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Autore: Anchestral    18/02/2023    1 recensioni
[Chainsawman]
La notte di Capodanno Aki Hayakawa si ritrova coinvolto in un grave incidente stradale. Da qui ha inizio il suo viaggio.
[Personaggi: Aki Hayakawa (centric!), Angel Devil, Denji, Power, Himeno, Kishibe| Pairing: Aki/Angel]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Tatsuki Fujimoto; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
Devo fare alcune precisazioni. Prima di tutto, voglio ringraziare la mia carissima amica poisonedbubbletea (e Haruchiyo Sanzu) per aver letto e betato (e tirato le orecchie perchè avevo buttato 300 inflessioni dialettali dentro a questa storia). Grazie a lei è molto più bella e soprattutto corretta. :)

Sono quasi 13mila parole nate come one shot ma che alla fine ho deciso di spezzettare in più capitoli. Comunque, consiglio di prendervi un tea, una cioccolata calda (quello che preferite insomma) e un pacchetto di fazzoletti, se avete la lacrima facile. Io non ce l’ho affatto e mi sono commossa scrivendo alcuni passaggi quindi fate voi. Avviso che sono presenti tematiche delicate come riportato dai tag.
Buona lettura, ci vediamo alle note del quarto capitolo.
 

To make this last for as long as I could
Atto Primo - Iris

Quella era la notte di Capodanno più noiosa degli ultimi anni, di questo Aki era sicuro. Se ne stava seduto in silenzio al tavolino di plastica fumando la sua amata sigaretta mentre osservava i fiocchi di neve cadere lentamente. All’interno della casa, fin troppo silenziosa, c’era solo Nyako che lo fissava attraverso il vetro della porta finestra. «Anche lei deve sentirsi sola» pensò.

Quelle due bestie rumorose dei suoi coinquilini erano andati in discoteca per festeggiare l’anno nuovo lasciando lui e la povera gatta al loro destino. Non che Aki non avesse amici con cui stare, ma Himeno, la sua migliore amica e compagna di sigarette e bevute, lo aveva chiamato poche ore prima per dirgli che le era salita la febbre, probabilmente a causa dei festeggiamenti di Natale, e che quindi non sarebbe riuscita a raggiungerlo per il veglione.

Aki sospirò e lasciò uscire una nuvoletta di fumo dalla sua bocca, poi guardò il telefono: segnava le 3 e 30 di notte.

Lo aspettavano altre ore di solitudine e quella sera, per qualche ragione, la cosa gli pesava particolarmente. Non era un tipo socievole. Il classico ragazzo dai pochi amici ma buoni, se così si possono definire Denji e Power, che passavano gran parte della giornata correndo e urlando per casa. O Himeno, che se c’era una cosa sconsiderata da poter fare sicuro l’aveva pensata e lo stava già trascinando con lei. I suoi amici erano, stranamente, il completo suo opposto: rumorosi e troppo espansivi. Però apprezzava la loro compagnia, lo aiutavano a non perdersi nei suoi pensieri. Di certo avrebbe preferito essere a una squallida festa a placare un’inutile litigata tra Power e Denji piuttosto che stare seduto a quel tavolino con solo il posacenere e il cielo bianco a fargli compagnia.

Loro tre erano diventati amici non troppo tempo prima: giusto un paio di anni, quando si erano trasferiti da lui dopo essersi iscritti all’università. Prese a tamburellare con le dita sul tavolino mentre intonava una melodia malinconica. Immaginava fosse l'effetto che faceva guardare giù e vedere gente che ballava, cantava, e si divertiva con le persone a cui voleva bene. 

 

Fu la sua suoneria trillante a risvegliarlo dai suoi pensieri. Sul telefono vide la foto di Denji che faceva la linguaccia e le dita che formavano il segno della vittoria mentre Power, dietro la testa, gli faceva le corna. Rispose.

«Denji?»

«Hey, come te la passi da solo?» biascicava un po’. In sottofondo, Power rideva in modo sguaiato. Erano ubriachi fradici. 

«Bene… voi? Vi state divertendo?» rispose inspirando il tabacco.

