeta all’altro: presto molti popoli conosceranno le gesta di Capitan Proton e del suo equipaggio!».
   «Arrivederci, allora. Destiny, chiudo» disse Rivera.
   Per qualche secondo vi fu silenzio in plancia, poi Losira non poté trattenersi. «Le gesta di Capitan Proton, eh?! Suppongo che questa gente non saprà mai il tuo vero nome. Come non saprà molte altre cose!».
   «Sarebbe inopportuno spiegargliele ora» confermò il Capitano, con l’espressione di un angioletto.
   «Quindi, se mai torneremo qui, dovremo continuare a chiamarti Proton e a recitare la pantomima».
   «Mi sa proprio di sì».
   «Bah! Fortuna che stavolta abbiamo avuto il tornaconto. Tutto quel latinum... se solo riusciamo a tornare a casa, col cavolo che ci rivedono in questo cosmo strampalato!» commentò la Risiana.
   La Destiny si allontanò sempre più da Solara, puntando verso lo spazio aperto. All’ordine del Capitano, gli ingegneri avviarono la sequenza per aprire una nuova breccia interdimensionale. Il deflettore lanciò l’impulso gravitonico, squarciando il velo tra le realtà. Invece di ripassare per il Vuoto, l’universo senza stelle in cui solitamente si rifugiavano, stavolta gli avventurieri puntarono direttamente verso le prossime coordinate quantiche. Aperta la breccia, inviarono come al solito una sonda con campioni biologici, per accertarsi che il nuovo cosmo non fosse nocivo alla vita. Verificato che non c’erano pericoli, passarono con tutta l’astronave. Allora la Pietra del Fuoco – che Losira teneva ancora con sé – svanì in un lampo, a conferma che tutte le cose uscite dal programma di Capitan Proton non potevano esistere fuori dallo Spazio Fotonico.
   «Peccato, avrei voluto tenerla come souvenir» commentò la Risiana. Tuttavia non stette a pensarci più di tanto. Il nuovo Universo in cui si trovavano reclamava tutta la sua attenzione.
   Adesso che erano dall’altra parte, gli avventurieri si trovarono con la nave immersa in una densa zuppa gassosa. Gas incandescenti dai colori caldi vorticavano in tutte le direzioni. «Analisi sensoriale. Siamo incappati in una nebulosa, giusto?» chiese il Capitano.
   «Se è così, dev’essere enorme» rispose Talyn, tornato alla postazione sensori e comunicazioni. «Si estende per decine di anni luce in tutte le direzioni. I sensori non riescono a individuare la fine».
   «Uhm, non ci sono molte nebulose così grandi nel Quadrante Alfa» ragionò Rivera. «Potremmo essere ancora nella Nebulosa del Toro, come quando siamo partiti. O forse nella Nebulosa Mutara, che non è troppo lontana».
   «Ho seri dubbi» disse l’El-Auriano. «Questa nebulosa è troppo densa e calda per essere quella del Toro... e probabilmente anche per essere la Mutara. Tra l’altro rilevo che è composta solo da elementi leggeri, idrogeno ed elio. Le loro proporzioni...». Il giovane si accigliò, proseguendo le analisi.
   «Sì? Cos’hanno le loro proporzioni?» s’interessò il Capitano.
   «Sono le stesse che si ritiene ci fossero nel nostro Universo subito dopo il Big Bang» spiegò Talyn. «La mia ipotesi è che siamo finiti in un cosmo molto giovane – tre, quattrocentomila anni al massimo – quindi ancora caldo e denso. Un cosmo in cui devono ancora accendersi le prime stelle».
   «Affascinante» commentò Rivera, cercando di mascherare la delusione per l’ennesimo buco nell’acqua. «Raccoglieremo dati per qualche giorno, prima di passare al prossimo» stabilì.
   Erano passati pochi minuti quando si udì la voce di Irvik, stranamente agitata. «Stiva 1 a plancia, abbiamo un problema» disse il Voth.
   «Qui plancia, che genere di problema?» chiese il Capitano, esasperato. Possibile che la sua vita fosse una continua successione di crisi? Che non riuscisse ad avere un attimo di calma, prima che i nuovi universi gli giocassero qualche tiro mancino?
   «Oh, nulla di pericoloso per la nave e l’equipaggio, credo» rispose l’Ingegnere Capo. «C’è solo un piccolo contrattempo: tutto il latinum è scomparso».
 
