C’era una volta una Fonte che brillava delle luci limpide della via lattea e aveva il sapore delle stelle.
C'era una volta una città meravigliosa chiamata Algor e la Fonte era il suo cuore, pulsava nelle aule più sacre della città come linfa vitale.
C’era una volta un tempo in cui Algor dominava il cielo e la terra, un tempo in cui le navi solari solcavano le dune del deserto ambrato e le loro vele rilucevano di bagliori dorati.
C’era una volta un’epoca di pace e prodigi, ma, un giorno, una stella nera e fredda cadde dal cielo e la Fonte si ammalò.
Disperato, il Re di Algor interrogò le menti più sagge dell’Impero, ma nessuno riuscì a guarire la Fonte e fu così che la città meravigliosa iniziò ad avvizzire.
Il popolo accusò il Re, il Re maledisse gli dei e gli dei l’arroganza degli uomini. Le vie di Algor si macchiarono di fuoco, cenere e follia, finché non giunse un Eroe. Egli si addentrò nel deserto e incontrò la Stella Nera. Gelida e rovente, con una voce di ghiaccio e carboni ardenti, ella gli rivelò come guarire la Fonte.
Tuttavia, quando l’Eroe sfiorò gli ultimi i rivoli perlacei della Fonte morente essa divenne nera. Nera come una notte d'inchiostro, nera come perfette perle scure, nera come il manto liquido della Stella.
Fu così che l’Eroe scoprì che la Stella lo aveva ingannato.
Libro Aureo, estratto
Prologo
Leyra, Deserto Kirseth, Tanisdhor.
Secondo le antiche storie il palazzo di Tanisdhor esiste da sempre. Da prima dei feyren e della torre di Nerathra, prima dei ghiacci perenni del lontano nord, prima ancora del Grande Mare e del deserto Kirseth. Prima del soffiare dei venti e prima ancora della stessa Leyra. Prima di tutto. Prima d’ogni cosa.
La giovane si umettò le labbra disidratate dall’intenso calore che avvolgeva l’altopiano, posò le mani inanellate sul parapetto della finestra incrostato da mattonelle invetriate, brillanti di un azzurro turchese indorato dagli ultimi raggi del sole.
Un sorriso sottile e patinato di ironica tristezza fremette sul suo viso di bronzo. Non sapeva da quanto tempo esistesse quel palazzo, ma di una cosa era certa: la città che si dispiegava sotto di esso, lungo i declivi dell’altopiano riarso, era giunta tempo dopo. Molto tempo dopo. Era un agglomerato di casupole in mattoni cotti al sole, incasellate in un serpeggiare di vie lunghe e strette pervase dai profumi del deserto, delle spezie e dai colori vivaci e luccicanti.
La giovane chiuse gli occhi e respirò a fondo. Adorava quei profumi che sapevano di vita, adorava osservare quella moltitudine di colori agitarsi in danze confuse e disordinate. Ma a lei, la Regina Veggente di Tanisdhor, tutto ciò era precluso. Riaprì lentamente gli occhi e un caldo alito di vento le rubò un sospiro, proprio come le dune del deserto stavano rubando gli ultimi raggi rossi e oro del sole, simili a lance conficcate nella sabbia rosata.
Tuttavia, una cosa sapeva perfettamente: tutte le assurde dicerie sull’immortalità della Regina Veggente erano un mito, poiché lei, Hesret, questo era il suo nome; non era che una giovane che solo pochi anni addietro, prima di essere scelta, vestiva il bianco dei bibliotecari. Era così che funzionava; fanciulli bianco vestiti servivano come bibliotecari all’interno di quel palazzo che non era altro che un’immensa biblioteca. Catalogavano, archiviavano e riordinavano tutte le profezie pronunciate dalle regine veggenti che si erano susseguite nei secoli.
Hesret rammentava molto bene la morte della Veggente che l’aveva preceduta. Una donna matura, altera e silenziosa capace di incutere rispetto con una sola e penetrante occhiata. Quando era stata trovata morta nella sala delle profezie il fatto aveva suscitato grande scalpore.¶
–Sembrava addormentata–, le aveva sussurrato la sua amica Jadet, ancora sconvolta. Era stata lei a trovarla.
