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Autore: muffin12    18/02/2023    3 recensioni
[Blue Lock]
Nel principio ci fu la sorpresa.
La sorpresa lasciò presto spazio al fastidio, tenendo in caldo il posto all'irritazione che arrivò subito dopo. Piena, invadente, bruciante irritazione che gli inondò le vene e gli fece venire voglia di rompere qualcosa.
Alla fine rimase solo noia, per puro dispetto.
Storia della nuova aggiunta nella famiglia Shidou/Sae e della riluttante accettazione di Sae per quello che, secondo lui, non è un cane.
Ship principale: Sae/Shidou
Ship secondaria: accennata Rin/Isagi
Storia ambientata post Blue Lock
Genere: Commedia, Demenziale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti!
 
Sì, una storia che non ha senso, ma non è che me ne dispiaccia troppo.
 
Metto all’inizio alcuni avvisi molto importanti:
 
  • Amo gli animali. Tutti. Chiedete a chi mi conosce. Ma sono anche la prima che prende in giro chiunque e qualsiasi cosa, quindi non offendetevi se ci sono scritte cose sui Chihuahua che non vi fanno piacere: si tratta di luoghi comuni portati all’esasperazione per ridere ed è Sae a parlare. Se vi offende chiedo scusa, ma chi ve lo dice di continuare nonostante gli avvertimenti?
  • Non prendete questa storia come bibbia per tenere un cane: i cani non si tengono così. Nel modo più assoluto. Rivolgetevi ad esperti del settore ma NON basatevi su Sae e Shidou, loro fanno tutto sbagliato!
     
  • Nessun chihuahua è stato maltrattato durante la stesura di questa storia. Parecchie persone sono state maltrattate dal chihuahua durante la stesura di questa storia.
  • Il titolo viene dalla canzone “Chihuahua” di DJ BoBo
 
Buona lettura! Spero vi divertiate!
 
 
 
 
What can bring you joy? Chihuahua!
 

 
Nel principio ci fu la sorpresa.
 
Immediata, sconvolgente, pura sorpresa, che lo aveva lasciato in un primo tempo stranito e decisamente confuso, tanto da spingerlo ad uscire fuori dalla porta d’entrata ancora aperta per capire se l’appartamento fosse davvero il suo.
 
Ma sì, lo era. Lo confermava la targhetta del campanello con il suo nome in un carattere stampato molto elegante – Bodoni MT, se dava retta a Microsoft Word - e l’aggiunta disordinata a penna di quello che apparteneva a chi, maledizione a lui, aveva scelto come compagno di vita tempo prima.
 
A sua discolpa, allora pensava che le cose fossero molto più sessuali e meno sentimentali. Le reti dei letti sfondati – sì, plurale – e i segni sul suo corpo così evidenti che i suoi compagni di squadra provavano imbarazzo a guardarlo senza maglietta sembrarono confermare quell’idea ma poi, come nelle commedie più stupide e senza senso, ci si mise in mezzo l’amore – ancora roteava gli occhi dal disgusto al solo pensiero.
 
La giocosa minaccia di un trasferimento divenne seriamente reale e adesso si ritrovava, con parecchia sorpresa da parte di chiunque, con due nomi sul campanello e letti rotti che venivano cambiati con molta più frequenza del necessario. Perché doveva esserci un valido motivo per avere quell’idiota in casa e no, non per le sue inesistenti abilità di maneggio dell’asciugatrice.
 
Quello che aveva davanti, però, non giocava decisamente a suo favore.
 
La sorpresa lasciò presto spazio al fastidio. Lo sentiva vagare nelle vene ed infiltrarsi nel polmoni, tenendo in caldo il posto all’irritazione che arrivò subito dopo. Piena, invadente, bruciante irritazione che gli inondò le vene e gli fece venire voglia di rompere qualcosa.
 
Fugace, però.
 
Alla fine rimase solo noia, perché esternare emozioni avrebbe significato perdere quel ridicolo gioco mentale che Shidou si divertiva a fare quando pensava che le sue difese fossero basse e Sae non perdeva mai, men che meno per cose del genere.
 
Tranquillizzato di non aver scassinato la porta di un’altra persona, la chiuse dietro di sé e si fermò nel mezzo del salotto, occhieggiando il divano con sguardo seccato e portando alle labbra il bicchiere grande di quello che chiamava caffè, ma che rappresentava obiettivamente tre chili di zucchero mischiato a latte e arabica spiccia all’aroma di nocciola e caramello. Lo sentì bollente contro la sua gola e il dolore lancinante non lo svegliò da quel sogno spiritato.
 
La cosa rimaneva. E ricambiava il suo sguardo con espressione decisamente poco furba.
 
Restava fermo lì, in piedi sui cuscini in pelle di capretto del divano e tremolante per chissà quale astruso motivo, non muovendosi nemmeno per sbaglio se non per quella scusa di naso che fiutava l’aria in un tremolio poco dignitoso. Molto probabilmente cercava di capire cosa stesse succedendo, come se fosse Sae l’intruso infestante.
 
Staccò il bicchiere dalla bocca, lasciandolo comunque vicino per poter essere investito dal vapore bollente e il profumo nocciolato che sperava potesse aiutarlo a capire. Non lo fece.
 
“Oh, sei tornato.” Shidou entrò nel salotto in quel momento, una ciotola ridicolmente piccola nella mano e un nastro nell’altra. Sogghignava, l’idiota. “Che ci fai lì impalato? Togliti il cappotto.”
 
“Cos’è.” Non lo domandò. Non aveva la voglia di dare toni specifici a domande che non sarebbero dovute esistere in primo luogo, quindi non lo fece. E non specificò nemmeno a chi si riferisse, perché sperava di aver ragione e che Shidou l’avesse affascinato con sesso, calcio e cervello, altrimenti avrebbe avuto ampiamente di che discutere con la sua libido vergognosa.
 
Chi è, vorresti dire.” Lo guardò mettere a terra la ciotola – su un fottuto tappetino antiscivolo, quando doveva praticamente minacciarlo di male fisico per fargli raccogliere gli asciugamani bagnati da terra e metterli a lavare. Prese un sorso di caffè bollente solo per soffocare l’indignazione – e chinarsi per legare il nastro al collo della cosa, nastro che si rivelò essere un collare ridicolmente minuscolo, terribilmente simile a quello progettato per i gatti. “Lui è Actarus.”
 
Sae sbatté gli occhi confuso. “Ha anche un nome?”
 
