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Autore: Cladzky    07/03/2023    1 recensioni
Un gruppo di restauratori d'arte si immerge in un'antica cattedrale tedesca nel mezzo della Foresta Nera, in Baviera. Troveranno dei resti che lasciano supporre una religione non proprio cristiana e una statua che non è solo un simbolo, ma agente della storia. Purtroppo per loro rimarranno più tempo del previsto chiusi lì dentro da qualcuno che non gli ha detto tutta la verità.
Genere: Fantasy, Mistero, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’edificio appariva fatiscente. Non diroccato, ma coperto di quella polvere che ci si aspetterebbe da una chiesetta di paese, dove la preservazione storica non era mai stato un problema e ogni generazione aveva coperto i danni del tempo con lo stucco, insieme agli affreschi originali anneriti dagli incensi e le candele. Eppure aveva una grandezza di tutto rispetto, nonostante si trovasse in mezzo al nulla, su un altopiano coperto di abeti della Foresta Nera, isolata quanto il Partenone, ma ancora in piedi, benché nessuno vi mettesse piede dal dopoguerra. Già mettendo il primo passo sull’uscio dell’antica cattedrale un gruppo di pipistrelli si precipitò fuori dai portoni lasciati socchiusi e questi ultimi erano fermi da abbastanza tempo che i loro cardini si erano incrostati. Il nostro gruppo si tirò indietro, incerti se proseguire raggelati nella nostra paura infantile che trasformava qualunque animale potesse essere annidato lì dentro in un demone da capitello medievale. Prendemmo tempo osservando la facciata, grezza e coperta di muffa, abbastanza alta da sfiorare le cime degli alberi inariditi. Doveva risalire al periodo romanico a giudicare dal tetto a capanna e quel rosone centrale dai vetri offuscati. Non erano rimasti bassorilievi leggibili, eccetto dei motivetti floreali erosi, ma ancora reggevano i lati dell’ingresso sei figure, divise egualmente. Coi visi lunghi come colonne, le cariatidi era vestite di tuniche fino ai piedi che parevano sacchi tanto erano modesti e i loro occhi erano sgranati, le loro pupille piccole, le loro dritta tese e così i nervi del dorso della mano che stringevano i loro libri. 

Matthias, Mark, Lukas e Johann. Così leggevano le pagine dei primi quattro, in caratteri Fraktur. Era prevedibile ritrovarsi davanti i quattro evangelisti a preannunciare un santuario cristiano, ma le figure rimanenti, corniciate d’una barba canuta e addobbate come sacerdoti del sinedrio ebraico, con tanto di turbante e fascia intrecciata sul petto, si presentavano come Enoch ed Hesekiel. Cosa collegasse questi due ai primi tanto da metterli sullo stesso piano non era chiaro teologicamente parlando. Ezechiele non era certo il profeta più popolare per quanto riguardava la venuta messianica, troppo legato com'era ad Israele, ed Enoch era un nome relegato in un breve paragrafo confuso di raccordo tra Adamo a Noè.

La risposta stava scritta davanti a noi in caratteri illeggibili. Com'era tipico, prima della riforma Luterana, le loro pagine scalpellate recavano passaggi in latino ecclesiastico e nessuno di noi era in grado di interpretarle. Questo era solo uno dei tanti misteri che aveva portato più volte, nel corso dei secoli, all'abbandono di questo tempio romanico. Nessun ramo, nonostante i lustri di disuso, osava sfiorare le pareti incolori dei muri ed anzi, scheletri di corteccia si ergevano a ingabbiare la chiesa come la gabbia d'un toro. La vita, florida, riprendeva appena fuori dal circolo maliardo, ma appena un passo oltre e sembrava di trovarsi su Plutone. Studiando i registri, nessun prete aveva risieduto nella canonica affiancata l'edificio pure nei suoi giorni di massimo adopero da parte della popolazione vicina, perché si diceva che i primi che l'avessero tentato, in quei giorni lontani del tredicesimo secolo, avessero visto crescersi addosso dei bubboni da peste o invecchiare prima del tempo e chi persisteva con fede ad abitarla fosse morto aprendosi come una noce, rilasciando dalle sue carni un marciume di parassiti che lo infestavano. Queste leggende popolari, pur nella loro assurdità grottesca, ci stavano condizionando, noi che fino a quel mattino ridevamo di esse, forti della nostra conoscenza.