   «E questo come lo spiega, Irvik?» chiese Rivera, osservando la stiva mezza svuotata. Tutto ciò che conteneva in precedenza era ancora lì, dai container coi pezzi di ricambio ai fusti di deuterio. Solo il latinum che avevano ricevuto dai Solarani si era volatilizzato, fino all’ultimo lingotto. Tutto il latinum, solo il latinum. I Ferengi piangevano come bambini, o vagavano qua e là, troppo intontiti per spiccicare parola. Il Capitano stesso non si capacitava dell’accaduto. Lui stesso aveva visto coi suoi occhi la stiva ricolma di lingotti dorati, poche ore prima. I suoi ufficiali, che lo avevano seguito, erano increduli quanto lui. Soprattutto Losira, che su quel tesoro ci faceva affidamento e ora si sentiva derubata.
   «Beh, posso solo formulare un’ipotesi, per quanto azzardata» disse prudentemente l’Ingegnere Capo.
   «L’ascolto!» fece il Capitano con impazienza.
   «Questo latinum veniva dallo Spazio Fotonico e quindi la sua struttura atomica era composta da fotoni, anziché da quark ed elettroni come la nostra» spiegò il Voth.
   «Sì, e quindi?» incalzò Rivera, poco incline ad ascoltare spiegazioni prolisse.
   «Beh, evidentemente non sono solo le creazioni del programma di Capitan Proton a destabilizzarsi, quando lasciano lo Spazio Fotonico. Quanto accaduto dimostra che tutta la materia originaria di quello spazio si converte in fotoni, non appena lo abbandona. Perbacco, che fenomeno interessante! Penso che scriverò un articolo al riguardo» commentò Irvik. L’Ingegnere Capo, infatti, aveva l’abitudine di annotarsi ogni scoperta curiosa, nella speranza di poterle pubblicare una volta tornati.
   Il Capitano rimase immobile come una statua. «Mi sta dicendo che quelle tonnellate di latinum, che ci avrebbero smodatamente arricchiti, sono svanite in un lampo?» mormorò.
   «Eh sì, purtroppo» confermò il Voth. «Non se la prenda, Capitano. Non c’era alcun modo di portarcele dietro. Nessun campo di contenimento le avrebbe protette, e comunque non avremmo potuto smerciarle. Piuttosto ringrazi che la detonazione non sia stata più violenta».
   «Ah, devo pure essere contento!».
   «Beh, sa come si dice... meglio ridere che piangere...» fece Irvik, imbarazzato per non aver previsto il fenomeno.
   A queste parole Losira gli diede le spalle e lasciò la stiva, borbottando imprecazioni. Nessuno si sentì di fermarla. Erano tutti troppo giù di corda per quella fortuna che, ancora una volta, gli sfuggiva di mano.
   «Ma sì, meglio riderci sopra!» sospirò Rivera, per non dare di matto anche lui. «Tonnellate di latinum svanite da un momento all’altro... come l’oro dei lepricani. Sì, sarà divertente da raccontare; certo più di quanto lo è stato viverlo».
   «Signore, chi sono i lepricani?» s’incuriosì Naskeel, che aveva seguito il Capitano nell’ispezione della stiva.
   «Eh? Oh, sono i folletti irlandesi» spiegò Rivera, sovrappensiero. «Piccoli omini anziani, con la barbetta a punta, sempre vestiti di verde. Secondo la tradizione, amano tirare brutti scherzi. In particolare si dice che possiedano molto oro, o una sostanza simile, e che lo facciano trovare agli Umani, solo per ridere a crepapelle quando l’oro fatato scompare di lì a poco».
   Il Tholiano ruminò queste parole. «Ecco un’altra specie senziente nativa della Terra di cui non sapevo nulla. È molto strano; dovrò fare una ricerca approfondita sull’argomento» si promise. «Ciò che più mi sfugge è l’espressione “oro fatato”. Che cosa significa?».
   A queste parole il Capitano scoppiò a ridere. «Non significa niente, non esiste l’oro fatato! Come non sono mai esistiti i lepricani. Sono solo storie, leggende, folklore! Insomma, sono personaggi di fantasia!».
   Stavolta Naskeel rifletté ancora più a lungo. «Non riesco a capire perché voi Umani abbiate sempre il bisogno d’inventare creature inesistenti e ricamarci sopra delle storie» commentò infine.
   «Per sentirci meno soli, suppongo» rispose Rivera. «Fortunatamente abbiamo scoperto che l’Universo – anzi, il Multiverso – è più strano, ricco e affascinante di quanto avessimo immaginato. Da quando viaggiamo tra le stelle, non siamo più soli» commentò, osservando con affetto i suoi ufficiali.
   «Però giocate ancora sui ponti ologrammi» insisté il Tholiano.
   «Di tanto in tanto» ammise l’Umano. «Solo quando ci sentiamo annoiati». 
 
   
 
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