“Gliel’ho messo io.” Era orgoglioso. Schifosamente orgoglioso. Lo vide prendere quell’ammasso di ossicine cave con le sue enormi mani e posizionarselo in braccio, sorridendogli con molta meno malignità che era abituato a vedergli di solito. “Non è adorabile?”
 
“Perché c’è un toporagno in casa?” Nel suo salotto inizialmente, sul suo divano in seguito e ora ad affogare tra le braccia del suo quasi ex ragazzo.
 
Shidou ebbe il coraggio di guardarlo con sufficienza. “È un cane.” Sottolineò con un coraggio che non capiva.
 
Sbuffò. “Sono sicuro che non lo è.” Sae conosceva i cani. Sapeva cosa stava dicendo.
 
Shidou sospirò. “Belle ciglia, è un chihuahua. Sono sicuro che là, nelle favelas dove giochi di solito, ce ne sono parecchi.”
 
“Spagna.” Gli ricordò secco, stringendo le dita sul bicchiere e sentendolo caldo contro la pelle. “Gioco in Spagna, non nel mondo dell’orrore da cui sicuramente proviene quella cosa.”
 
Lo guardò stirare il suo ghigno e portare l’essere vicino la sua faccia. Sae sperò gli mordesse il naso. “Sei bellissimo, Actarus-chan. Non ascoltare papà, è solo incazzato perché gli somigli.”   
 
Scusami?” Non doveva esternare sentimenti se voleva vincere. Ma l’indignazione fu troppa per mantenerla imbottigliata.
 
Shidou sentì odore di vittoria. Lo capì dal suo sguardo furbo e il sorriso così ampio da spaccargli la faccia in due. “Non li vedi gli occhi? Le ciglia lunghe? Il naso all’insù?”
 
No, non vedeva.
 
Aveva davanti due occhi a palla poco furbi, scuri e distratti. Le ciglia erano praticamente inesistenti. Il naso era piccolo, ma rimaneva un tartufo a punta vibrante che continuava ad annusare l’aria senza decenza e senza diritti. “L’ho preso perché mi ha ricordato te.”
 
“Che cazzo di problema hai?” Era doveroso chiederlo. Sae non aveva idea di cosa albergasse nella mente di Shidou ed era arrivato, molto prima di quel giorno, alla decisione di non doverlo mai sapere, specialmente se era in grado di partorire idee del genere.
 
“La prima volta che l’ho visto mi ha mostrato questi dentini aguzzi bellissimi e non potevo lasciarlo.” Chiocciava. Guardava quel coso tremante nel suo braccio e tubava come un fottuto idiota. “Voleva mordermi, sai? Così simile a te.”
 
“Mi chiedo perché non l’ha fatto davvero.” Sibilò Sae affondando i denti sul bordo del bicchiere, venendo investito dal vapore caldo e sperando riuscisse a placargli i nervi. “Da quanto è che pensi di infestare casa?”
 
“Qualche settimana.” Lo guardò grattarlo sotto il mento. Il topo non sembrava gradire, a giudicare da come cercava di evitarlo. “Ho aspettato che lo vaccinassero e oggi finalmente è con noi. Non sei felice?”
 
La felicità, in quel frangente, era l’ultima cosa che provava.
 
“Riportalo indietro.” Ordinò grave, continuando ad osservare quel quadretto osceno fermo nel mezzo del salotto.
 
Shidou lo derise. “Actarus è mio e stanotte dormirà nel letto con noi.”
 
“Ryu, se quel coso entra in camera giuro che le seghe saranno le uniche cose con cui ti soddisferai fino alla morte.”
 
Shidou ridacchiò malevolo, prima di dargli le spalle e canticchiare “Promesse, promesse …” uscendo dal salotto con il mostriciattolo il braccio, cinguettando riguardo l’insegnargli a giocare a calcio e perdendo il cervello per sempre.
 
Sae rimase fermo, fumante. Portò il caffè alle labbra, finendolo con un sol sorso e schiacciando il bicchiere nella mano, l’irritazione che si riaffacciava spietata.
 
Quella cosa sarebbe andata via, pensò deciso sentendo un singolo abbaio acuto provenire dalla cucina, a costo di spedirla a Rin in un pacco postale.
 
 
*
 
 
Il topo aveva immediatamente capito che il letto era off limits.
 
O, meglio, il topo aveva paura di cadere dal materasso e Sae aveva accolto la notizia con disgusto: avrebbe apprezzato di più lo sprezzo delle regole piuttosto che piagnucolii indistinti che avevano il potere di seccarlo in tre secondi scarsi.
 
La prima notte fu un incubo.
 
Squittii che avrebbero voluto essere guaiti scoppiavano a tradimento ogni volta che Sae si ritrovava ad un passo dal suo meritato sonno, facendolo imprecare dallo spavento e fottendogli il programma di otto ore filate di riposo.
 
Sae odiava quando i suoi piani saltavano, soprattutto se non per colpa sua.
 
E qui, la colpa, non era neanche del pipistrello canino, ma di quell’idiota dall’altra parte del letto.
 
Shidou, ovviamente, non sentì nulla di tutto ciò, già nel mondo dei sogni come il più puro dei bimbi demoniaci. Ma il suo cucciolo di sgorbio chiedeva di lui e Sae, prontamente e magnanimamente, si premurò di avvertirlo con un calcio ben piazzato tra le reni, condito con sibili terrificanti riguardo il cominciare a cercare un nuovo appartamento, perché nel momento in cui fosse uscito di casa avrebbe trovato la serratura cambiata al suo ritorno.
 
“Non rompere il cazzo, è stranito.” Lo sentì mugugnare con bocca impastata, sbadigliandogli in faccia una volta di troppo e cominciando a cercare la cosa con le palpebre ancora incollate tra loro. “Vorrei vedere te in una casa nuova con un tizio che non ti sopporta.”
 
“Stai descrivendo ogni singola volta che vado a trovare Rin.” Cosa che continuava a fare, nonostante il chiaro messaggio del suo fratellino di non essere il benvoluto. Ma Sae era un fratello maggiore e ogni fratello maggiore che si rispettava, alla nascita, veniva investito del sacrosanto compito di molestare e infastidire il proprio fratellino, quindi avrebbe continuato a presentarsi ogni volta che era annoiato fino a che Isagi avesse continuato ad accoglierlo.
 
“È il karma, quindi.” Shidou si abbassò grugnendo, per poi ritornare nella posizione originaria arricchito di un fagotto tremante dalle orecchie enormi. Sae lo vedeva guardarsi attorno impaurito e non capì che cosa ci fosse da essere terrorizzati: era una fottuta camera da letto. “Actarus-chan, è notte. O ti addormenti o ti faccio dormire io.”
 
