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Autore: AlessandraCasciello    04/02/2023    0 recensioni
“Posso andare da sola”, gli dissi, sistemandomi meglio la borsetta.
“Piantala. Ti riporto io”
“Non c’è bisogno, davvero” come al solito, non mi diede ascolto, incamminandosi a passo svelto verso la sua Audi.
“Un giorno mi spiegherai anche perché vai così veloce, diamine!” mi lamentai, stringendo forte la cintura vicino al mio petto.
“Oh cara, non so se vorrai davvero saperlo”.
Genere: Mistero, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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La mattina andò come mi aveva promesso. Alle sei mi alzai da sola, sentendolo uscire fuori dalla sua camera. Lo beccai di spalle, mentre beveva un caffè veloce in cucina a torso nudo. Guardai ogni singolo muscolo della sua schiena contrarsi nel gesto di portare alla bocca la tazzina. I jeans, a vita bassa, segnavano il suo bacino. Mi schiarii la voce per farmi sentire, ma non sembrai spaventarlo più di tanto. Era felice, più che altro, di non dover essere lui a svegliarmi. Non mi offrì nemmeno il caffè.
“Hai tutto?” mi chiese. Annuii, prendendo la mia borsetta. Mi chiese un attimo per rinfrescarsi, mettersi una maglietta e schizzare fuori casa.
Il tragitto in macchina fu molto veloce, ma ormai avevo capito che si trattava di una sua caratteristica. Chiusi di nuovo gli occhi, cercando di non vomitare.
Arrivammo davanti casa mia in meno di cinque minuti.
“Grazie ancora”, gli dissi, prima di uscire dalla macchina. Lui accennò un sorriso, più per educazione che per altro. Il tempo di chiudere la portiera, e schizzò via. Sospirai, tirando fuori le chiavi di casa ed entrando silenziosamente, senza svegliare i miei.
Di soppiatto, entrai in camera mia, togliendomi quel vestito scomodissimo ed infilandomi il mio pigiama.
Ora potevo riposare, al sicuro nella mia camera, con i miei genitori nella loro che dormivano beati, non immaginando le mie ultime ore passate. Presi il telefono, trovando un messaggio di Serena.
Comunque, sono andata dalla polizia a denunciare, ma li avevano già presi. Penso che il proprietario del locale abbia fatto il suo dovere. Ora dormi.
Scrollai ancora tra i contatti, arrivando al suo numero. Mi morsi il labbro, indecisa su cosa fare. Forse ero troppo vulnerabile, troppo emotiva in quel momento per scrivergli. Me ne sarei pentita il giorno dopo, mangiandomi le mani per l’errore commesso.
Ma davvero abbiamo così paura di essere deboli, fragili, frammentati? Davvero ci dobbiamo vergognare ad aver bisogno di qualcuno?
Scrollai le spalle, digitando:
Ho avuto una serata orribile. Ti ho pensato.
Aspettai qualche minuto per una risposta – qualsiasi risposta – ma niente. Mi asciugai l’ennesima lacrima, girandomi dall’altra parte.
Ero sempre io quella debole, tra noi due.
I giorni seguenti continuarono come se nulla fosse successo, con Serena che si appostava sotto casa mia per andare al mare, e Brando e Ciccio che insistevano per consumare l’ennesimo aperitivo. Ero riuscita a dimenticarmi quel messaggio senza risposta, di cui non avevo parlato a Serena per non ricevere l’ennesimo rimprovero, e il mio viso aveva visto un po’ di colore dato dal sole.
Avevo messo a posto i miei pensieri, e forse anche i miei ricordi. Riuscivo a divertirmi, o almeno a svagarmi.
San Benedetto del Tronto continuava a correre veloce, ad essere chiassosa e colorata, e lo sarebbe stata almeno fino a Ferragosto.
Dal canto mio, speravo di rubare quanti bei momenti possibili, per prepararmi all’inizio dell’università – ma alla fine, avrei scelto lettere o legge?
