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Autore: benedetta_02    14/02/2023    0 recensioni
Giustizia: /giu•stì•zia/ : La virtù rappresentata dalla volontà di riconoscere e rispettare il diritto di ognuno mediante l'attribuzione di quanto gli è dovuto secondo la ragione e la legge.
I casi dell'avvocata Giuliani, eccelsa mente giuridica e donna desiderosa di amore.
Genere: Drammatico, Noir, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO 1

“Pronto?”

“Ti ho svegliata Bianca?”

“No, Giacomo dimmi.” Non era vero. Avevo ancora un occhio socchiuso e mi stavo trattenendo dal non mandarlo a quel paese. Ma d’altronde ogni volta che giacomo chiama e come se io fossi sempre obbligata a rispondere.

“Quanto ci metti a venire in ufficio? È successo un casino. Bello grande.”

“Specifica grande.” Dissi al mio collega mentre infilavo la manica della felpa lungo il braccio nudo.

“Grande nel senso che vogliono assolvere Gaetano Cerlino.”

Mi alzai dal letto di scatto come se una scossa mi avesse elettrizzata ogni centimetro del corpo.

“Arrivo.” È stata l’unica parola che la mia mente riuscì a formulare in quel momento. Ma Giacomo cosa pretendeva? Che io arrivassi allo studio e improvvisamente il processo avrebbe preso un’altra piega?

Nonostante le mie perplessità in merito alla risoluzione del caso, ovviamente andai dritta in cucina con l’intenzione di prepararmi un caffè, ma come tutte le mattine in cui le cose iniziano con il piede sbagliato, quella mattina il caffè aveva deciso di assentarsi dalla mia dispensa. Probabilmente era in sciopero per tutto lo sfruttamento e gli abusi che gli avevo inflitto. Sono dipendente dalla caffeina, ma questa è una caratteristica che mi accompagna fin dall’adolescenza. Ricordo che mia madre diceva sempre “Bianca con il caffè è una guerra persa, a prendere il sopravvento sarà sempre lui”. Mia madre è una persona maledettamente melodrammatica, ogni volta che io prendevo una decisione nella mia vita, anche solo prendere l’abitudine di bere il caffè, per lei ci sarebbe stato sempre un risvolto negativo. Questa sua vena tragica si era palesata anche quando al mio quinto anno di liceo, un bel giorno tornai a casa, ed esclamai “mamma io farò giurisprudenza!”. Ricordo ancora che da brava attrice di film drammatici, iniziò a dimenarsi e a piangere come se le avessi detto che avrei intrapreso la strada della prostituzione.

Passato lo shock iniziale per la mancanza di caffè, penso che la scelta più saggia sarà quella di prendere il caffè al bar del tribunale perché ero convinta che quella mattinata la avrei passata lì. Se non tutta la giornata. Quindi per non perdere altro tempo, vado dritta in bagno e quasi come se fosse un rito inizio a guardarmi allo specchio. Mi guardavo e come ogni mattina notavo che stavo invecchiando, prendo le ciocche dei ciuffi che mi cadevano davanti il viso e le passo dietro le orecchie, continuando a scrutarmi quasi come faccio con i miei clienti quando vengono a chiedermi una consulenza. So capire quando una persona è vittima o carnefice dalla prima parola che pronuncia non appena mette piede nello studio. Dal modo in cui camminano, dal modo in cui mi stringono la mano per presentarsi, dal modo in cui si guardano intorno nel mio ufficio per distogliere l’attenzione da quella situazione imbarazzante e concentrarsi sulla mia laurea appesa alle mie spalle. Spesso mentre li osservo, immagino che pensino “ma questa sarà brava?”. Onestamente penso sia una domanda più che legittima. Fare l’avvocato è molto più che accettare i casi ed incassare i soldi. Fare l’avvocato è prendersi a carico una situazione, a volte anche la vita, di una persona e fare una promessa cioè che a prescindere da come andrà, tu sarai quella persona che proteggerà la sua libertà e i suoi diritti il più a lungo possibile.