Quello piagnucolò solo di più, muovendosi nella presa di Shidou con agitazione. “Deve fare pipì.” Sibilò Sae arricciando il naso, girandosi sul materasso e dando loro la schiena, ficcando la testa sotto il cuscino per buona misura.  
 
“No cazzone, l’ha fatta prima.” Gli arrivò troppo poco attutito per i suoi gusti, quindi spinse il guanciale ancora di più contro le orecchie.
 
Era bello quel mondo ovattato dove i suoni arrivavano deboli e confusi, nel caso riuscissero a penetrare lo strato leggero delle federe e quello spesso del lattice schiumoso. Era come trovarsi in un mondo diverso, dove la sua vita non era stata invasa da demoni ghignanti con mani tentacolari e mostriciattoli dall’anormale abbaio asmatico.
 
Era sicurissimo di aver trovato il modo perfetto per dormire e, se si fosse sbrigato a perdere i sensi, sarebbe rimasto perfettamente in linea con le sue ore di sonno svegliandosi in un orario per lo più consono, senza stravolgere altro della sua routine già ampiamente messa alla prova da presenze infernali non accette.
 
Avvertì qualche mugugno indistinto e una lontana risatina malvagia, quindi probabilmente Shidou stava covando l’essere mostruoso con le sue nuove doti di mamma chioccia trovando dei mirabolanti modi per cominciare a viziarlo fino al punto di non ritorno e lo lasciò fare.
 
Non era un suo problema, in fondo.
 
Il toporagno era una completa responsabilità di Shidou e, fortunatamente, era troppo microscopico per poter dare a Sae reale fastidio. Lo avrebbe ignorato esattamente come faceva con il 100% della popolazione – Shidou compreso quando rompeva particolarmente i coglioni, perché il fatto che vivessero nella stessa casa e scopassero ad intervalli irregolari non lo rendeva migliore degli altri ai suoi occhi scostanti, tutt’altro. Il suo ruolo di compagno, principalmente, lo poneva in una posizione terribilmente irritante dal momento che era in mezzo ai suoi piedi più volte del resto del mondo – e la sua vita avrebbe continuato a scorrere senza problemi, un’autostrada dritta senza curve, stronza e ambiziosa come sempre.
 
Ne era veramente convinto.
 
Finché non sentì qualcosa di umido e freddo sul retro del collo, insieme a una mini lappata ruvida sulle vertebre cervicali che gli fece venire i brividi e lo portò ad alzarsi di scatto, incazzato come poche altre volte e disgustato in generale.
 
Il topo – sul materasso, sulla sua parte di letto, così vicino al suo gomito da rischiare di volare via per un colpo accidentale – lo guardò con i suoi enormi occhi sporgenti. “Waff!” Sfiatò in un tentativo asmatico di abbaio ridicolo, avvicinandosi ancora caracollando su quegli stuzzicadenti che aveva per zampe e posizionandosi contro il suo cazzo di cuscino. Sae lo guardò girare mille volte sullo stesso identico punto senza alcun motivo logico finché, evidentemente soddisfatto delle proprie azioni inutili, non si schiantò sul cuscino, affondando come un cartone animato e scrutandolo con occhio troppo furbo.
 
“Aaaw guardalo!” Gracchiò diabolico Shidou, ficcandosi sotto le coperte e sistemandosi con espressione soddisfatta. “Vuole il suo papà!”
 
Sae sperò gli facesse pipì nelle scarpe il prima possibile.
 
 
*
 
 
Il toporagno si rivelò molto utile.
 
L’urlo di Shidou, condito di imprecazioni verso l’incontinenza canina quando il giorno dopo indossò le scarpe per la sua corsa mattutina, gli fece iniziare la giornata con istinti meno omicidi.
 
 
*
 
 
Sae sorseggiò il suo caffè, sfogliando il giornale senza guardarlo davvero.
 
Le nottate avevano raggiunto un equilibrio per lo più stabile in un tempo relativamente breve e non poteva esserne più sorpreso: era stato pronto a cacciare di casa Shidou e il suo pidocchio da compagnia senza alcun rimorso.
 
Ma, a dispetto di tutto, Sae era riuscito a ristabilire il suo programma di sonno concentrato nelle sue otto ore ideali nell’arco di una sola giornata e il mostriciattolo aveva scelto la scarpetta da calcio destra di Shidou come letto personale. Questo dopo aver distrutto la sinistra con i suoi oscuri dentini aguzzi – e lasciato allucinato Shidou per diversi minuti per il ringhio stranamente gutturale che uscì fuori da quel corpicino tutto ossa non appena provò a sfilargliela dalle fauci. Sae ne fu stranamente deliziato.
 
Il microbo, però, continuava imperterrito a dormire dal suo lato del letto, benché non sul suo cuscino ma tra l’armadio e il comodino, e ogni volta che provava a scendere Sae rischiava di pestarlo come marmellata. Quello, in realtà, era meno bello: era già capitato e Shidou aveva messo un muso lungo tre chilometri per l’affronto, convincendo la signora delle pulizie a lasciarlo fare la lavatrice da solo. Le sue mutande avevano preso un orrendo colore rosa pastello e, a quanto aveva capito, l’assalto puntava a fargliele diventare di un giallo vomito discutibile.
 
Lo avrebbe preferito.
 
Tuttavia, Sae era superiore a quei dispetti puerili, quindi si ritrovava seduto al tavolo della cucina attendendo che la colazione si materializzasse da sola – la domestica doveva ancora arrivare – e nutrendosi di caffeina concentrata e aria fritta. Perché la sezione sport raccontava solo cazzate, da quel poco che aveva deciso di leggere.
 
“Stronzo, noi usciamo.” Shidou sembrava provare ancora rancore per l’incidente dell’altra mattina con il ratto, visto l’utilizzo del nomignolo affettuoso. O forse no, pensò Sae dubbioso. Stronzo era una parola che Shidou usava spesso, anche a letto a volte. Era difficile capire qualcosa con quell’idiota.
 
Poi pensò al soggetto della frase e i dubbi si moltiplicarono. “Tu e chi altro?” Soffiò piano, sfogliando il giornale con aria annoiata.
 
La domanda era lecita: Shidou non aveva amici.
 
O, meglio, Shidou aveva amici che solo Shidou considerava amici. Il suo modo di fare arrogante e terrificante non era propriamente la fiaccola migliore per attirare falene, ma Shidou se ne fregava altamente e usava le persone definendole “amici” nel momento in cui gli faceva più comodo.
 