«Beeneee!» disse Denji.

«Benissimo, qui è uno sballo! Dai, Denji! Un altro, un altro!» replicò isterica Power dopo di lui.

«Ehm, ecco - passò qualche secondo prima che continuasse - Power è super sbronza. Io no, peròòò…»

«Tu no, eh?»

«No, no! Giuro! Però... ci vieni a prendere?»

Aki sospirò, una nuvola scura di fumo si formò dalla sua bocca.

«Mandami la posizione, sto arrivando.»

«Evvai!» Denji attaccò il telefono.

Spense la sigaretta e rientrò dentro casa. Infilò il primo paio di scarpe che si trovò davanti, poi il giaccone e la sciarpa. Prima di uscire, salutò Nyako grattandole la testolina, prese le chiavi di casa dal piattino sulla mensola dell’ingresso e chiuse la porta dietro di sé.

Scese le scale e arrivò al parcheggiò esterno del suo condominio. Sbloccò la sua Toyota Yaris grigia scuro che gli rispose con un sordo clak clak. Iniziò la sua routine di partenza: cintura, specchietti, areazione per spannare il parabrezza e i finestrini, lo stereo con la sua playlist preferita e impostò il GPS con l'indirizzo che Denji gli aveva inviato per messaggio. Ci avrebbe impiegato una buona mezz’ora per arrivare. Mise in moto la macchina.

 

Mancava ancora una quindicina di minuti alla destinazione, e allo stereo era appena partita la canzone ‘Out of touch’ di Daryl Hall e John Oates, quando gli arrivò un’altra chiamata. Rispose e mise velocemente il vivavoce facendo attenzione a non distrarsi. Era una strada secondaria a senso unico, buia con pochi lampioni lontani tra loro ad illuminarla.

 «Quanto ti manca?» chiese Denji impaziente. 

«Poco, un quarto d’ora e ci sono.» 

«Bene, a tr-» Aki non ebbe modo di sentire il resto della frase. 

Un forte fascio di luce catturò tutta la sua attenzione. Si girò di scatto a sinistra e dal finestrino del passeggero vide gli abbaglianti di un altro veicolo venirgli addosso. Tutto accadde così velocemente. 

Il rumore sinistro e assordante del metallo che si accartocciava. 

Il sentirsi sbalzato via. 

L’urto contro il finestrino. 

La botta e il caldo improvviso che sentì alla testa. 

L’auto che si capovolgeva.

In pochi secondi si trovò riverso sull’asfalto freddo e ruvido, la testa che gli pulsava forte. In sottofondo, la canzone e le urla di Denji si facevano sempre più ovattate. Le palpebre si chiudevano da sole, le energie fluivano via, insieme al sangue.

Poi, perse i sensi, e tutto divenne buio.

 


 

Aki si svegliò all’improvviso da un sonno che gli era sembrato durare un’eternità. Stava seduto a braccia conserte su una sedia di plastica abbastanza scomoda. Si guardò intorno, cercando di capire dove fosse. Dal letto, l’odore pungente di disinfettante e una donna dai capelli neri vestita con un camice bianco, capì di essere in una stanza d’ospedale. Si alzò per avvicinarsi a lei e chiedere cosa ci facesse in quel posto: non ricordava di esserci mai arrivato. Proprio nel momento in cui stava per aprire bocca, lanciò un’occhiata al letto per vedere chi fosse il paziente che apparentemente era andato a visitare.

La realizzazione lo colpì all’improvviso e lo shock lo fece cadere a terra urlando.

Capelli neri sciolti, una fasciatura stretta alla testa, un colorito fin troppo pallido e la maschera dell’ossigeno attaccata. Riconobbe il piercing sul labbro inferiore e gli orecchini.

Era… lui?

«Hey, tu! Che ci faccio sul letto, io sono qui!» disse alzando la voce in modo agitato. Ma la dottoressa non sembrava sentirlo, invece continuava a scrivere sulla cartella che aveva in mano mentre controllava il monitor dal lento ‘bip bip’. Il suono martellante lo faceva sentire, secondo dopo secondo, sempre più sopraffatto e disorientato.  