Finita la mia personale psicanalisi di routine passo a lavarmi i denti e successivamente mi infilo sotto l’acqua bollente che scende dal getto della doccia e strofino via ogni incertezza che mi sono permessa di attaccarmi sulla pelle fino a qualche minuto prima. A volte vorrei che si potesse fare lo stesso con i pensieri. Quando li senti troppo sporchi, li passi sotto l’acqua corrente, strofini forte e scompaiono. La maggior parte delle volte possono sparire totalmente, altre volte rimangono seppur deboli, a ricordarti che ci sono e altre volte non hanno nessuna intenzione di andar via e restano spiaccicati sul telaio della nostra mente. E proprio come fa una macchia con un bel vestito, resta lì e poi la decisione spetta a te: o butti quel vestito e ne acquisti uno nuovo con il rimpianto che nessun vestito sarà bello come quello e che quella macchia te l’ha portato via per sempre oppure lo lasci nell’armadio. Ma lasciandolo nell’armadio si rischia il dolore più profondo di tutti, vale a dire che potresti dimenticartene, e seppure tu possa essere convinto del fatto che non ci sia più, proprio quando quel vestito ti serve e senti l’esigenza di indossarlo, ecco che riaffiora quella macchia, proprio lì dove la avevi lasciata.

Esco dalla doccia molto velocemente perché le continue chiamate di Giacomo mi notificano di essere in un netto ritardo. Controllando l’orario sul mio cellulare mi rendo conto che effettivamente ancora una mattina avevo perso tempo nelle mie congetture mentali. Mi infilo la prima giacca che trovo nell’armadio, prendo i pantaloni e il dolcevita che avevo lasciato sulla poltrona del salotto il giorno prima e mi infilo i miei stivaletti di pelle. Afferro cappotto e borsa e mi chiudo alle spalle le porte del mio appartamento. Scendo di fretta nel cortile del mio palazzo e saluto la signora Livia che abita al primo piano. Mi tratta con sufficienza dal primo giorno in cui ho messo piede in quel palazzo ma sono sicura che in fondo al suo cuore lei mi voglia un gran bene. Entro nella mia auto e inizio il travaglio più grande. Arrivare a Milano.

Quando sono arrivata nella metropoli dei sogni all’età di 20 anni mi aspettavo grandi cose dalla mia vita. Ma essendo una ragazza cresciuta a Matera era molto prevedibile che mi sarei stancata subito della Milano da bere. Infatti così è stato. Ormai vivo da quasi 6 o 7 anni a Locate di Triulzi, un comune vicinissimo alla città. è un paesino tranquillo, che spesso mi ricorda casa e che soprattutto non è incasinato ma è semplice e ordinario. Un po’ come lo sono io. Ad interromper il mio viaggio nei ricordi è l’ennesima telefonata di Giacomo.

“Avvocato Raspadori, ma lo sa che lo stress fa venire le rughe?” Dico per farlo ridere e fargli dimenticare il mio ritardo.

“Bianca, ti devi sbrigare. La situazione sta peggiorando minuto dopo minuto. C’è un casino in ufficio.” Mi dice Giacomo sottovoce con un’aria preoccupata.

“Allora giacomo, non facciamo i cacasotto. Ora ascoltami. Esci da questo cazzo di ufficio e spiegami cosa sta succedendo perché io sono bloccata in tangenziale.” Dico io con voce dura per cercare di riprenderlo prima che gli venga un attacco di panico.

“Bianca siamo nella merda. Vuoi la versione integrale o quella riassuntiva?”

“Mi piacerebbe dirti che sono quasi su via Ripamonti ma ancora sono bel lontana. Quindi voglio sapere tutto.” Mentre dico questa frase collego il cellulare al Bluetooth della macchina consapevole che sarebbe stata una storia lunga.

“Allora, la difesa ha fatto un lavoro sporco ma estremamente perfetto. Ce la stanno mettendo nel culo alla grande Bianca.” Fa un respiro profondo. “Sono emerse nuove prove che scagionerebbero Cerlino dall’accusa di omicidio della compagna.”

“E quali sarebbero queste prove?” Stavo iniziando a sudare freddo ma non potevo farlo capire a Raspadori altrimenti sarebbe crollato in un pianto isterico.