In verità, Sae era l’ultimo a poter parlare quando il suo concetto di amicizia iniziava e finiva con Rin, che borbottava cose sull’odiarlo e si divertiva a far finta di non essere in casa quando lo andava a trovare, e Shidou stesso – e con Aiku, in realtà, ma non ne era molto sicuro. Tentava sempre di fuggire quando vedeva lui e Shidou insieme, chissà come mai.
 
Shidou si affacciò in cucina, vestito con un cappotto lungo stranamente alla moda e una borsa imbottita con dei teschi disegnati sopra, da cui spuntava la testa di pipistrello del mostriciattolo. Si poteva sentire una lieve vibrazione provenire da quel fagotto orribile e dopo un po’ Sae capì che si trattava di un ininterrotto ringhio di avvertimento. “Io e Actarus-chan.” Rispose fiero, inclinandosi per fargli vedere meglio l’orribile aggeggio aggrappato al suo braccio. Il ratto al suo interno guardò Shidou e gli mostrò un leggero accenno di denti. Shidou lo ignorò. “Guarda come siamo fighi.”
 
Sae li scrutò da sotto le palpebre, battendole piano. “Non riesco a capire quale parte lo sia.” Ed era vero. Sembrava che un tizio con i capelli da matto avesse derubato il peluche ringhiante di una bambina con gusti orribili a caso.  
 
Shidou sbuffò. “Che cazzo ne vuoi sapere, se non ti vestono vai in giro come un barbone.” Non era assolutamente vero. Sae aveva standard.
 
Aveva anche freddo, quindi avrebbe preso la prima cosa lanosa informe e l’avrebbe indossata senza alcun rimpianto, ma non significava che non avesse stile. Decise di soprassedere, perché qualche ora in tranquillità gli avrebbe solo giovato. “Il guinzaglio ha ancora l’etichetta, l’hai lasciato sul mobile del soggiorno.” Gli ricordò tornando alla sua lettura falsa.
 
“A che mi serve il guinzaglio?”
 
La domanda era curiosa. La risposta, capì Sae, lo sarebbe stata ancora di più. “Devi portare quella scusa di cane, ti serve.”
 
“Ma lo sto portando.” Sae lo scrutò a lungo cercando di capire come potesse effettivamente farlo, fino a che gli occhi non caddero di nuovo sulla borsa e tutto fu improvvisamente più chiaro.
 
“Mi rifiuto.” Sibilò sbattendo il giornale sul tavolo.
 
Shidou lo guardò con il suo sempiterno ghigno stampato in faccia. “Per cosa precisamente biscottino al fiele?”
 
“Ryu, quella cosa non ha nemmeno l’aspetto giusto, non puoi portarlo in quel modo come se fosse un pupazzo.” Si alzò cauto perché il topo non aveva smesso un attimo di ringhiare e l’ultima cosa che voleva era vaccinarsi contro la rabbia, ma appena sembrò notarlo smise di botto, guardandolo con i suoi occhi a palla. “Mettigli il cazzo di guinzaglio e fagli fare il cane.”
 
“Facciamo quello che ci pare.” Canticchiò Shidou guardando il minuscolo alieno nella borsa ricominciare a ringhiargli addosso. “Vero Actarus-chan? È vero che il papino stronzo deve farsi i cazzi suoi?”
 
“La gente mi associa a te.” Sibilò Sae, ottenendo l’attenzione del toporagno. I media erano stranamente  ossessionati dal fatto che avesse un compagno calciatore, come se non ci fossero altri giocatori in giro che si saltavano addosso senza pensieri.
 
Rimpiangeva i bei tempi in cui faceva notizia solo per la sua pura abilità. Ma con Shidou la tranquillità era stata buttata nel secchio nell’arco di tre settimane di frequentazione sessuale, dopo erano stati solo mesi di gossip sulle loro presunte (reali) tendenze esibizioniste solo perché erano stati beccati a scopare in macchina.
 
A voler essere pignoli, era il posto meno pubblico in cui l’avessero fatto e avrebbero voluto indire una conferenza stampa per specificarlo e sottolineare la capacità dei giornalisti di farsi sfuggire argomenti realmente succosi, ma i loro manager decisero di zittire la loro indignazione a riguardo mandandoli in vacanza sulle Isole Vergini per appianare le acque senza troppe interferenze.
 
“Dovresti essere lusingato, belle ciglia.” Non lo era, nella maniera più assoluta. Non quando Shidou se ne andava in giro con quel ghigno da pazzo e un animale curioso che avrebbe dovuto essere un cane ficcato nella borsa.
 
“Non credo sia possibile.”
 
Lo vide mandargli un bacio volante ed avviarsi verso la porta. “Rimangono problemi tuoi, allora.” Sae sentì l’irritazione salirgli fin sopra il naso, cavalcando il flusso sanguigno come uno tsunami, quando Shidou ritornò indietro sui suoi passi e propose “A meno che non vuoi venire con noi.”
 
Non voleva, decisamente.
 
La domestica sarebbe arrivata a momenti e Sae non aveva ancora fatto colazione, non aveva intenzione a stare dietro un idiota e il suo anormale animale domestico vagando in giro seguendoli senza una meta precisa.
 
Shidou, però, sembrò subodorare qualcosa con i suoi sensi da demone. “Andiaaamo, ti offro qualcosa che ti piace.”
 
Sae lo derise, perché comprarlo con il cibo era l’ultima cosa che avrebbe funzionato.
 
Poi Shidou rettificò. “Andiamo a rubare qualcosa dal frigo di Rin-Rin.”
 
E quello, effettivamente, fece la magia.
 
 
*
 
 
Sae scoprì che portare il ratto con il guinzaglio era un fottuto incubo.
 
A partire dalla sensazione di tenere il nulla, perché quel coso pesava tre grammi scarsi e aveva il brutto vizio di schizzare da una parte all’altra del marciapiede rischiando di essere calpestato (da lui stesso, da Shidou e da qualsiasi sventurato avesse fatto l’errore di passar loro vicino), il problema principale era rischiare di trascinarlo senza accorgersene o perderlo da qualche parte o, ancora, minacciare alla sua vita in qualche modo fantasioso, come farlo rimanere incastrato nelle prese d’aria o chiuso tra le porte scorrevoli di qualche negozio.
 