Al pensiero di Jadet, Hesret sorrise fra sé. Jadet era stata la sua amica più intima da che erano giunte a Tanisdhor per vestire il bianco, selezionate dai sacerdoti rossi di Kemeset, ma da quando lei era stata nominata veggente i loro rari incontri erano stati brevi e formali. La vita a Tanisdhor scorreva lenta e monotona, tuttavia quando vestiva il bianco poteva scendere in città una volta al mese, aggirarsi abbastanza liberamente nel palazzo, gustare dolci susine seduta sui bastioni con le gambe a penzoloni nel vuoto. Sembrava un tempo molto lontano, ormai.
Ad ogni modo, gli ultimi ricordi che possedeva della sua vecchia vita in bianco erano un feretro avvolto in seta, il calore del fuoco e l’odore della cenere al vento. Dopo la morte della veggente erano seguiti giorni frenetici. Le congetture su chi l’avrebbe succeduta avevano animato le mura del palazzo. Anche lei e Jadet si erano dilettate in quel gioco innocente mentre maneggiavano consunte pergamene e di notte, quando non riuscivano a prendere sonno, si scambiavano sussurri alla luce d’una lampada a olio.
Alla fine i sacerdoti rossi avevano scelto lei, Hesret. Tutti i fanciulli in bianco erano stati sottoposti a prove; venivano convocati al tempio di Kemeset nel cuore del palazzo e molti ne uscivano sconvolti, altri delusi, altri ancora incapaci di comprendere ciò a cui era servito quell’incontro. Hesret, invece, non ricordava nulla. Solo vaghe immagini di cupole d’oro in fiamme e ali di corvo vorticanti in nugoli di cenere. Nient’altro. Eppure era stata scelta.¶
– Hai l’Occhio – le aveva detto uno dei sacerdoti.¶
Così era diventata la nuova veggente. Hesret non si era aspettata tutto ciò anche se, segretamente, l’aveva desiderato e quando era accaduto ne era stata orgogliosa. Ma la gioia era stata breve. La sua vita era irrimediabilmente noiosa e il suo compito uno solo: attendere che l’Occhio le mostrasse il futuro per archiviare l’ennesima oscura profezia che doveva essere vergata su una pergamena nuova di zecca che, prima o poi, sarebbe stata infetta dai tarli e l’inchiostro semi sbiadito pronto per essere ripassato dalle mani esperte dei bibliotecari. Forse ancora prima che la profezia si fosse avverata.¶
Hesret abbracciò con lo sguardo le pendici dell’altopiano, osservò il sole calante morire fra le dune e l’occhio opaco della luna nascente incombere all’orizzonte. Salutò mentalmente la città ai suoi piedi, si allontanò dalla finestra e le diede le spalle. Si ritrovò così a fissare la sala del trono di Tanisdhor: un immenso ambiente rettangolare costellato da una selva di colonne slanciate e il pavimento in marmo lucido come uno specchio. Lentamente, Hesret si volse verso la scalinata che conduceva al trono. Osservò corrucciata l’alta seduta incrostata d’oro e gemme, un cuscino di porpora a renderla più agevole, e si portò due dita alla fronte. Strizzò gli occhi. Quella sera si sentiva irrequieta, eppure nessuna incomprensibile visione era giunta a farle vista e questo era molto strano. Accadeva sempre quando si sentiva in quel modo. Sospirò frustrata e lanciò un ultimo sguardo in direzione della finestra alla ricerca di calma, dove il basso arco incorniciava un cielo violetto. Le ombre si stavano facendo sempre più profonde.
Il ticchettio dei suoi sandali sul marmo si diffuse nel silenzio ovattato che regnava nella sala e il suo lungo abito di seta bianca vorticò leggero intorno alle sue caviglie. Si sedette sui primi gradini della scalinata, incapace di liberarsi del senso d’inquietudine che l’attanaglia. Scosse la testa e i sottili fili d’oro tempestati da gocce di rubino che le cingevano il capo oscillarono diffondendo i propri riflessi all’intorno. Si ritrovò, di nuovo, a osservare il cielo oltre la finestra. I riverberi delle ultime luci del giorno penetravano nella sala, scivolavano sul pavimento, giocavano fra le colonne e lampeggiavano sui lebeti in bronzo dorato ai lati della scalinata. Hesret arricciò il naso e lanciò un’occhiata ai bracieri bronzei da cui si alzavano sottili fili grigi. Chiuse gli occhi e respirò piano, forse se fosse riuscita a calmarsi la visione sarebbe arrivata, forse…ma i suoi pensieri morirono sul nascere poiché una voce si insinuò fra essi.
– Mi duole interrompere le vostre meditazioni, ma temo di non poter fare altrimenti.