“Bianca porca miseria devi venire qua. Appena arrivi ti dico tutto.”

“ma mi spieghi perché ti agiti?”

“Vuoi sapere perché mi agito? Allora da dove iniziare? Valenti è incazzato nero con tutti e due e vuole la tua testa, nel frattempo è arrivato il procuratore Giannò e il magistrato Scifoni vuole che questo processo si chiuda subito.”

“Cosa chiede la difesa esattamente?”

“Vuole il rinvio in attesa che la scientifica riesamini tutto.”

“Sto arrivando Giacomo. Nel mentre evita di fare pazzie o di farti venire una crisi di nervi.” E chiudo immediatamente il telefono prima che Raspadori potesse controbattere e iniziare una lagna di quelle infinte.

Comincio a guidare come un pilota di formula 1 con la consapevolezza che mi sarei portata più di una multa a casa, ma seppure ritenessi che Giacomo fosse un grande avvocato, ero altrettanto certa che quella situazione da lì a poco lo avrebbe mangiato vivo.

Giacomo Raspadori è un uomo poco più grande di me, mi ricordo che a maggio di quest’anno ha festeggiato il suo trentaquattresimo compleanno e proprio come era solito fare non lo aveva detto a nessuno. Ma in un’era in cui la privacy non esiste, mi è bastato aprire facebook e scoprire che quel giorno caldissimo di fine maggio era il suo compleanno. Giacomo è un ragazzo molto riservato sulla sua vita personale, di lui so veramente poco se non che ha pochi amici e una donna per la quale muore da più di 10 anni. Dice che un giorno riuscirà a conquistarla e che spesso le manda regali in anonimo. Descritto così sembrerebbe l’identikit di un qualsiasi psicopatico stalker che tentiamo di distruggere ai processi, ma in realtà dietro questa corazza, si nasconde una persona molto fragile e desiderosa d’amore. D’altronde non saprei come biasimarlo, penso che tutti in fondo necessitiamo di essere amati. In quanto alla sua professione, lo reputo un eccellente avvocato, una spalla destra sulla quale posso sempre contare sebbene spesso si faccia prendere troppo dal panico e finisca per incasinare tutto. Infatti credo che involontariamente io e Giacomo siamo finiti per lavorare gomito a gomito per completarci, dove inizia l’ipotesi di uno termina la conclusione dell’altro. Sono sicura che senza il suo aiuto e senza il suo appoggio molti dei nostri casi sarebbero rimasti irrisolti.

Finalmente arrivo in via Ripamonti, dov’è ubicato la sede legale per la quale lavoro da più di due anni. A capo di questo studio c’è l’avvocato Pierpaolo Valenti. Dai tempi dell’università, l’avvocato Valenti mi ha presa sotto la sua ala e mi ha protetta, fino a quando ho iniziato a lavorare per lui, infatti la sua protezione è tramutata in un essere eccessivamente pretenzioso. Mi ha sempre descritta come una ragazza e un’avvocata piena di ambizione ma diceva che sapevo sfruttare poco le mie doti, avevo bisogno di metodo, diceva. Per questo mi ha inserita nel suo studio, per insegnarmi il mestiere dell’avvocato esattamente come precedentemente avevano fatto con lui. E poi non mi ha più mollata.

Salgo le scale del palazzo in cui c’è lo studio legale e arrivata al primo piano, mi avvicino velocemente alla porta che trovo aperta. All’interno trovo quasi uno scenario apocalittico. I miei colleghi di civile erano tutti alle loro scrivanie in preda al panico anche per noi del penale. Infatti quando mi vedono varcare la soglia dell’ufficio iniziano a fissarmi come se avessero visto un fantasma. All’improvviso dalla fine del corridoio, vedo la sagoma di Giacomo che non appena mi nota, inizia a camminare velocemente verso di me che nel frattempo ero rimasta piantata al pavimento senza muovermi oltre. Era come se sotto le suole dei miei stivaletti ci fosse della colla ultra resistente che non aveva nessuna intenzione di farmi spostare. Raspadori mi afferra dal braccio, facendomi anche perdere l’equilibrio e per poco non buttandomi a terra. Riprende il suo passo rapido, ma questa volta con me attaccata al suo braccio Potevo sentire il suo respiro affannato e sentivo l’ansia attraversargli ogni molecola del suo corpo. Apre la porta del nostro ufficio e mi butta dentro, chiudendo la porta velocemente e con forza.