Allontanai il pensiero intrusivo a cui non avrei saputo in quel momento dare alcuna risposta, concentrandomi sul presente che stavo vivendo sotto l’ombrellone con i miei amici, ancora imperlati dal sale del mare e dalla sabbia.
“Eih, Olly, stasera usciarmo?” Annuii, stendendomi sul lettino.
“Oh, ho sentito che c’è una serata pazzesca alla discoteca al centro! Andiamo?” propose Serena. Tutti si girarono verso di me, cercando la mia approvazione. Visti i precedenti, la loro priorità era sempre come mi sentissi a riguardo. Sorrisi dolcemente, annuendo.
“Per me va bene, ragazzi.”
“Non ci allontaneremo da voi nemmeno un secondo, ragazze”, disse solenne Andrea, come se fosse il giuramento di Ippocrate.
Per alleggerire la tensione, andammo a prenderci un gelato, scattandoci qualche fotografia che avremmo appeso sul muro delle nostre camere a settembre, che avremmo guardato in modo malinconico.
“Olly”, mi richiamò Serena, poggiando la mano sul mio braccio.
“Come stai?” le sorrisi, posando la mia testa sulla sua spalla.
“Bene Sere, te?” lei sorrise, avvicinandosi al mio orecchio per sussurrarmi qualche segreto.
“Ti devo raccontare...”
“Di cosa?” sospirò,
“Io e Brando” sorrisi sorniona. Avevo già capito. Le strinsi la mano, emozionata. I suoi occhi erano di un azzurro acceso, come tutte le volte in cui mi diceva qualcosa di emozionante, o che lei riteneva di vitale importanza.
Mi ricordai di quando anche io avevo quello sguardo, mentre lo guardavo le prime volte, ma anche le ultime.
Gli occhi mi si appannarono per qualche secondo, quindi feci finta di scostarmi i capelli dal viso.
“L’unica cosa è che viviamo così lontani” si lamentò Serena, “Lui a settembre tornerà a Milano...e io..”
“Tu potresti sempre raggiugerlo per gli studi” sbuffò, alzando gli occhi al cielo. 
“Se mi fate pensare un’altra volta all’università, vomito”. Ridacchiai, lasciandola perdere.
“Hai paura di crescere?”
“Ho paura del tempo che passa, Olly, senza che io possa controllarlo”.
“Possiamo prevenirlo”
Serena fece spallucce, “Che differenza fa”.
Aveva ragione. Non faceva alcuna differenza provare a controllare il futuro, perché semplicemente no ce l’avremmo fatta. Ci saremmo trovate agitate con i nostri problemi senza trovarne una soluzione, se non la più banale: viverli.
Sospirai, alzandomi dal tavolino del bar dove avevamo consumato il nostro gelato. Mi sistemai i pantaloncini in vita, battendo le mani.
“Forza, ragazzi, a casa! Ci vediamo stasera belli e profumati”
“Pronti a conquistare?” Serena fulminò con lo sguardo Brando, facendolo ridere. La avvicinò a sé, schioccandole un bacio rumoroso sulle labbra.
“Mamma mia, che schifo!” si lamentò Andrea. I due gli fecero una linguaccia, prendendolo in giro.
Inforcai la mia bicicletta, dirigendomi in pochi minuti verso casa.
Una volta arrivata, salutai velocemente i miei, ficcandomi direttamente in doccia. Rimasi qualche minuto con i capelli zuppi e l’asciugamano intorno al corpo, godendomi quegli attimi di fresco che mi aveva dato la doccia. Aprii l’armadio, rovistando come al solito tra le mie robe. Quella sera, optai per un classico top viola con la gonna bianca, e delle scarpe col tacco. Dopo essermi truccata velocemente, presi la borsetta e corsi a casa di Serena per cenare, visto che i suoi stavano da amici.
Quando mi aprii la porta, sul mio volto aleggiò un enorme sorriso: era splendida, con il suo tubino nero e le scarpe rosse.