Hesret sbarrò gli occhi di colpo, sbatté le palpebre, si rimise in piedi di scatto e si rassettò la gonna di seta. Non appena si fu ricomposta volse lo sguardo al nuovo arrivato. Non rammentava la sua voce e non appena posò gli occhi su di lui capì immediatamente perché. Non era un bibliotecario, né un sacerdote o un servitore. A dire la verità non aveva mai visto quell’individuo in vita sua, tanto meno a Tanisdhor. Impiegò qualche secondo a riprendersi dalla sorpresa; sorpresa che tornò a impossessarsi di lei non appena notò le orecchie leggermente a punta che spuntavano dalla chioma corvina del giovane. Un feyren.
In tutta risposta, il feyren le sorrise benevolo inclinando il capo di lato e arcuando l’angolo destro delle labbra ben disegnate. Tuttavia, l’inquietudine di Hesret si fece più acuta.
Che cosa ci fa un feyren a Tanisdhor?, si domandò.
Era molto lontano dall’Endoryan. Certo, la torre di Nerathra era solita inviare i suoi emissari, le Rondini, in tutta Leyra per dispensare consigli a regnanti e governi, ma nessuna di quelle Rondini si era mai intromessa negli affari di Tanisdhor. Dopotutto quel palazzo in mezzo al nulla non era che un’immensa biblioteca, uno scrigno di parole oscure e talvolta insensate, un luogo sacro sotto la protezione di Kemset, la leonessa rossa.
Tutti i popoli di Leyra guardavano ai feyren con rispetto, e come non potevano? Belli, più longevi, saggi, custodi di antiche conoscenze e dotati del Soffio, quello che i normali esseri umani, i Comuni, chiamavano magia.
Hesret lo osservò attentamente. Indossava dei comodi abiti da viaggio, un mantello color salvia gli pesava immoto oltre le spalle e gli stivali erano impolverati; aveva un fisico affusolato, un viso chiaro incorniciato da capelli neri lunghi sino alla base del collo e raccolti in una mezza coda, i suoi occhi, invece, lampeggiavano di un verde smeraldo. Hesret non poté che dar credito alle dicerie correnti secondo cui i loro occhi erano come stelle. Quelli del feyren che aveva di fronte, infatti, rilucevano del verde delle stelle che si specchiano in un mare d’inchiostro durante le nere notti sull’oceano, o almeno era così che lei le immaginava. La presa di coscienza della natura del nuovo arrivato avrebbe dovuto tranquillizzarla o lasciarla ammirata, tuttavia continuò a sentirsi inquieta. E a renderla tale contribuivano le iridi del feyren puntate su di lei. La stava studiando con una meticolosità sottile, quasi subdola, e nonostanta il suo viso apparisse tranquillo e pacato pareva che la sua mente stesse lavorando velocemente, mentre l’accenno di un sorriso tingeva le sue labbra di una sfumatura beffarda. ¶
Hesret si domandò come avesse fatto a entrare a Tanisdhor; i sacerdoti avrebbero quanto meno dovuto informarla del suo arrivo, eppure oltre la sala del trono aveva udito solo il silenzio ovattato del deserto nelle calde ore del crepuscolo. Il suo sesto senso continuava a suggerirle che qualcosa non andava.
–Che cosa volete? – domandò fin troppo sulla difensiva.
Il sorriso beffardo del feyren divenne più evidente e passò dall’essere una mera e immaginaria sfumatura a qualcosa di più simile a una smorfia. I suoi occhi smeraldo sondarono le ombre fra le colonne, mosse dei passi lenti e misurati senza che i suoi stivali producessero alcun suono e, infine, si arrestò a pochi passi da lei.
–Vedete –, tossicò per simulare imbarazzo, – il mio Maestro è molto interessato al contenuto del vostro palazzo. –
Le profezie, pensò Hesret. Che fosse dunque stato inviato da Nerathra?
Eppure qualcosa in lui continuava a metterla in guardia.
–Vi mandano dalla torre? – domandò.
Il feyren sorrise, un sorriso mesto. – Temo di no. –
Hesret assottigliò le labbra e delle rughe sottili le solcarono la fronte. La sua testa gridava pericolo e non vi era altro a cui riuscisse a pensare. Fece per aprire la bocca, ma il suo ingenuo tentativo di richiesta d’aiuto non raggiunse mai le sue labbra. Le parole le rimasero bloccate in gola come tappate da un grumo d’aria, boccheggiò e si ritrovò riversa sul marmo, le caviglie e le mani bloccate da forze invisibili. Fu invasa dal panico e si dimenò.