«Certo che sei tu, è il tuo corpo…» disse una voce calma, quasi apatica proveniente da dietro di lui.

Si girò di scatto e vide una figura alquanto singolare. La prima cosa che gli saltò agli occhi furono le grandi ali bianche piumate richiuse sulle sue spalle e l’aureola dorata che fluttuava sulla lunga chioma ribelle, color rosso cremisi, illuminandola pallidamente. Sul volto i lineamenti delicati e androgini facevano risaltare gli occhi assonnati, sempre cremisi, che lo scrutavano. La piccola figura, seduta in modo scomposto sulla sedia dove prima era seduto Aki, indossava uno smoking nero con tanto di cravatta.

Aki non fece nemmeno in tempo a replicare che la porta della stanza si spalancò, urtando la parete con un tonfo.

«Aki… Aki!» urlò Denji correndo verso il letto con gli occhi pieni di lacrime. 

«Ciuffetto!» Gridò Power, a sua volta, con voce rotta. Una volta raggiunto il letto, Denji subito prese la mano all’altro Aki, mentre Power andò dall’altro lato e gli si buttò addosso per abbracciarlo. La dottoressa subito la allontanò, dicendo di non urlare e di non fare movimenti bruschi. Entrambi stavano piangendo disperatamente con goccioloni che scorrevano loro dagli occhi e dal naso.

Aki si avvicinò alla ragazza. 

«Power, sono qui, girati!» le disse mentre allungava una mano verso la sua spalla.

«È inutile…» commentò la voce chiara dell’angelo. La sua mano attraversò la spalla di Power come fosse un ologramma. La ritrasse immediatamente, spaventato da quel fenomeno innaturale.

«Quello sul letto è il tuo corpo e tu sei la tua anima» spiegò l'estraneo dietro di lui, enfatizzando la differenza.  

«E… tu, chi saresti esattamente?» tentennò confuso Aki, prestandogli davvero attenzione per la prima volta da quando si era risvegliato.

«Angel. Ovviamente - rispose indicando l’aureola sulla sua testa - Sono qui per accompagnarti nel tuo viaggio. Verso dove, lo scoprirai da solo…» spiegò con sempre la stessa voce monotona, come se questo fosse stato un biglietto da visita che aveva ripetuto centinaia volte.

Aki si sentì rabbrividire.

«Sto morendo?»

«Tu che dici?» gli rispose lanciando uno sguardo al letto. Aki lo seguì con gli occhi e prese ad osservare il suo stesso corpo inerme. In quel momento sentì la paura che gli si aggrappava sulla schiena e respirargli fredda, affannosa sul collo. Si sentiva pesante, come se quello sguardo e basta lo stessero facendo sprofondare nel sottosuolo. Dove sarebbe potuto finire… In poche ore? Il suo respiro si fece veloce, si sentiva affannato. La voce di Denji riecheggiò spezzata nuovamente:

«Si riprenderà presto vero?» disse mentre tirava su col naso.

«Ragazzi, devo essere sincera con voi» iniziò la dottoressa. Denji e Power sbiancarono dopo quelle parole. Di riflesso anche ad Aki successe lo stesso.

Prima che la donna potesse aggiungere altro, Angel lo prese per il polso e iniziò a trascinarlo con sé verso la finestra con una forza che decisamente non sembrava appartenere a un corpo così minuto.

«Fermo, fermo! Voglio sentire cosa dice.»

«No, ascoltarla non ti servirà a niente». Gli afferrò il braccio e insieme passarono attraverso i vetri della finestra, trapassandoli come se nemmeno ci fossero. Aki vide chiaramente il vetro inghiottire piano e inesorabile tutto il suo braccio, dal gomito fino alla punta delle dita, senza però sentire freddo, o dolore. In un istante non fu più in grado di sentire né la voce della dottoressa né i pianti dei suoi amici.