Sae non aveva mai voluto quel fottuto cane, dannazione non credeva nemmeno potesse esistere la possibilità di ritrovarselo dentro casa, ma non voleva nemmeno che crepasse proprio quando era lui a portarlo al guinzaglio. Avrebbe lasciato l’onore a Shidou, se solo non lo guardasse bestemmiare con un sogghigno saputo incollato in faccia. “Ti avevo detto che era meglio infilarlo nella borsa.”
 
Sae gli scoccò un’occhiata raggelante che ottenne l’unico risultato di farlo a scoppiare a ridere.
 
A sua discolpa, non aveva mai avuto cani quindi non sapeva benissimo come portarli al guinzaglio. Pensava, come un grandissimo idiota, che gli potesse venire naturale, alla fine tutto si limitava a tenere una corda in mano e portare qualcosa che camminava accanto a lui.
 
E invece no! Si era rivelata la cosa più nevrotica che avesse mai dovuto affrontare e questo includeva il suo primo incontro con uno Shidou bardato come nel più orribile porno BDSM che potesse mai aver potuto vedere Ego nella sua allucinante vita di sguardo da matto e capelli a scodella.
 
Scoprì presto che la paura di fare del male al ratto era seconda solo alla seccatura di fermarsi ogni mezzo passo perché il topo doveva annusare. Alberi, automobili, edifici, persone, foglie cadute a terra, pipì di cani che erano veramente cani, qualunque cosa. E Sae non era famoso per la sua pazienza.
 
“Portalo nella borsa.” Ripeté Shidou all’ennesimo sbuffo scocciato che gli sentì fare. “È una rottura di palle portarlo in quel modo, usa la fottuta borsa.”
 
“È un cazzo di cane.” Gli ricordò furente, guardando quell’alieno dalle orecchie grosse abbaiare contro un ciuffo d’erba senza alcun motivo logico. “Perché fa così?”
 
“Che ne so.” E lo vide continuare a camminare, fischiettando allegramente in barba alle sue incazzature.
 
“Al prossimo tombino in cui tenta di cadere lo lascio andare.”
 
“Fallo e ti metto una cintura di castità.” Sae lo derise, perché minacce del genere dalla bocca di Shidou erano alla stregua delle più dementi barzellette. Lo vide, però, guardarlo seriamente. “Dico davvero. Se hai problemi usa la borsa e non rompere i coglioni.”
 
“La borsa è per i deboli.”
 
Scoprì nel modo più duro – una zampina incastrata in una presa d’aria e pianti acuti a non finire, uniti ad istintivi morsi assassini nel momento in cui cercò liberarlo  – che era un debole anche lui.
 
Ma davanti la domanda di un Rin accigliato “Perché quel coso è in una borsa?” Sae si limitò a guardarlo con sufficienza, scrutandolo da sotto le palpebre con aria annoiata.
 
Fu Shidou a rispondere, entrando direttamente dentro casa. “Non lo sai? È l’ultima moda, barbone.” Ignorò l’occhiata di fuoco di Rin e lo superò con un ghigno, dandogli una spallata per buona misura e filando dritto verso la cucina.
 
Sae lo seguì senza degnare nessuno di una parola.
 
 
*
 
 
Il problema principale che quel coglione di Shidou non aveva preso in considerazione, era che loro avevano delle vite. Vite frenetiche, vite in cui si perdeva il conto delle miriadi di ore al di fuori di casa per allenamenti o trasferte, vite che non prevedevano sempre il lusso di poter pranzare insieme allo stesso tavolo – cazzo, a volte nemmeno dormire nello stesso letto.
 
E la presenza forzata di una sottospecie di mini alieno con le orecchie a parabola, sinceramente, era solo l’ennesima presa in giro del suo ragazzo. Specialmente quando si dimenticava di essere il padrone/padre degenere/mamma surrogata dello sgorbio.
 
“Belle ciglia, non divertirti troppo in mia assenza.” Lo aveva detto contro il suo collo, baciandogli la colonna lentamente mentre Sae sorseggiava il primo caffè della mattinata dopo essersi appena svegliato, tentando di capire dove cazzo fosse e perché un maniaco lo stesse molestando. Un sospiro di naso e labbra che aderivano alla sua pelle, aspirando forte e giocando di lingua, lo convinsero ad inclinare la testa per  accoglierlo, perché il maniaco ci sapeva fare e qualche goccia in più di caffè riuscì a fargli associare il suo odore a quello di Shidou.
 
Lo sentì schioccare piano di saliva, leccando il segno ancora leggero che gli aveva sicuramente lasciato e cingendogli la vita, affondando la testa nell’incavo della sua spalla. “Mi mancherà coccolarti quando sei ancora troppo addormentato per reagire male.” Fu quello, paradossalmente, a dargli un simbolico schiaffo mentale, facendogli battere le palpebre e accorgendosi solo in quel momento di essere invaso da uno Shidou selvatico particolarmente appiccicoso.
 
“Togliti.” Sibilò, sentendolo lamentarsi contro il suo orecchio e stringere di più i suoi fianchi, impedendogli di terminare il suo caffè in pace.
 
“Speravo rimanessi in coma per più tempo.” Mugugnò senza dare segno di volerlo liberare. Ed era comodo, ad essere sinceri. Shidou era una fornace umana e Sae rimpiangeva ogni secondo lontano dal suo piumino d’oca e quattro strati di coperte pesanti, era apprezzato quel calore gratuito.
 
Sospirò, appoggiando la testa contro i suoi capelli acconciati e sentendolo lavorare sul suo orecchio sussurrando su qualcosa di più e facendogli fare seriamente un pensiero veloce.
 
Una sveltina sembrava ideale. Forse perché ancora morbido dal sonno, forse perché avrebbe potuto tornare a letto, forse perché cominciare la giornata in quel modo non gli faceva poi così schifo, ma era un’idea interessante e stava seriamente valutando se accettare.
 
Fu in quel preciso momento che il topo arrivò come un lampo e si attaccò con i denti al bordo dei pantaloni di Shidou, tirando e ringhiando con una forza minima per via della stazza inesistente e consentendo a Sae di spostare l’attenzione dal vampiro affamato di sesso contro il suo collo al gremlin rabbioso che slittava sul pavimento. Shidou sospirò contro la sua guancia. “Actarus-chan, non sto ammazzando papino stronzo. Gli piace.”
 
“È discutibile.” Borbottò contro la tazza, occhieggiando il ratto mettercela tutta per strappare la stoffa del pantalone e, possibilmente, l’intera essenza di Shidou. Sae apprezzava chi metteva tutto sé stesso per raggiungere i propri obiettivi, ma non capiva tutto quello spreco di energie. Di mattina, poi. “Se non ti stacchi verrà un infarto al Furby.”
 