“Siamo nella merda, Bianca. Sta volta siamo davvero nella merda.” Continuava a farneticare Giacomo facendo una maratona da un punto all’altro dell’ufficio.

Io nel mentre avevo tolto il cappotto e avevo lasciato la borsa sulla mia sedia. Senza proferire parola, mi metto alla mia postazione e lo guardo continuare quella camminata insistente quasi come se volesse creare una crepa nel pavimento.

“Ti calmi?” Gli dico io intenta ad accendere il computer.

Lui prima si passa una mano fra i capelli, poi si asciuga la fronte da un sudore che nemmeno c’era e poi si appoggia al bordo della mia scrivania mettendosi di fronte.

“E spiegami, avvocato Giuliani, per quale cazzo di motivo dovrei calmarmi?” Mi dice queste parole mentre mi scruta con uno sguardo misto alla più totale rabbia e ad un imminente esaurimento nervoso.

“Raspadori, ancora questi errori!” Rispondo io, mentre controllo l’email arrivate. “Ti ho detto che io sono avvocata, non avvocato.” Riprendo, distogliendo lo sguardo dallo schermo luminoso e spostandolo su Giacomo.

“Bianca, non c’è da scherzare.” Finalmente riprende fiato, si siede sulla sedia dove abitualmente faccio accomodare i clienti e riprende con voce più calma dopo aver deglutito. “Come pensi di risolvere?”

“Beh, intanto partirei dal parlare con Valenti e compagnia. Che dici? Si può fare avvocato?” Gli dico alzandomi e dirigendomi verso la porta.

Giacomo inizialmente guarda per un po’ il pavimento, poi deglutisce ancora. In seguito mi fa cenno di sì con la testa sbattendo le mani sui braccioli della sedia e si alza di scatto mettendosi di fianco a me. Ci guardiamo per un attimo prima di aprire quella porta. Avevamo lo sguardo di due persone che stessero per finire al camposanto, perché seppure io tentassi di rasserenare Raspadori, sapevo contro chi mi stavo mettendo. Conoscevo gli avvocati della difesa, erano delle persone sveglie, non si sarebbero fatte abbattere da due novellini. Ma la verità è che io e Giacomo eravamo, sì, giovani ma molto più furbi di loro se solo avessimo voluto. Dopodiché prendiamo coraggio e afferro la maniglia della porta, che quella mattina mi sembrava che non volesse abbassarsi. Facciamo i pochi metri che ci separano dall’ufficio di valenti quasi strisciando e attendiamo qualche secondo prima di bussare. Poi lo faccio. Busso a quella dannata porta più volte.

“Avanti!” Ecco, Valenti era pronto. E in qualche modo lo eravamo anche noi.

Apriamo la porta dell’ufficio di Valenti molto lentamente quasi come se volessimo che quel confronto con lui e il resto della banda non arrivasse mai. Valenti mi guarda con un’aria preoccupata. Il procuratore Giannò, che era seduto su una sedia di fronte all’avvocato, si gira di scatto e ci guarda per un attimo, per poi tornare a guardare il mitico Pierpaolo Valenti, mangiarsi le pellicine intorno alle cuticole. Era un chiaro segno che qualcosa lo preoccupava e onestamente ero capace di immaginare la causa.

“Entrate.” Ci dice Valenti, smettendo di torturarsi quel pollice e tornando serio.

Io e Giacomo entriamo a passi lenti nell’ufficio del grande capo e il mio collega chiude la porta come se dovessimo avere una conversazione di una setta. Giacomo si siede alla sedia immediatamente di fianco al procuratore, mentre io scelgo di appoggiarmi al muro direttamente di fronte a loro. Volevo tenere ancora lo sguardo su questo simpatico quadretto, e nel frattempo Valenti non smetteva di fissarmi.