Iniziarono a cadere verso l’asfalto. Aki provò di nuovo paura: se non l'aveva ucciso la cosa che lo aveva messo in quella situazione, sicuramente lo avrebbe fatto questo. In pochi secondi avevano percorso così tanta altezza, le orecchie presero a fischiargli (era possibile anche se era solo un’anima?). La finestra era così lontana ormai…

A un tratto, Angel spiegò le ali e fermò la caduta. Erano più grandi di quanto Aki avesse immaginato. Volando portò entrambi sul tetto piatto dell’ospedale. Atterrarono con delicatezza. 

Aki era semplicemente confuso, nel giro di una decina di minuti erano successe così tante cose che proprio non riusciva a razionalizzare. Angel si sedette sul cornicione e prese ad osservare l’orizzonte. Erano le prime ore dell’alba, il sole stava per sorgere e tingeva il cielo chiarissimo con delle sfumature arancio quasi pittoresche.

«Dove mi porterai?» chiese Aki.

«Da nessuna parte, io sono qui solo per accompagnarti. Sarai tu a decidere» concluse la sua risposta con un sospiro.

«Almeno puoi dirmi perché ero… no sono… in un ospedale?»

«Come se lo sapessi» disse Angel. Si voltò a guardarlo. Poi gli fece segno con la mano di sedersi accanto a lui. Aki, titubante, obbedì.

«Se non lo ricordi tu, io non posso aiutarti. Non so niente delle persone che accompagno…» riprese Angel. «Non ricordi proprio nulla? »

Aki chiuse gli occhi e si sforzò di ricordare qualcosa, qualsiasi cosa, delle ultime ore, ma non ci riuscì. Tutti gli eventi della sua vita gli stavano balenando davanti agli occhi in modo del tutto casuale, ma degli ultimi momenti prima di finire all'ospedale non ricordava assolutamente nulla. Non avrebbe nemmeno saputo dire che giorno fosse.

Quando riaprì gli occhi, decise di guardarsi un po' intorno. I marciapiedi erano pieni di neve, e le persone indossavano cappotti pesanti, guanti e cappelli. Era inverno. Questo era già qualcosa. Si sporse in avanti per guardare meglio, ma Angel lo bloccò mettendogli un braccio davanti al petto. 

«Hey, hey! Non ci pensare nemmeno a saltare per conto tuo. Non è per questo che sono qui» lo ammonì. 

«Che cazzo dici? Mica mi volevo buttare di sotto!»

«E io che ne so di cosa ti passa per la testa? Ci hanno provato in tanti, sai.» Rispose piccato.

«L’ultima cosa che volevo era essere in questa situazione di merda, ora devo anche sentirmi dare del suicida?» disse arrabbiato.

«Voi umani siete davvero permalosetti – schioccò la lingua – nemmeno io vorrei essere qui, eh.» 

Aki riprese a guardare la strada, incazzato. Vide diverse decorazioni in lontananza e finalmente capì grazie a una in particolare.

«È il primo dell’anno» annunciò ad Angel ancora seccato.

Chi ben comincia… pensò fra sé e sé. 

Improvvisamente, cominciò a risuonargli nella testa una melodia conosciuta... una delle sue canzoni preferite, realizzò subito dopo.

Iniziò a cantarla sottovoce: ‘I’m out of time, but I’m out of…’

Ironico… 

Angel si girò e lo guardò confuso mentre continuava a canticchiare. Aki immaginò cosa stesse pensando: probabilmente si chiedeva se fosse impazzito tutto d’un tratto.

«Non so perchè ma mi è tornata in mente questa canzone, in particolare questo pezzo.»

«Immagino abbia qualcosa a che fare coi tuoi ultimi momenti… »

La voce di Angel era sempre così monotona, e il suo tono totalmente distaccato. La cosa stava cominciando seriamente ad irritare Aki. Era come se fosse del tutto indifferente alla situazione, e forse lo era, viste le circostanze. Ma era anche l'unico con cui Aki potesse parlare, e questo lo esasperava a non finire. L'isolamento forzato stava iniziando a farlo vacillare. Cosa avrebbe dato per una sigaretta, forse lo avrebbe aiutato a calmarsi. Il fumo era sempre stato il suo antistress, a prescindere da quanto fosse poco salutare.