“Ha preso da te, vivrà solo per dispetto.” Sae sbuffò, perché faceva ridere detto da lui, ma poi Shidou si avvicinò alla sua bocca e cominciò a baciarlo e prenderlo in giro slittò un attimo in secondo piano.
 
Lo facevano poche volte in quel modo. Lenti, languidi, denti assenti e labbra che tentavano di afferrare piano, che prendevano per succhiare con calma, lingua che si faceva sentire appena e saliva controllata. Shidou sapeva della menta artificiale del dentifricio, fresca e pulita, e sentire il suo sapore mescolarsi con quello del caffè gli fece svuotare la mente, portandolo ad appoggiarsi al suo tocco e guardando i suoi occhi socchiusi controllarlo, come se non volesse perdere nessun attimo di lui.
 
Il topo cominciò ad abbaiare.
 
Acuto, insistente, odioso.
 
Sae lo vide saltellare con la coda dell’occhio, intervallando quel tentativo mal riuscito di essere un cane con ringhi sentiti, insieme a nuovi aggressivi attacchi ai pantaloni di Shidou. “Il ratto ha rotto il cazzo.” Bofonchiò Sae contro la sua bocca, allontanandosi di poco per prendere un sorso di caffè e accorgendosi accigliato che la tazza era vuota.
 
Shidou lo baciò su una guancia e gli rubò la sua unica fonte di vita, andando a riempirla nuovamente di nettare caldo e facendogli squillare mille campanelli di allarme. Shidou gentile era pericoloso. “Che fai?” Domandò cauto, guardando il mostriciattolo attaccato alla gamba del suo ragazzo venire trascinato per i denti ad ogni passo.
 
“Ti vizio.” E sì, lo faceva spesso. A letto però, non altrove.
 
Gli porse il manico della tazza piena e Sae strinse le palpebre. “Non mi fido.”
 
“Non lo fai mai, qual è la novità?” Gli diede un buffetto sul viso e Sae finalmente notò come fosse vestito. Batté le palpebre. “Perché hai la tuta della tua squadra?”
 
“Perché so come ti fa arrapare.” Gli fece l’occhiolino e Sae si limitò a guardarlo senza espressione. Shidou ridacchiò. “Te l’ho detto da una settimana, andiamo a Yokohama in trasferta.”
 
Ah, vero. Il campionato.
 
Sae portò la tazza alle labbra, sentendo il caffè bollente contro la pelle. Scrutò Shidou con occhi stretti, valutandolo. Slittò poi l’attenzione sul topo che tentava di distruggere un laccio delle scarpe del suo ragazzo, cercando di capire dove fosse la fregatura, dopodiché ritornò lentamente su Shidou e finalmente capì cosa ci fosse di sbagliato.
 
“Portati il topo.” Sentenziò, sorseggiando piano la sua sveglia personale.
 
Shidou, l’infame, gli rise in faccia. “Per far cosa? Fargli montare la gamba di Isagi come l’ultima volta?” Non era un problema di Sae come avesse passato il tempo l’alieno, ma non sarebbe rimasto a casa con lui. “Mettilo in valigia.” Ordinò di nuovo, facendosi ridere dietro.
 
“Ti porterò un souvenir di merda.” Promise Shidou andando a raccogliere borsone e trolley. Sae si sentì tradito nel profondo. “Non ucciderlo e cerca di farti trovare nudo nel letto quando torno.”
 
“Non ci sarà sesso quando tornerai.” Sibilò Sae con tono vendicativo.
 
“Ti aspetto stasera per la scopata in videochat.” Mosse la lingua suggestivo, chiocciò saluti al ratto ringhiante e sparì, Sae non sapeva nemmeno per quanti giorni.
 
Guardò il toporagno saltellare verso di lui scodinzolando con sguardo adorante, l’espressione soddisfatta di chi aveva appena portato a termine un lavoro inutile, e prese un sorso di caffè.
 
Quei giorni sarebbero stati durissimi.
 
 
*
 
 
“Devo portare il ratto di Shidou.”
 
La sua decisione – perché non era una richiesta, lui non chiedeva mai, specialmente in quel momento visto che Shidou gli aveva appioppato le sue responsabilità fottendosene allegramente – venne accolta dal silenzio.
 
In tutta onestà, non si aspettava nulla. La decisione era stata presa e nessuno gli avrebbe fatto cambiare idea.
 
Il suo manager, però, dovette parlare. “… Ratto?” Chiese dubbioso e Sae guardò l’esserino montato male che si divertiva a maciullare un calzino di Shidou con concentrazione.
 
“Non ho altri modi per chiamarlo.” Confessò con onestà e il topo decise di guardarlo giusto per farsi uscire uno “Waff!” sfiatato, come per confermare. Sae approvò.
 
“Itoshi-san, scusa la domanda, hai adottato un cane?”
 
Sae prese del tempo. Valutò dubbioso la codina in perenne movimento, il minuscolo tartufo a punta, gli sporgenti occhi a palla e le orecchie da pipistrello su una testa troppo grossa per il resto del corpo. “Sono sicuro di no.” Confermò fermo e il toporagno accettò ricominciando a distruggere il calzino.
 
“Lo ha fatto Shidou-san?”
 
“Non hai capito, non è un cane.” Era certo di questo, nonostante le assurde convinzioni di Shidou. “Ma è di Shidou.” Anche di quello era sicuro, non si sarebbe mai fatto associare di sua iniziativa a qualcosa con quella forma.
 
Il cellulare sembrò acquietarsi, come se fosse stato messo in attesa. Succedeva spesso con il suo manager, Sae ci era abituato e non lo infastidiva come si poteva pensare. Meno chiacchiere con gente inutile.
 
Nell’attesa, afferrò un paio di mutande di Shidou dal cassetto e le lanciò alla mini belva selvatica, che ci si fiondò felicemente con i dentini in bella vista. Era stranamente terapeutico vederlo disintegrare gli averi intimi di Shidou con così tanta passione, guardando quei canini affondare nella stoffa e strapparla come se ne andasse della sua vita.
 
Sae si chiese se potesse convincerlo a far fuori anche le manette rosa pelose: Shidou ci era stranamente affezionato, ma a Sae facevano sempre venire prurito, anche quando non le indossava lui. Forse era qualcosa legato al colore che gli faceva fare strane associazioni mentali con le punte rosa shocking dei capelli di Shidou, ma l’odio rimaneva.
 