“Il magistrato?” Esorto io, tentando di togliere quell’aria imbarazzante.

“è appena andato via, avvocato.” A rispondermi è il procuratore. “E adesso vado anche io.” Si alza in piedi e Valenti fa lo stesso, porgendogli la mano che prontamente Giannò afferra saldamente, gli fa un sorriso e si volta verso di me.

“In quanto a voi. L’avvocato Valenti sa già tutto, vi illustrerà la situazione in modo eccelso. Nel frattempo, state attenti a cosa fate ed evitate di lasciare dichiarazioni poco felici. Consiglio personale.” Ci dice il procuratore, quasi come una minaccia. Successivamente ci fa un cenno con la testa e abbandona lo studio.

Valenti si risiede al suo posto e con la mano mi fa segno di sedermi dove prima era accomodato il procuratore.

“Io non ho dubitato di voi con loro.” Inizia Valenti. “Anche perché, se devo essere onesto, io non vi do nessuna colpa.”

Io e Giacomo ci guardiamo con fare stranito.

“Tuttavia, avete gli occhi puntati addosso. Di tutti. Difesa, giudice, stampa.” Valenti beve un sorso dal suo bicchierone traboccante di acqua. “Io so che non avete inquinato nessuna prova. Piuttosto la polizia deve aver commesso qualche errore. Ma onestamente non me la sento di muovere accuse.”

“E allora come dobbiamo comportarci, avvocato?” Domanda Raspadori con fare preoccupato.

“Voi dovete fare il vostro lavoro come sempre. Sicuramente ci sarà un altro processo e andrete solo voi due. Mi voglio fidare.”

“Ma si può sapere sulla base di cosa vorrebbero rilasciare Cerlino?” Questa volta ad intervenire sono io.

“Il vice questore ha trovato un file nel quale si dice che dalla perizia balistica, l’arma del delitto non è quella trovata sulla scena. O meglio, si tratta della stessa pistola, ma le impronte digitali non combaciano con quelle di Cerlino.”

“E di chi sarebbero?” Continuo io.

“Ancora questo non si sa. Stiamo aspettando i risultati nuovi. Ma noi siamo concordi che è alquanto impossibile date le precedenti segnalazioni.”

“Avvocato, abbiamo l’aggravante della violenza domestica. Ancora si discute su chi possa essere stato?”

“Giuliani, non faccia errori da principianti, fin dal diritto romano ci insegnano che non esiste reato fino a che non ci sono prove attendibili. E ad oggi, non ci sono più prove che sia stato Cerlino a premere il grilletto.”

“Ma perché il magistrato avrebbe dovuto fare gli interessi nostri?” Si domanda Giacomo.

“Perché il magistrato Scifoni è un mio amico di vecchia data e la difesa lo sta accusando di aver favoreggiato la nostra posizione.” Valenti continua a bere da quel bicchiere d’acqua. “Detto ciò, io vi congedo. Ma vi ripeto, state attenti a tutto.”

Io e Raspadori ci alziamo contemporaneamente da quelle scomode sedie e facciamo per incamminarci verso l’uscita salutando l’avvocato.

“Tu no, Giuliani.” Esorta l’avvocato Valenti.

Raspadori guardandomi stranito, apre la porta dell’ufficio desideroso solo di voler uscire da quel posto e mi fa un sorriso, quasi consolatorio, chiudendo la porta.

Nel frattempo io ero rimasta immobile sul mio posto di fronte la porta e potevo percepire ogni movimento dell’avvocato. Sapevo esattamente che avesse nuovamente bevuto da quel bicchiere, che si fosse alzato, che avesse messo le mani nelle tasche dei pantaloni e che si stesse pian piano avvicinando a me.

Mi mise le sue mani sulle spalle e con delicatezza mi voltò verso di lui. Accennò un sorriso e poi posò il capo sulla mia spalla sinistra, facendo scivolare le sue mani lungo i miei fianchi. Poi mi guardò dritto negli occhi e mi stampò un bacio sulle labbra. Io ricambiai. E lo accolsi a me, buttandogli le braccia intorno al collo e lui fece lo stesso stringendomi. Io e Valenti avevamo una relazione da più di un anno.