Ma che importanza aveva, ora?
 

«Allora, andiamo o no?» chiese Aki dopo un silenzio che sembrò interminabile. 

«Non avere fretta.»

«Se si può fare qualcosa, voglio che lo facciamo adesso. Non ne posso più di rimanere in questo stato.»

Angel si sdraiò, e bloccò i suoi occhi cremisi in quelli azzurri di Aki.

«Ne sei proprio sicuro?» disse perentorio. Aki poté giurare a se stesso che quello sguardo, dritto nei suoi occhi, gli aveva penetrato l’anima.

«Sdraiati anche tu e osserva il cielo. Prenditi tutto il tempo che ti serve. Non credo tu abbia mai passato del tempo così. Voi umani siete sempre di fretta: non riuscite a godervi le cose belle del mondo. E poi, prima che possiate rendervene conto, vi ritrovate in una cassa di legno sottoterra.»

Aki era interdetto ma rifletté: una volta con Himeno avevano fatto tardi e l’alba l’avevano vista sorgere. Ma non si era mai preso una pausa dalla sua vita e esistere. Si sdraiò anche lui, avvicinandosi un pochino ad Angel. Alzò lo sguardo al cielo cristallino e le poche nuvole che lo coprivano. Nessuno dei due parlò per un po’, rimasero a godersi il silenzio e la reciproca bizzarra compagnia. Era strano, però Aki non si sentiva sopraffatto dalla presenza di Angel. Forse era l’esperienza che aveva accumulato dopo tutte le anime che aveva accompagnato, ipotizzò, ma riusciva a metterlo a suo agio. Aki, almeno in quel momento, non pensò alla sua famiglia.

 


 

«Allora, dove vuoi andare?» chiese Angel. Erano passate ore in quel modo. Aki sentendo la sua voce si risvegliò, non stava dormendo ma era come andato in trance mentre guardava le nuvole disfarsi e continuare ad avanzare lente, inesorabili.

Ci pensò e la prima cosa che gli venne in mente fu il suo piccolo appartamento nei sobborghi. Denji, Power e anche la piccola Nyako.

«A casa» sospirò.

Angel si alzò piano in piedi e lo guardò come per aspettarlo. Aki lo seguì. I due si incamminarono verso casa sua.

Era abbastanza lontana dall’ospedale camminando a piedi ma ormai Aki non aveva più alcuna fretta. Stava iniziando a capire cosa fosse questo viaggio che avrebbe dovuto fare. La cosa lo faceva sentire a disagio. 

 

Girando all’ennesimo angolo, arrivarono di fronte al suo complesso condominiale. Non era nulla di diverso da ciò che ci si potrebbe aspettare dalla periferia popolare di Tokyo: un palazzo piuttosto alto e piatto dove il grigio liscio delle mura regnava. Uno a fianco all’altro, su ogni piano, vi erano le porte di ingresso dei vari appartamenti. Il tutto era circondato da un muretto con cancello che lo divideva dalla strada in cui erano parcheggiate le auto dei residenti. Aki si avvicinò seguito a ruota da Angel e fece per cercare le chiavi. 

Certo – pensò – non ce le ho.

Angel lo guardò, l’espressione sempre indecifrabile ma con l’angolo della bocca leggermente alzato. Era l’espressione più eloquente che aveva rivolto ad Aki finora. Lo superò e attraversò il cancello.

«Ecco» gli disse. «Ti sei dimenticato? Non ci servono chiavi» disse, con una leggera sfumatura divertita nel tono altresì monotono.

Aki rispose con un secco schiocco della lingua e passò anche lui attraverso l’inferriata del cancello. Era convinto che non si sarebbe mai abituato a questa nuova cosa di passare attraverso gli oggetti e le persone.