Sentì il riattivarsi della linea e se ne dispiacque. “Itoshi-san, scusami ma ho avuto un piccolo imprevisto.” Sae conosceva la natura di quegli imprevisti: antiacidi e respiri zen. Non ne fu particolarmente colpito. “Mi spiace, ma non puoi portare il cane -”
 
“Ratto.”
 
“-all’intervista, non è … professionale.” Sae aggrottò le sopracciglia.
 
Nel suo lavoro, la professionalità si vedeva sul campo da calcio. Al di fuori, sinceramente, non gli interessava quali teneri animi sensibili potesse offendere, non era suo compito mettere a suo agio persone che gli assillavano la giornata con domande che non avevano senso di esistere.
 
“Il ratto viene con me.” Sindacò fermo, sentendo il suo manager soffocare un piagnucolio.
 
“Posso chiamare un dog-sitter?” Propose l’altro timoroso. “Possono stare entrambi nella stanza accanto e non ci sarebbero problemi.”
 
Sae sospirò. “Non è un cane.” Gli ricordò sibilando, stanco di doversi ripetere. “Non voglio sentire altro, manda una macchina a prenderci.” E attaccò, voltandosi giusto in tempo per vedere il Furby guardare fiero l’ammasso di stoffa sminuzzata tutto intorno.
 
Sae lo premiò con un biscotto.
 
 
*
 
 
Il suo manager pianse.
 
Non che fosse una sorpresa, quella. Succedeva ogni volta che decideva di incastrare Sae in un evento più o meno pubblico, oramai avrebbe dovuto essere abituato alle conseguenze delle sue tristi decisioni.
 
Anche l’intervistatore pianse. E quello era effettivamente nuovo.
 
Sae non era del tutto certo che la colpa fosse totalmente sua, in tutta sincerità
 
Quella volta aveva scelto di rispondere a più domande del solito, cercando di articolare in modo leggermente più ricco delle situazioni precedenti, anche perché il ratto sul suo grembo era fonte eterna di distrazioni per tutti – Sae rimase confusissimo dalla quantità di gente che gli fece i complimenti e chiocciò su quanto fosse adorabile il topo. Erano ciechi? - ma quando si arrivò a domande francamente idiote, la sua lingua si rifiutò di collaborare.
 
La prima domanda su suo fratello venne degnata di un monosillabo. Troppo, per un affronto del genere.
 
La seconda, infatti, di un grugnito irritato.
 
La terza, su Shidou, ottenne l’ambito premio di farlo estraniare del tutto e iniziare a giocare con il cellulare a volume altissimo, facendo risuonare tra le pareti di quella stanza l’odiosa musichetta da battaglia di Fruit Ninja condita da suoni di affettatura fruttifera.   
 
A conti fatti, era stato anche troppo educato. Generalmente si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato senza dare spiegazioni, ma il topo sulle sue gambe lo costrinse a contenersi se non voleva passare il resto della giornata a sentire piagnucolii odiosi per una caduta non preventivata.
 
Questo portò il giornalista a credere erroneamente di essere ne giusto, quindi si sentì nel pieno diritto di chiedere “Itoshi-san, qual è la sua impressione su Isagi Yoichi?” che, per chiunque conoscesse il suo rapporto con Isagi, era una domanda suicida.
 
Sae alzò gli occhi dallo schermo, scrutando l’intervistatore da sotto le ciglia. “L’ho visto lunedì scorso.” Soffiò piano, guardandolo illuminarsi. Probabilmente pensava di aver vinto, dal momento che aveva deciso di rispondere e Sae non riuscì a provare pena per una persona così stupida.
 
“Ah sì?” Continuò quello, muovendo il registratore nella sua mano verso di lui quasi d’istinto.
 
“Sì.” Confermò Sae. Il ratto sulle sue gambe cominciò ad agitarsi e Sae scelse di poggiarlo a terra, sperando che facesse pipì sulle scarpe del tizio.
 
Fece di meglio.
 
Lo guardò caracollare su quei bastoncini di pesce che aveva per zampe, annusare il pantalone del giornalista con aria concentrata e poi alzarsi sulle zampe posteriori, cominciando a montare la caviglia vestita con una foga che Sae gli aveva visto poche volte. “Ha passato la mattinata guardando divertito il mio cane fare sesso con il suo polpaccio esattamente come sta facendo con lei.” Lo informò tranquillamente, vedendolo guardare il suo alieno canino con occhi sempre più scandalizzati.
 
“Itoshi-san …” Sussurrò di avvertimento il suo manager, affrettandosi a tentare di liberare il giornalista dalla presa del toporagno.
 
Ma il ringhio orribile che uscì da quel corpicino dalle ossa cave, seguito da un movimento sempre più vigoroso delle anche e uno scatto di denti improvviso, portò l’intervistatore ad alzarsi con slancio e il suo manager ad allontanare le dita, salvandole da una tagliola di dimensioni ridotte.
 
“Perché fa così?” Domandò agitato il giornalista, allontanando la gamba libera ma cercando di capire come liberare quella violentata.
 
Sae alzò le spalle, ricominciando a giocare senza problemi. “Isagi aveva appena finito di farsi scopare.” Informò sofficemente. “Probabilmente è collegato.”
 
“Fallo smettere!”
 
Sae staccò di nuovo gli occhi dal cellulare, guardando la coppia confuso. Vide diversi gradi di turbamento e, davvero, bastava una spinta fatta bene per liberarsi di quel coso, non ci voleva molto per toglierselo di dosso. “È un topo.” Sibilò quindi truce, alzandosi in piedi e sistemando lo smartphone in tasca. “Non riesco a credere di aver perso il pomeriggio in questo modo.”
 
Non ebbe bisogno nemmeno di richiamare il Furby.
 
Nel momento in cui cominciò a camminare verso la porta della camera per uscire, quello si staccò dalla gamba del reporter e caracollò verso di lui, saltellando per farsi prendere in braccio e farsi mettere nella borsa da passeggio.
 
Il silenzio che ne seguì fu decisamente liberatorio.
 
 
*
 
 
La scoperta che al ratto piacesse giocare a calcio fu esplosiva.
 
Tutto iniziò con un pallone tre volte più grande di lui e tutto finì con Sae che correva nel campo di allenamento con una pallina di dimensioni ridotte per creare passaggi spettacolari che il pipistrello riusciva a stoppare meglio di bipedi profumatamente pagati per farlo.
 
All’inizio, in tutta sincerità, sembrava ridicolo.
 