Il feyren scosse il capo, si chinò su di lei con uno sguardo deluso dipinto in volto, posò un avambraccio sul ginocchio e si accarezzò il mento con la mano affusolata.
–Il vostro è stato uno sciocco tentativo per due motivi. – Alzò l’indice. –Primo: gridare vi servirà a ben poco, giacché le vostre guardie e sacerdoti sono stati debitamente addormentati, e secondo –, disse alzando anche il medio, – come potete notare un simile espediente è assolutamente inutile contro il mio Soffio. Vedete, le mie capacità di piegare l’energia dell’aria sono particolarmente avanzate, dunque potete agitarvi come un pesce fuor d’acqua quanto vi pare, ma non vi servirà a nulla. – Sorrise con finta benevolenza, poi si rabbuiò. – Oh, terzo: speravo sinceramente di poter sistemare questa faccenda nel modo più pacifico possibile, ma…–
–Ma i piani sono cambiati. –
Il feyren s’alzò di scatto e assottigliò le labbra, mentre Hesret sgranava gli occhi sgomenta nel veder sopraggiungere altri “ospiti” inattesi.
Una donna, seguita da uno sparuto gruppetto di cinque uomini, avanzò fra le colonne e si mosse leggera sul marmo, quasi scivolando, e con un lieve ondeggiare sottolineato dal lungo abito scarlatto. Il viso ovale era animato da labbra rosse atteggiate in uno strano sorriso compiaciuto, i lunghi capelli ramati le ricadevano morbidi sulle spalle e a ogni passo i suoi orecchini, grappoli d’oro e rubini, tintinnavano. Si fermò di fronte al feyren e, le braccia incrociate sotto la profonda scollatura impreziosita da un rubino grosso come un uovo che riluceva sanguigno sulla sua pelle lattea, tamburellò le dita inanellate da sottili cerchietti d’oro. Vi era qualcosa di estremamente sensuale in ogni suo gesto, una sensualità che le era propria ma allo stesso tempo sottilmente calcolata. Non poteva essere più in contrasto con il gruppo di uomini dietro di lei, dagli abiti impolverati e i visi scottati dal sole.
– Aelyssa – fece il feyren fra i denti.
Aelyssa fece scorrere lo sguardo all’intorno compiacendosi dei riverberi morenti del sole fra le colonne, arricciò le labbra riducendola a un bocciolo e, infine, sorrise all’altro.
– Enath – La sua voce melodica nascondeva un sibilo, simile a quello di un serpente a sonagli.
– Che cosa fai qui? – domandò Enath.
– Come ho detto, mio caro, i piani sono cambiati. Non gli interessa più avere le profezie. –
Enath inarcò un sopracciglio. Ciò era molto strano. Il Maestro desiderava le profezie custodite a Tanisdhor da molto tempo, non aveva forse già tentato di impadronirsene anni fa quando a sedere sul trono era la vecchia veggente e non quella sciocca ragazzina? Lanciò un’occhiata di sottecchi alla giovane a terra. Il lungo abito bianco le risaliva scomposto sino a metà coscia, era riversa su un fianco, le mani legate da forze invisibili dietro alla schiena e gli occhi sgranati che correvano alternativamente da lui ai nuovi arrivati. Enath tornò a rivolgere la propria attenzione a Aelyssa, le cui parole fugarono ogni dubbio.
– O sarebbe meglio dire che non gli bastano più. Lui vuole Tanishdor. Dunque, ha inviato me affinché mi occupi della situazione nel sud
Certo, perché avere le profezie quando poteva avere l’intera città e il controllo del sud di Leyra? Tanisdhor e la millenaria fonte di conoscenza che custodiva erano tasselli fondamentali se il Gran Maestro desiderava mettere fine al Grande Ciclo. Una volta liberato il Fato qualcuno avrebbe dovuto governare il sud in sua vece.