“Sei bellissima, Sere”
“Me lo dici sempre e ormai non ci credo più. Dai, entra”, mi fece largo, indicandoli il posto alla tavola, perfettamente apparecchiata.
Mi erano mancati quei momenti così con lei, come quando eravamo bambine e ci sporcavamo la faccia con un panino più grande della nostra faccia.
“L’hai più risentito?” la sua domanda mi gelò il sangue.
“No”, mentii. Lei annuii.
“Lo sai che ti ha fatto male, vero?”
“Aveva il diritto di lasciarmi”
“Non aveva il diritto di andare a dire in giro che sei una troia, però” sibilò. Sospirai, chiudendo così il discorso.
 
Il locale era gremito di persone, tanto da farmi salire l’ansia. Sentii la mano di Serena stringere forte la mia, cosa che mi rassicurò un pochino. Cercai di rilassarmi e di divertirmi, ballando a ritmo di musica. Gli occhi dei miei amici su di me mi diedero il via libera per essere me stessa, e per sentirmi al sicuro.
Sentivo la pelle imperlarsi di sudore, e gli abiti appiccicarmisi addosso. La musica rimbombava nelle orecchie, e sentivo il ritmo della musica fino allo stomaco. Ero libera, felice e spensierata.
“Andiamo a prenderci un drink”, mi urlò Serena nell’orecchio, trascinandomi verso il bancone, mettendoci in fila.
“Volete da bere, ragazze?” un ragazzo si avvicinò con un sorriso sornione, porgendomi un bicchiere colmo di quello che avrebbe dovuto essere Gin Lemon. Serena si illuminò, colpendomi con un gomito, “Tutto gratis!”. Osservai il ragazzo, cercando di studiarlo meglio, ma le luci psichedeliche non aiutavano. Sembrava moro, sicuramente alto. Feci per aprire bocca, ma venni interrotta da una voce alle mie spalle.
“Loro non vogliono niente, amico.” Mi voltai di scatto. Il cuore fece un tonfo sordo alla vista di Carlo.
“Non ho sentito dirlo da loro, però”, obiettò il ragazzo.
“Ho detto che non vogliono niente. Vattene via”. Sibilò Carlo, avvicinandosi al volto del ragazzo a pugni stretti. Di impulso lo afferrai per la maglia, come a volerlo fermare. Il ragazzo indietreggiò spaventato, andandosene via con il suo drink.
“Ma dico, sei impazzito?” urlai, costringendolo a voltarsi. Mi guardo dalla testa ai piedi, sovrastandomi con la sua altezza.
“Non te lo hanno mai insegnato che non si accetta da bere dagli sconosciuti?” mi ammonì.
“Sappiamo badare a noi stesse, comunque” precisò Serena. Carlo non le dedicò nemmeno uno sguardo, non dandole particolare importanza. Io rimasi impietrita a guardarlo, soffermandomi su come i suoi occhi cambiassero colore con le luci della discoteca. Indossava una maglietta bianca, e dei jeans chiari. Mi fissava, quasi arrabbiato, o comunque scoraggiato.
“Perché mi difendi sempre?” ribattei,
“Non difendo te. Difendo una ragazza in difficoltà, ma capiti sempre tu. Penso che tu debba stare più attenta, Olivia”. il mio nome sulle sue labbra risuonava come una strofa di una canzone lenta. Una ballad, per esempio. Il fatto che non gli interessasse direttamente di me, in qualche misura, mi dispiacque. Potevo essere qualsiasi ragazza della città, a lui non sarebbe interessato.
“Beh, allora tolgo il disturbo. Grazie ancora, eroe”, scandii le ultime parole avvicinandomi al suo viso. Mi voltai di scatto, prima di essere afferrata per il polso dalla sua mano.
“Dove vai”
“A ballare con i miei amici, Carlo. Te va dai tuoi” scioccò la lingua sul palato, girandosi intorno. Serrò la mascella, incrociando le braccia al petto.
“Hai finito?”