Era ogni volta una piccola realizzazione, che andava a crescere minuto dopo minuto: il suo tempo stava scadendo. Si chiese quanto ancora sarebbe durata questa situazione… dipendeva dal suo corpo, o dalla sua anima? Se fosse stata la prima, forse gli sarebbe potuto rimanere meno tempo di quanto immaginasse. Gli ritornò in mente l’immagine del suo corpo disteso inerme sul letto d’ospedale. Non si era soffermato troppo sui dettagli ma aveva notato le tante, troppe, fasciature. Angel non gli aveva permesso di ascoltare la dottoressa, ma non ci voleva un genio per capire che non avesse buone notizie.

Sospirò piano mentre continuavano a camminare nella piazzola prima del portone principale. Angel sembrò non accorgersene, e se lo fece, non disse nulla. 

Se invece fosse stata la seconda opzione? Se dipendeva tutto dal viaggio spirituale? In quel caso, forse, sarebbe potuto durare di più. Comunque, la destinazione pareva restare la stessa. 

La congettura che Aki aveva fatto sembrava avere senso nella sua testa, ma non aveva intenzione di chiedere conferma ad Angel. Già prima lo aveva guardato talmente male da mettergli i brividi. Era sicuro che avrebbe ottenuto una risposta sulle stesse corde se avesse osato dar voce a questo suo pensiero. 

«Sei silenzioso» notò Angel mentre lo seguiva sulla quarta rampa di scale che stavano salendo. Aki non rispose nulla.

«Senti… manca ancora tanto? Inizio a sentirmi stanco.» chiese Angel con una nota di fastidio nella sua voce pestando i piedi più pesantemente sui gradini.

«Non eri un angelo? Come puoi essere stanco?!»

 «Mi stanco e basta.»

Aki non riusciva a spiegarsi come fosse possibile, ma decise di non indagare ulteriormente. Angel doveva essere una persona pigra e basta. Lo aveva immaginato dal passo lento e cadenzato, dal modo di parlare, sempre lento, ma che sembrava comunque ipnotico. Da come anche assumere espressioni facciali diverse da quella apatica e annoiata sembrava affaticarlo.

«Sono al quinto piano» concluse Aki ricevendo uno sbuffo da Angel.

Finalmente arrivarono e Aki percorse il pianerottolo fino ad arrivare davanti alla sua porta.

«È questa» affermò Aki eppure, non mosse alcun altro passo.

Si paralizzò sul posto. Era andato lì per vedere Denji e Power ma il solo pensiero adesso lo intimoriva: cosa avrebbero detto? Cosa stavano facendo? Il fatto di poterli ascoltare senza poter dire loro nulla e senza che sapessero che anche lui fosse lì lo agitò.

La sensazione non gli era sconosciuta: era come essere in una stanza piena di gente ma comunque sentirsi solo e inavvicinabile, mentre tutti e tutto intorno a lui sembravano muoversi e andare avanti. E lui rimaneva indietro. Solo che questa volta non era solo una sensazione, era la realtà dei fatti. Avvicinò la mano sul pomello, quasi a stringerlo. Il suo respiro divenne più affannoso. 

A smuoverlo fu Angel poggiando delicatamente la mano sulla sua schiena, come a rassicurarlo. Aki lo guardò con la coda dell’occhio ma non riuscì a vedere la sua espressione.

«Andiamo» sussurrò con delicatezza. Facendo leggermente pressione con la mano, lo accompagnò attraverso la porta.

Si ritrovarono all’interno. Il silenzio dell’esterno terminò e venne sostituito da dei singhiozzi. Aki guardò di fronte in fondo al corridoio di ingresso e vide il piccolo dorso bianco di Nyako. Il gatto era girato verso sinistra, dove si trovava il kotatsu. Loro tre erano soliti passare lì gran parte della giornata. Insieme.

Camminò e arrivò nel piccolo saloncino. Vide seduti per terra Denji e Power. Denji stava con la testa poggiata sul tavolo, immerso tra le sue lacrime, era lui che singhiozzava. Al suo fianco c’era Power, in silenzio.

Aki girò intorno al tavolo per andare di fronte a loro. Vide che anche Power aveva delle lacrime che le solcavano il volto crucciato. Angel si mise dietro di lui, appoggiandosi al muro.