Enath rilassò i muscoli e abbandonò la presa sul Soffio, tuttavia continuò a sfiorare con le dita affusolate il pomo della spada che portava al fianco. Se il Maestro aveva deciso così, allora non vi era nulla da aggiungere. Represse dunque un verso stizzito, ma non poté fare a meno di rivolgere un’occhiata sprezzante agli uomini. Quelli erano suoi sottoposti a cui aveva esplicitamente ordinato di attenderlo altrove. Il suo nervosismo aumentò quando incontrò lo sguardo di uno di essi, Mandrul. L'uomo, originario della costa di Siteya, non gli era mai piaciuto. Atteggiamento arrogante, aria di superiorità e sempre pronto a mettere in discussione i suoi ordini. Una cosa che Enath detestava. Arricciò il naso. Il suo puzzo di sudore e spezie stantie del Comune era particolarmente pungente. Enath era certo che fosse stata unicamente la brama di potere a spingere Mandrul a unirsi alla causa dell’Ordine del Tempo del Non Ritorno. ¶
Il flusso dei suoi pensieri fu di nuovo spezzato da Aelyssa con la stessa velocità con cui un sassolino infrange un specchio d’acqua.
–Sei stato leggero con la ragazzina –, osservò la donna.
Il suono metallico di una lama tagliò l’aria. Enath si voltò di scatto verso Mandrul lanciandogli uno sguardo di verde odio. Quell’uomo prendeva fin troppe iniziative e non perdeva occasione di mettersi in mostra con l’altra nella speranza di ottenerne il favore. Perché, ovviamente, da lui non avrebbe ottenuto nulla. Il disprezzo fra loro era reciproco e per Enath non era un mistero che l’altro ambisse a una posizione elevata.
Aelyssa emise una risata. –Oh no, non è necessario ucciderla. –Ondeggiò verso la veggente.
La giovane si stava ancora dimenando e nonostante il grumo d’aria a bloccare le grida mute i suoi occhi parlavano chiaro. Era terrorizzata e non si poteva di certo biasimarla.
Aelyssa si chinò su di lei e le prese il viso fra le mani. Dopo pochi secondi la lasciò con noncuranza e, volteggiando nel suo elegante abito scarlatto, si sedette sul trono con la disinvoltura di una regina, le gambe accavallate e la schiena dritta. Distese le braccia, afferrò le teste leonine che decoravano i braccioli del trono e osservò la sala dalla sua nuova e privilegiata prospettiva. Sorrise compiaciuta e, infine, con un gesto annoiato della mano, disse: –chiudetela nelle segrete, lei e il suo dono possono esserci utili.
***
Enath procedette lungo il corridoio a pugni stretti e denti serrati. La missione era stata un successo, eppure egli non riusciva a trovarne alcun giovamento. Era profondamente irritato: dai colpi di testa di Mandurl e dagli atteggiamenti di Aelyssa.
–Credevo di essere stato chiaro quando avevo detto che la vostra presenza non era necessaria –, sbottò alla fine.¶
–E lasciare a te tutto il divertimento?– fece Mandrul in sogghignò.
–E’ questo che credi? Che siamo qui per divertirci? –
Possibile che solo lui prendesse realmente sul serio il ruolo che erano stati chiamati a giocare? Pareva che gli altri fossero unicamenti intenti a dilettarsi in vuoti e inutili passatempi. Aelyssa poteva essere compiaciuta d’aver ottenuto il dominio del sud con estrema facilità, ma in fondo non era che uno stato momentaneo delle cose.
–Lei ci ha ordinato di venire.–
Poteva ben immaginare perché e doveva trattarsi dello stesso motivo per cui lei l'aveva canzonato poc’anzi, sul suo esserci andato leggero. Leggero...sono solo più lucido, pensò in una smorfia sprezzante.
Fece per ribattere, ma si arrestò di colpo. Annusò l’aria e un odore ferroso gli giunse alle narici che si dilatarono e fremettero.
Sangue, pensò.