“Io sì, te?” Non mi rispose, chiedendo al barista due Gin Lemon. Lo fissai mentre poggiava le braccia sul bancone. Fissai il tatuaggio di una dea bendata sul bicipite, e mi domandai cosa significasse.
Parlava poco, Carlo, e quando lo faceva era sempre diretto. Mi confondeva: non capivo cosa volesse da me, ma nemmeno chi fosse lui. Mi intrigava, e volevo chiedergli cosa avesse fatto nelle settimane in cui non ci eravamo visti.
Quando arrivarono i drink, avvicinò il suo bicchiere al mio, mimando un piccolo brindisi. Tracannò metà del drink molto velocemente, prima di sorridermi in modo disteso.
“Non ho tanti amici in zona, Olivia”
“Non sei di qua?”
“Non centra nulla” mi corresse, buttando via la cannuccia dal suo bicchiere.
“E quelli lì?” indicai dei ragazzi grandi, sicuramente più di me ma anche di lui, con dei tatuaggi che li coprivano fino al collo. Lo guardavano interessati, e non mi ci volle molto a collegarli insieme.
“Non sono bei tipi. Non te li consiglio”. Abbozzai un sorriso, prendendo un altro sorso del mio drink.
Carlo quella sera era decisamente magnetico, con il suo scollo a V e la collanina metallica che gli ricadeva tra i pettorali. Aveva l’espressione di chi sapeva perfettamente di avere gli occhi puntati addosso, ma non sembrava che questo lo mettesse particolarmente a disagio. Continuava a toccarsi i ricci, passandoci le dita adornate da innumerevoli anelli.
Tuttavia, non aveva uno sguardo rilassato. Era sempre, incredibilmente, contratto.
“Eih”, si avvicinò una ragazza, squadrando Carlo dalla testa ai piedi. Strinsi ancora di più il bicchiere tra le mani.
“Vuoi ballare?” Lui scosse la testa, prendendomi per mano e tirandomi via, fuori dal locale. Nella fretta, cercai con lo sguardo i miei amici, indicando Carlo.
“Dove andiamo?” gli chiesi, una volta usciti fuori dalla discoteca. Si girò verso di me con le mani nelle tasche dei suoi jeans.
“A fare un giro. Ti va?” scrollai le spalle.
“Non mi sembri un tipo da fare un giro”. Ridacchiò, prendendo il mio passo.
“Ancora non mi conosci, Olivia”. mi morsi il labbro, guardandomi i piedi. Voleva davvero conoscermi? O era soltanto il caso a farci incontrare in situazioni ambigue?
La nostra passeggiata si protrasse verso il Molo della città che, nonostante l’orario, continuava ad essere illuminato, mostrando i colori dei vari murales che decoravano le scogliere. Il rumore delle onde del mare cullava la mente come una ninna nanna, placando le mie paturnie e le mie agitazioni. Faceva fresco, e d’istinto incrociai le braccia al petto.
“Hai freddo? Vuoi che ci spostiamo?” scossi la testa, mentre prendevo posto su uno scoglio, aspettando che Carlo si sedesse vicino a me.
Rimanemmo qualche minuto in silenzio, con i nasi all’insù a guardare le stelle. Nonostante avrei voluto concentrarmi per trovare qualche stella cadente, o almeno identificare qualcuna delle costellazioni che mi aveva insegnato mio padre da piccola, non riuscivo a non pensare al ragazzo steso vicino a me, a qualche – scarso – centimetro di distanza. Mi concentravo sul suo respiro regolare, sullo sciocco della sua lingua quando doveva deglutire, su qualche suo sporadico sbadiglio.
Lo conoscevo a malapena, ma non riuscivo ad avere paura di lui. C’era qualcosa, in quel ragazzo, che mi incuriosiva.
Da dove veniva? Non lo avevo mai visto in città.
Perché mi aveva portata a casa sua, quella sera? E perché sembrava frustrato dall’avermi dato una mano?
Perché mi piombava alle spalle, cercando in qualche modo – anche marginale – di proteggermi?