Inizialmente non volevo accettare di essermi presa una cotta prima per il mio professore e poi per il mio capo. Vent’anni più grande di me per giunta. Ma quando una sera, tra una birra e l’altra, fuori da un bar vicino lo studio, gli diedi un bacio, mi resi conto che anche lui non stesse aspettando altro. Quella sera facemmo l’amore ed ero felice. Felice di aver finalmente realizzato un desiderio che mi portavo dietro da anni. Ma la mia più grande remora non era la differenza d’età o i colleghi che potevano parlarmi dietro. La verità è che Pierpaolo Valenti era sposato e aveva due figlie. Questo, sebbene mi faccia sentire ancor di più in difetto allo stesso tempo non mi fa sentire colpevole. Il nostro lavoro ci insegna a distinguere bene chi è colpevole e chi non lo è. Dunque con il tempo ho imparato a frenare questo senso di colpa e a capire che quella sposata con figli non ero io. Non mi piaceva essere “l’altra” e di conseguenza non ho nemmeno mai permesso a Pierpaolo di farmi trattare così. Ho preteso delicatezza, dolcezza e premura. Ho voluto le cene, i film al cinema e le risate in un pub. Gli ho mostrato le mie condizioni e da bravi avvocati abbiamo contrattato raggiungendo un accordo e arrivando al nostro piccolo angolo di felicità. Io ero nascosta ma allo stesso tempo c’ero e contavo nella sua vita.

“Era tutto quello che mi serviva oggi.” Mi dice Pierpaolo prendendomi fra le mani il viso.

“Anche io.” Gli risposi accennando un sorriso.

“Ti va se stasera ci facciamo un sushi?” Mi propose tornando verso la sua postazione.

“Va bene. Ma da me, non voglio andare in giro.”

“Sinceramente mi va più che bene.” Mi disse ridendo. “Ora può andare avvocato Giuliani.” Facendomi cenno con il capo di avvicinarmi alla porta.

Andando verso la porta non riuscivo a non voltarmi verso di lui e sorridere e prima di afferrare la maniglia, gli dedicai un ultimo sorriso prima di stasera.

Non so se fosse lecito quello che stessi facendo. Ho studiato che la fedeltà matrimoniale è sanzionabile, dunque rappresenta un illecito. Io, che rappresento la giustizia, stavo aiutando un uomo ad infrangerla. Però la dichiarazione di indipendenza americana, che in qualche modo rappresenta anche una fonte del diritto, ci dice che l’individuo deve essere felice. E allora quale norma facciamo prevalere? Quella eticamente corretta o quella che mi fa comodo?

“Bianca, come ci vogliamo muovere?” Mi dice Giacomo appena spalanco la porta dell’ufficio.

“Facciamo così. Tu chiami la famiglia e li avvisi. Io mi vado a fare una chiacchierata con il medico legale.”

“Il medico legale?”

“Si, perché?” Dico io infilandomi il cappotto.

“E Valenti lo sa?”

“Giacomo, Valenti non deve sapere tutto.”

“Bianca, ci hanno raccomandato di non fare cazzate.”

“Io ho mai fatto cazzate?” Domando io a Giacomo mentre prendo la borsa e inizio ad avviarmi verso la porta.

“Bianca!”

“Che c’è, Raspadori?”

“Che vuoi fare?”

Alzo gli occhi al cielo e tolgo la borsa dalla spalla, avvicinandomi alla scrivania del mio estenuante collega. “Io sono sicura che Simona non sia morta solo per il colpo di pistola. Devo essere certa che non ci siano segni di colluttazione o peggio. Di violenza.”

“Ma queste cose non sono uscite dalla prima autopsia.”

“Giacomo ci hanno fottuti in tutti i modi. Vado lì e pretendo che venga rifatta con qualcuno di esterno presente.”

“E se Valenti passa che gli dico?”

“Che sono in archivio a controllare casi simili.”

“Tu mi farai licenziare.”

“Ti voglio bene anche io.” Riprendo la mia borsa e questa volta mi avvicino alla porta per andarmene.