Una patina gelida gli scivolò sulla pelle e corrugò la fronte. Procedette a passi lenti lungo il corridoio sondando la penombra; dietro di lui il rumore degli stivali dei suoi sottoposti risuonava fastidioso, inoltre era certo che con un sorriso divertito si fosse appena delineato sul volto di Mandrul. Enath represse un ringhio. Qualunque cosa fosse accaduta in quel corridoio era indubbiamente opera dell’irritante Comune. Aumentò l’andatura e si fermò non appena l’odore gli pizzicò l’olfatto con maggiore intensità. Pochi metri davanti a lui, riverso in una posa innaturale, giaceva un corpo immobile sotto il quale si allargava una pozza di sangue. Si avvicinò cauto e si chinò su di esso. Era uno dei bibliotecari. Gli abiti immacolati erano chiazzati da macchie scarlatte, il viso sprofondato fra le braccia scomposte davanti a sé e i capelli castani incrostati di sangue appiccicoso. Era chiaramente morto, ma Enath non poté fare a meno di accostare due dita al collo del fanciullo. Le ritirò con un movimento astioso e strinse la mano a pugno sino a farsi sbiancare le nocche, infine, lentamente s’alzò dritto come un fuso. Era furioso. Furioso e disgustato. Strinse i pugni con più forza, invocò il Soffio e respirò piano, sprofondando in una bolla di quiete. Il corridoio intorno a lui, i suoni e le immagini divennero ovattati, poi la sua anima si espanse e le sue percezioni si acuirono. Un globo di luce verdastra vorticò dietro di lui per poi sfilacciarsi in un groviglio di filamenti lattiginosi, ribollì, si contorse, si ingigantì e infine si aprì in due grandi ali piumate assumendo l’aspetto di un’aquila. Emise un grido che risuonò acuto e muto lungo il corridoio e con uno scatto d’ali si lanciò contro Mandrul. Gettato a terra, l’uomo si dimenò sul pavimento sotto i volti attoniti del resto del seguito; la mole dell'aquila di pura aria, benché apparentemente inconsistente, pesava su di lui soffocando rantoli e ringhi. Le ali sbattevano all’impazzata disperdendo piume inconsistenti che svanivano nel nulla come fumo, ma il becco acuminato del volatile non ebbe alcuna pietà. Affondò come un pugnale nell’occhio sinistro dell’uomo, più e più volte, strappandogli maledizioni mentre rivoli di sangue gli scorrevano lungo la tempia. L’aquila alzò fiera il becco tinto di rosso donando una macabra e corporea consistenza alla sua figura e, infine, a dispetto della materialità che aveva desiderato ostentare, si dissolse.
Mandrul si rialzò barcollante puntellandosi sui gomiti e alle pareti, una mano insanguinata premuta sull’occhio sinistro che non era più, il viso deformato in una smorfia sfregiata che stillava veleno e odio.
Senza voltarsi, Enath seguì con la coda dell’occhio il bulbo oculare dell’altro rotolare sul pavimento. –Ripulisci ciò che hai fatto. – L’angolo destro delle sue labbra si incarnò in un sorrisetto bieco. –La prossima volta non ci andrò così leggero.
Indurì lo sguardo smeraldo come se nulla potesse scalfirlo e con un gesto elegante della mano fendette l’aria che si squarciò davanti a lui rivelando le dune di un deserto immerso nelle luci blu e violette della sera; le stelle adamantine ammiccanti sopra di esso. Vi balzò dentro e si lasciò risucchiare.
I suoi stivali atterrarono su un suolo roccioso, sotto di lui un mare di dune sferzate da un vento caldo. Enath respirò a pieni polmoni i profumi del deserto e la sua mente divenne più leggera. Che Mandrul si godesse pure i suoi colpi di testa e Aelyssa il suo nuovo regno. Abbracciò l’orizzonte osservando rapito le dune del Kirseth circonfuse dalle ultime luci rosa e violette del giorno morente. Il cielo sopra di esse era di un brillante blu viola, liscio come velluto e profondo come l’oceano. Grappoli di stelle giocavano come i riverberi del sole su un ruscello cristallino, le tre lune brillavano perlacee e quella centrale, l’unica piena, sembrava voler oscurare le altre più piccole e bitorzolute.
Enath era sempre stato affascinato dalle luci del crepuscolo, così piene di sfumature indefinite. Cremisi e avvolgenti come i petali di una rosa, indaco e viola come il più affascinante dei misteri. Talvolta non erano che un preludio a notti nere e brillanti come ossidiana. Enath vi affondò lo sguardo e per pochi istanti ne fu risucchiato. Le stelle danzavano in cielo e ciò significava che i tempi erano prossimi all’essere maturi. Se l’Ordine desiderava mettere fine al Ciclo non avevano tempo da perdere, c’erano ancora troppi tasselli da mettere al loro posto, e allora, solo allora, avrebbero potuto liberare il Fato.
Il tempo del Ritorno era prossimo e dovevano farsi trovare pronti per affrontarlo.
Il Maestro l’aveva chiamato a giocare un ruolo fondamentale, era stato il destino a porlo sulla sua strada ed Enath non aveva alcuna intenzione di sottrarsi ai suoi doveri. Era stato scelto come Esarca e benché a lui non spettasse il governo di alcun luogo di Leyra aveva dei compiti fondamentali al fine di aprire la strada all’Era del Fato. Rivolse un’ultima fugace occhiata alle stelle. Solo il tempo di una breve dormita e poi avrebbe fatto ritorno dal suo Maestro.