Avrei voluto porgli innumerevoli domande, ma le parole non riuscivano ed uscire dalla bocca.
“Vengo qui l’estate da quando sono piccola ma...non ti ho mai visto” riuscii a dire, continuando a portare lo sguardo al mare di fronte a me.
“Neanche io ti ho mai vista”. Abbozzai un sorriso, scrollando le spalle.
“Plausibile”
“Perché?” sospirai, voltandomi verso di lui.
“Perché io sono, semplicemente e terribilmente, invisibile”. Carlo aggrottò le sopracciglia, avvicinandosi a me. I nostri stinchi si toccavano di striscio, provocandomi una leggera scarica elettrica lungo la spina dorsale.
“Non direi. Io ti ho vista”. Mi morsi il labbro, abbassando lo sguardo. In quel preciso momento, avrei voluto che la mia folta chioma castana potesse chiudersi davanti al mio viso come un sipario, nascondendo il rossore delle mie guance. Lo faceva di proposito? O non aveva idea dell’effetto che in quel momento aveva su di me.
Scossi la testa, cercando di riprendermi.
Non avevo tempo per ricascarci. Non lo avrei mai più permesso.
Mi alzai di scatto, pulendomi le ginocchia con le mani.
“Dove vai?” mi chiese Carlo interrogativo alzando lo sguardo. I suoi occhi sulle mie gambe nude mi fecero imbarazzare.
“Devo tornare, si è fatto tardi. Mia madre e i miei amici saranno preoccupati”
“Ti riporto io”, disse, alzandosi di scatto.
“Non c’è bisogno”
“Ma quante storie fai? Incredibile”. Sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
Nonostante la noia che il mio comportamento sembrava recargli, io non potevo fare altrimenti che trovarlo, in qualche modo, tenero. La luce della luna gli illuminava metà volto, lasciandone l’altra all’ombra. Un po’ come lo vedevo io: non troppo svelato.
“Non riesco a capirti” gli dissi, alzando le braccia all’altezza delle spalle. Vidi i suoi occhi correre sulle mie gambe che piano piano venivano svelate dalla gonna.
“Capire cosa”
“Perché stai facendo così con me”, lui non rispose, sfilando le chiavi della macchina dalla tasca posteriore dei suoi jeans. Mi superò, dirigendosi verso il parcheggio più vicino e io, come se me lo avesse ordinato, lo seguii, guardando i suoi muscoli della schiena contrarsi.
Affrettai il passo, raggiungendolo.
“Non c’è bisogno che mi porti a casa, davvero”
“Sali in macchina, Olivia” mi ordinò, aprendomi la portiera della sua Audi nera.
Come al solito, il viaggio in macchina fu silenzioso e veloce. In cinque minuti, arrivammo davanti casa mia. Mi schiarii la voce, torturandomi le estremità della gonna.
“Grazie. Di nuovo.”
“Prego. Di nuovo”. Presi un respiro profondo, stringendo la borsa sotto l’ascella.
“Ti va di vederci, uno di questi giorni?” Carlo ridacchiò, giocando con la pelle del volante di fronte a lui.
“Non sarò in città questi giorni, Olivia”.
“E dove andrai?”
“Verona”. Non domandai altro, limitandomi ad annuire. Sentii Carlo sbuffare, prendendomi il telefono dalle mani in modo abbastanza brusco. Lo vidi digitare un numero, salvandolo, per poi ridarmi il telefono con un sorriso accennato, mostrando la sua fossetta sul lato destro.
“Il mio numero.”
“Dovrei darti il mio, immagino”
“Non serve” sibilò, mentre uscii dalla macchina. Rimasi accigliata, mentre prendevo le chiavi dalla mia borsa. Sentivo il suo sguardo alle mie spalle, aspettando che entrassi definitivamente a casa.
Che vuol dire che non serviva? E perché mi aveva lasciato il suo numero, allora?
E cosa doveva fare, a Verona?
 
  
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