Attraverso il corridoio, scendo le scale ed esco da quel vecchio palazzo. Mi infilo nell’auto dirigendomi verso il deposito di osservazione. Con la speranza che ancora abbiano il cadavere di Simona Elia. Stavo commettendo un’altra delle mie sciocchezze. Mi stavo dirigendo verso un posto in cui non ero mai stata, con la speranza che abbiano un cadavere forse già troppo vecchio per stare lì, senza nessuna istanza e senza nessun permesso. Uno sbaglio e la mia carriera sarebbe finita.

Il caso di Simona Elia potrebbe sembrare il classico omicidio all’italiana. Il marito che uccide la moglie per gelosia o chissà che cosa. Il problema fondante di questo caso è che Simona Elia non era la moglie di tale Gaetano Cerlino, ma inizialmente una sua dipendente e poi sua amata. Il signor Cerlino, uomo di mezza età della Milano bene, possedeva un importante fabbrica tessile nei pressi di Varese e Simona Elia era una ragazza di origini calabresi che era venuta a Milano proprio per cercare lavoro. E inizialmente ci riesce. Simona viene assunta dal signor Cerlino. Il problema principale quando Gaetano inizia a provarci spudoratamente con Simona, che è sempre stata dipinta dalle colleghe come una ragazza ingenua, che ha visto quest’uomo ricco e potente volerla tutta per sé. E Simona come tante donne, è cascata nella sua ragnatela. Simona smette di lavorare e inizia ad essere la donna di Cerlino. I primi sentori di guai si iniziano a far sentire quando Simona veniva palesemente picchiata dal suo compagno, l’uomo che le aveva promesso amore. Ma Simona non denuncia, schiaffo dopo schiaffo, pugno dopo pugno, Simona spera che lui cambi e pensa che basti un regalo a riportarle la dignità che lui pian piano le stava togliendo. Finché non arriva il peggio. Simona viene ritrovata uccisa nella camera da letto nella quale dormiva con Cerlino. Pare che avesse scoperto dei loschi giri del suo amato dietro l’azienda e che avesse confessato tutto a sua sorella. Ma nessuno ha dato il tempo a Simona di parlare con la polizia. Nessuno le ha permesso di salvarsi la vita. Gaetano si è accorto di tutto e la ha brutalmente uccisa, prima che potesse proferire parola. Il problema è che Simona non era la ragazza ingenua e stupida come tutti la dipingevano, Simona prima di confessare tutto a sua sorella, aveva lasciato una nota sul cellulare in cui si appuntava tutte le date in cui Cerlino la picchiava o abusava di lei. Il movente era palese e la pistola rinvenuta nell’ufficio di Cerlino corrisponde con l’arma utilizzata per strappare la vita a Simona. È stata sua sorella a contattarci e ha preteso giustizia. Come potrei sottrarmi davanti all’ennesimo schiaffo che Cerlino ha brutalmente dato a Simona? Come posso accettare che lui abusi di lei anche da morta?

Arrivata davanti l’obitorio, entro spedita evitando di farmi notare. Ci sarà un archivio, penso. Allora inizio a girovagare per le stanze come una ladra e spero di trovare la porta giusta. Finalmente lo trovo. Non devo fare nulla di male. Prendo il fascicolo e lo porto al medico legale. Semplice. Inizio a frugare tra i vari faldoni numerati e sistemati per nome e cognome. Ma non trovo il nome che mi interessa. Continuo a cercare imperterrita, nella speranza che qualcosa salti fuori.

“Ma che stai facendo?”

Alle mie spalle una voce. Non oso girarmi.

“Con te sto parlando. Che ci fai qui? Non ci può stare nessuno, se non il personale.”

All’improvviso una mano mi afferra il braccio, facendo cadere i fogli che avevo tra le mani e con forza mi gira verso di sé. Finalmente vedo il mio interlocutore. È un ragazzo, non molto più giovane di me e indossa un camice. Uno specializzando suppongo.

“Allora, me lo spieghi tu o devo chiamare la guardia?”

Si, ora ti spiego.

 

   
 
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