I suoi occhi vedevano solo un sederino dalla coda a punta sfrecciare come un razzo sul prato artificiale per raggiungere una palla rotolante. Poi, però, lo guardò dribblare e fare tunnel tra le gambe di sedicenti calciatori e la sua visione divenne sempre più chiara.
 
Primi malfidati tentativi di passaggi divennero veri e propri schemi basati sul topo volante e il suo abbaio asmatico, riempiendo Sae di orgoglio imprevisto e sfruttando nuovi mirabolanti insulti per quegli incapaci che dicevano di essere i suoi compagni di squadra.
 
“Se ci riesce il ratto, spiegami cosa può esserci di difficile.” Era il suo preferito, guardando il topo alzare la gamba per fare pipì sulla bandierina d’angolo.
 
Non era il momento di ritornare in Spagna, quindi si trattava di semplici allenamenti, ma l’inefficienza lo aveva sempre infastidito.
 
“Waff!” Accettò da lontano il Furby e Sae approvò con un cenno del capo.
Quel giorno venne emesso il divieto di far entrare animali domestici nelle strutture ufficiali di allenamento.
 
 
*
 
 
“Dove sono i miei due infami preferiti?”
 
La voce di Shidou attraversò il silenzio della loro casa e Sae alzò gli occhi dal libro che stava leggendo, stupito.
 
Non pensava che i giorni passassero così velocemente, in realtà.
 
Sentiva Shidou quotidianamente e ogni sera si vedevano in videochiamata, in modo sempre meno casto man mano che passavano i giorni, ma non pensava che tornasse proprio in quel momento.
 
Sentì il frusciare del giubbotto che veniva tolto e il tonfo pesante del borsone abbandonato per terra, il suono dei passi che si faceva sempre più vicino.  “Dio Sae, non vedo l’ora di buttarti sul letto e …”
 
Lo guardò rimanere sulla porta, fermo e confuso.
 
Era bello vederlo dal vivo, in tutta sincerità.
 
I capelli un po’ abbassati per il viaggio, l’aria stanca, quella fottuta maglietta tolta nel tragitto dal salone alla camera da letto che lo fece inspirare piano, che gli fece riempire la bocca di saliva e lasciargli la voglia di sentirlo sotto le sue mani, muscoli e respiro a muovergli il palmo e chissà cos’altro.
 
Ma Shidou batté le palpebre, grattandosi il petto con movimenti lenti. Sogghignò. “Cos’è questa novità?” Lo chiese appoggiandosi allo stipite della porta, inclinando la testa e assumendo un’espressione dai toni affettuosi. “Sapevo che era questione di tempo.”
 
Sae chiuse il libro di scatto, perché ammettere che quell’idiota avesse avuto ragione era una sconfitta che non era disposto a concedere. “Gli hai portato via la scarpa.” Lo rimproverò senza morso e lo sentì ridacchiare, scuotendo la testa.
 
Nel letto, lì vicino a Sae e nel posto di Shidou, il ratto dormicchiava pacificamente, arrotolato nella sua copertina personale e occupando uno spazio ridicolmente ampio per quel corpo dalle dimensioni microbiotiche.
 
“Sono stati giorni produttivi?” Domandò Shidou sogghignando, entrando nella stanza e svegliando il topo con la sua presenza. Cominciò a ringhiare sommessamente, un avvertimento a non fare un altro passo che Shidou ignorò con la forza dei genitori che credono che i loro figli siano perfetti in ogni cosa.
 
Sae valutò la razzia dei suoi abiti più brutti – e delle manette pelose -, la dichiarazione del suo manager di non fargli concedere più interviste per un periodo di tempo più o meno lungo, l’illuminante presa di coscienza di incapaci calcatori a fronte dell’abilità di un toporagno nemmeno troppo coordinato e annuì, sistemandosi sotto le coperte.
 
Sae lo vide avvicinarsi al Furby, grattandogli la testolina con dita caute e sbaciucchiandolo senza decenza. Quello fece scattare i denti come una tagliola. “Ciao Actarus-chan! Ma quanto sei cresciuto!” Non era vero. Era sempre il solito essere montato con pezzi di animali a caso.
 
Shidou però, nonostante le mille affettuosità in cui si prodigava, sembrava avere una sola cosa in mente. “Ora levati dal cazzo piccolo mio, i tuoi papini devono fare le porcate.”
 
“È il suo letto ora.” Lo informò Sae sofficemente e Shidou ridacchiò per l’assurdità della cosa. Fu solo dopo qualche minuto, in cui Sae non fece nulla per fargli capire che lo stesse prendendo in giro e lo scherzo della natura affondato nel materasso quasi gli fece fuori l’indice, che capì che era serio. “In che senso?” Domandò cauto, prendendo di peso il topo – peso piuma ringhiante e inutilmente aggressivo - e sistemandolo a terra. “Pesa tre grammi scarsi, non vedo come potrebbe fermarmi.”
 
“Si è rivelato più utile di te.” Si sentirono suoni di stoffa strappata e Sae fu quasi sicuro che il ratto avesse fatto fuori i calzini usati di Shidou. Ne fu in parte disgustato.
 
“Dubito che ci sia riuscito.” Lo disse con un sorriso lascivo, allungandosi nel letto accanto a lui e Sae gemette schifato. “Pensi solo con il cazzo.”
 
“Vero.” Accettò affondando la faccia nel suo collo, soffiando aria bollente sulla sua pelle e annusando come un animale. “Cazzo mi sei mancato.”
 
Sentirlo vicino dopo giorni era bello anche per lui, ma non gli avrebbe mai dato la soddisfazione. “È il letto del Furby.” Gli ricordò, sospirando per dei denti che si immersero piano sulla sua spalla.
 
“Se ne farà una ragione.” Sogghignò Shidou prima di zittirlo con un bacio e cominciare a spogliarlo, dita precise che gli circondarono i fianchi e gemito nella sua bocca appena Sae alzò la gamba, sentendolo strofinare sul muscolo con movimenti forse troppo frettolosi.
 
Vide con la coda dell’occhio il topo uscire dalla camera, come se sapesse che non era uno spettacolo a cui avrebbe dovuto assistere. “Il ratto è più intelligente di te.” Disse sulle sue labbra, afferrandolo deciso con mano piena e cominciando a massaggiarlo da sopra i pantaloni.
 
Shidou attaccò il suo collo nel momento in cui strinse e lo sentì ringhiare “Continua così e domani non riuscirai a camminare.”
 
Ad essere sinceri, era un valido argomento.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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