All’improvviso Denji sbatté il pugno sul tavolo.

«Cazzo – urlò con la voce spezzata – quello stronzo di Aki.» Aki lo fissò dubbioso.

«Perché proprio a lui…» tirò su col naso. Power non aggiunse nulla, lo fissava negli occhi.

«Power, ti rendi conto o no? È colpa mia – la voce bassa e mansueta, quasi un bisbiglio. – È colpa mia cazzo, io gli ho mandato quella cazzo di posizione! Se avessi preso io la macchina forse lui, forse…» continuò, il tono crescente a ogni parola. La rabbia montava nella sua voce. Infine, sospirò rumorosamente con strazio: «Dovevo esserci io lì, non lui.»

Power gli balzò addosso e prese a colpirlo.

«Stupido! Stupido! Stupido!» gli urlava con la voce stridula, colpendolo a ogni parola.

«Secondo te Ciuffetto vorrebbe sentirti dire che è colpa tua? Vorrebbe vederti mezzo morto? No, no e no!»

Lo prese per la maglietta iniziando a scuoterlo come a volergli imprimere il concetto con la forza.

«È stato quel coglione ubriaco. Mica tu, mica Aki!» Scoppiò a piangere rumorosamente. Lasciò la maglietta di Denji e ricadde inerte al suo posto. «Cazzo. Perché è successo?»

Denji la strinse a sé, accarezzandole i capelli.

«Powy… e se non dovesse più…» le parole gli morirono in bocca.

«Non dirlo nemmeno per scherzo.» La voce usciva ovattata dalla maglietta di Denji mentre continuava a piangere.

 

Aki… non sapeva bene come reagire. Era una situazione opprimente. Forse rimpiangeva averla vista. Sapeva quanto i suoi amici tenessero a lui però vederlo in questo modo era tutta un’altra storia. Gli si spezzò il cuore vedendo quanta sofferenza stava provocando loro, quanto affetto provavano per lui. Quante cose avrebbe voluto dirgli. Quante cose avrebbe potuto dire prima di trovarsi di fronte a loro senza voce.

Una parola dolce, un abbraccio… non erano cose che gli appartenevano. Lui si alzava prima la mattina per cucinare la colazione, rispondeva seccato, li andava a prendere all’università quando poteva. Si chiese se dai suoi gesti avessero mai percepito anche solo un pochino quanto tenesse a loro. Forse da come a volte la sua voce si incrinava, facendosi sfuggire un tono leggermente più premuroso. Da come stava attento a mescolare le verdure in modo che Power le mangiasse senza accorgersene, perché le facevano bene ma non lo capiva. Da come, quando beccava Denji di notte da solo a fissare il vuoto dal balcone, si metteva al tavolino a fumare per non lasciarlo solo. Gli giurava che la sua dipendenza era talmente forte da svegliarlo la notte, ma in realtà sentiva la porta finestra aprirsi e si preoccupava.

Nonostante ciò, rimpianse di non aver mai detto loro espressamente un ‘vi voglio bene’.

 

Si sedette di fronte e allungò le mani verso le loro. Provò a prenderle ma non ci riuscì. Guardò la scena inerme, gli pizzicavano gli occhi. Fece un respiro per prendere coraggio:

«Denji, Power… sono qui. Non è colpa vostra. Vi giuro che non sono arrabbiato. Per favore, non ci riesco a vedervi così.»

«Avrei voluto passare con voi tanti altri giorni, fare tante esperienze nuove. Però, vi sono grato del tempo che abbiamo passato insieme. Mi dispiace di non avervelo mai detto, mi dispiace che non sarò più in grado di farlo. Con voi io mi sono sentito felice, non mi davate nemmeno il tempo di deprimermi.»

Rise amaramente.

«Mi mancate già, è assurdo. Spero che avrete una vita felice anche se non sarò più con voi. Avrei voluto tanto poterlo vedere con i miei occhi e starvi accanto ma non credo sia possibile. Grazie per essere stati con me in questi anni. Denji, Power… vi voglio davvero bene, siete la mia famiglia.»

 

Si alzò lento e si girò verso la porta finestra alla cui sinistra era appoggiato Angel. Lo fissava con uno sguardo curioso ma compassionevole. L’espressione di qualcuno che aveva qualcosa da dire e riusciva a trattenersi a stento. Eppure, non parlò. Aki sapeva che il suo volto era contorto nel dolore, lo sentiva da come erano contratti i suoi occhi e la sua bocca. 

«Questa situazione mi sta facendo impazzire. Giuro che mi è quasi sembrato di sentire la voce di Aki.» Sbottò Denji. Power lo assecondò sostenendo di aver percepito anche lei la stessa cosa.

Aki uscì sul balcone seguito da Angel, lasciando i due ragazzi e le loro voci dietro di sé.

 


 

Ancora nessuno aveva proferito parola da quando avevano lasciato l’appartamento. Aki gli aveva chiesto di scendere volando e Angel lo aveva assecondato. Una volta atterrati, notò che nel parcheggio mancava la sua macchina. 

«Devo dire che vivono le emozioni molto... intensamente» fu Angel a rompere il silenzio.

«Già. Non è stato semplice conviverci all’inizio ma ci ho fatto l’abitudine» apparve il fantasma di un sorriso malinconico sul suo viso.

«Sono i tuoi fratelli?» gli chiese curioso.

«No, non siamo fratelli.»

«Ah, sembrava di sì. Non sembrate solo amici» commentò Angel.

«Noi… ci siamo conosciuti un paio di anni fa. Ci siamo incontrati per caso, però venivano da situazioni difficili» mise istintivamente le mani in tasca cercando le sigarette e l’accendino, non trovandoli. Di solito quando partiva con questi discorsi avere il sapore confortevole del tabacco in bocca lo rilassava.

«Le loro famiglie erano un disastro, quindi li ho portati a casa mia. Volevo aiutarli e all’inizio non capivo nemmeno perché avevo questa spinta di benevolenza nei confronti di due ragazzini sconosciuti. Poi ho capito. Era perché mi rivedevo in loro.»

Si fermò un attimo, la sua espressione era persa così come la sua mente in chissà quale ricordo. Angel non lo interruppe.

«Penserai che sono patetico, ma ho fatto per loro quello che avrei voluto che qualcuno facesse per me.»

«Perché pensi di essere patetico?»

«Perché all'inizio ho preso il loro dolore e l’ho usato per placare il mio. Gli voglio davvero bene e ho fatto tutto per loro, ma la verità è che sono un egoista. L’ho fatto solo per sentirmi meglio con me stesso.»

«Non credo sia così. Secondo il mio giudizio la parola egoismo è una delle più lontane da te. Sei stato gentile. Tu gli hai dato ciò che non avevano avuto prima: una famiglia premurosa. E lo stesso hanno fatto loro con te.» lo fissò con una nota d’affetto nello sguardo. Lo distolse quando si rese conto che lo stava guardando per alcuni secondi di troppo. Aki era troppo preso dai suoi pensieri per accorgersene.

«Perché me lo stai raccontando?» incalzò Angel.

«Sono più morto che vivo, no? Non so nemmeno quanto tempo mi rimane. Ho immaginato che non abbia tenere per me la mia storia e i miei sentimenti. Almeno ci sarà qualcuno che saprà tutta la verità» all’implicazione immerse il suoi occhi azzurri in quelli cremisi. Gli sembrò che Angel, al suo fianco, si fosse un po’ irrigidito ma ricambiò lo sguardo.

A volte, il silenzio fa più rumore di mille parole. E tra i due calò il silenzio.

«Credo di aver capito come sono finito in ospedale» disse infine Aki, rivolgendo nuovamente la parola ad Angel. «Ho fatto incidente con la macchina. Non l'ho vista nel parcheggio, e poi Denji ha detto di avermi inviato la sua posizione sul telefono... per andare a prendere lui e Power, probabilmente. E quella canzone che stavo canticchiando prima, l’ascolto sempre mentre guido.»

«Ti ricordi come è successo?»

«No. So solo che c’è stato.»

 
   
 
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