Per tutta l'area gravava un puzzo di bruciato appena tangibile. Certamente, mettendo insieme tutti questi dettagli, non era difficile capire perché il luogo fosse soprannominato la bocca dell'inferno e che la monolitica chiesa fosse stata posta a chiuderla in tempi ancora più antichi della sua attuale costruzione. Rumori di rami spezzati ci fece sussultare, ma non si trattava di un krampus, bensì del nostro professor Lidenbrock. Come ci sentimmo sollevati a vedere un uomo di lettere come lui averci finalmente raggiunto dopo il ritardo del treno. Ci aveva scongiurati di partire pure senza di lui e che ci avrebbe raggiunto più tardi pur di non turbare la spedizione e il suo viaggio solitario in quella foresta maledetta ci fece vergognare della nostra sciocca superstizione. Macché bocca dell'inferno! Chiaramente dovevamo teovarci sopra un deposito

Con un portamento identico a quello delle accigliate cariatidi, si fece guidare sino a quest'ultime, così da poter dare un nome all'orrore sconosciuto che ci atterriva. Sollevò il dito magro a indicare i primi quattro e lesse dalle loro pagine di pietra, cominciando da Matteo:

"Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture né la potenza di Dio. Resuscitando si è come gli angeli."

"Non vi spaventate! Voi cercate Gesù il Nazareno che è stato crocifisso; egli è risuscitato; eccolo qui; ecco il luogo dove l'hanno messo."

"Guardate le mie mani e i miei piedi, perché sono proprio io; toccatemi e guardate; perché un fantasma non ha carne e ossa come vedete che ho io."

"Porgi qua il dito e vedi le mie mani; porgi la mano e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma credente."

Tutti i passaggi ponevano l'accento sulla resurrezione delle carni, fonte innumerevole di scismi nei primi secoli dopo cristo. C'era qualcosa di strano che turbava in una smorfia l'espressione del nostro professore. Non poteva dirlo con certezza, ma il testo sembrava divergere dall'interpretazione originaria. Ma non era sorprendente, molte traduzioni dall'ebraico e dal greco si erano susseguite nei secoli, una più corretta o meno dell'altra. La Bibbia da cui attingeva l'artista doveva essere una copia anomala nei suoi tempi verbali. Gli ultimi due attese a leggerli, sbigottito quanto noi che Ezechiele ed Enoch avessero trovato posto nonostante la loro marginalità. Lesse il primo con reverenza, riconoscendo la rivelazione a cui i quattro, anacronisticamente, sembravano annunciare:

"Sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l'una all'altra, ciascuna al suo corrispondente. Guardai ed ecco sopra di esse i nervi, la carne cresceva e la pelle le ricopriva."

La visione delle ossa aride riportate in vita era certamente il più celebre passaggio del profeta, da cui molti avevano attinto per comprovare le loro teoria di escatologia. Tentennando nella confusione lesse ora il progenitore Enoch:

"E in quei giorni la terra darà indietro ciò che vi è sepolto. Così faranno Sheol e l'inferno. Perché in quei giorni l'eletto si eleverà."

Ora capimmo la sua confusione. Nulla di tutto ciò era parte del dogma cristiano. Questo pezzo era tratto dalle parabole di Enoch, libro apocrifo. Non era la prima volta che fonti non autorizzate da Roma saltassero fuori nelle chiese. Giotto si era ispirato al Protovangelo di Giacomo per stilare la storia di Maria. In una località  così remota non c'era da sorprendersi che le tradizioni divergessero dal pensiero di regime al punto da divenire tribali. Bastava guardare come si fosse evoluto il cristianesimo etiope, separato com'era dall'Europa e i suoi miti sul destino dell'Arca dell'Alleanza e la regina di Saba.

Non c'era altro da fare. Sotto le orbite vuote delle statue entrammo. Con mani delicate tentammo di muovere il portone ma dava certi scricchiolii da farci credere si sarebbe divelto, dunque fummo costretti a strisciare in mezzo le due ante ammuffite. L'odore acre si fece più forte. Avanzammo ancora fino ad essere tutti dentro. Una penombra inchiostrava una inusuale anticamera semivuota. Un'ombra stava di fronte a noi. Con sgomento la illuminammo delle nostre torce e quanto urlammo nel vedere un bulbo oculare studiarci di rimando. Ma l'essere non si muoveva. Accalcandoci all'uscita abbassammo i fasci, mostrando il suo corpo rossastro e la matassa delle sue forme. Non riuscivamo neppure a comprendere che diavolo fosse e il terrore non ci mollava le gole.

Come in risposta il sole trapassò finalmente le nubi scure e il rosone si accese, illuminando dell'aurea arancia del tramonto tutto la sala. Su un piedistallo di legno finemente tagliato in scanalature, stava una statua incompleta nel più sincero senso della parola. Peggio di uno scorticato, se ne stava braccia sui fianchi, palmi verso lo spettatore come un corpo disteso da dissezionare, senza alcuna pelle addosso. Quell'occhio che ci scrutava, rilucente di perla, era l'unico che aveva; l'altro mancava, in un'orbita colma di capillari che si arrampicavano come edera su tutto il teschio. Appena sotto questo saliva la carotide fin dentro il cervello e scendeva la giugulare ad un cuore così gonfio che mancava solo di pulsare. Incastonata fra le due sacche dei polmoni color manzo, l'aorta si diffondeva come una ragnatela per tutto il busto e gli arti, stringendo nella sua morsa le ossa giallastre. Alla base, in una targa di bronzo sorprendentemente lucida, era inciso:

"ECCE DOMINE. CHRISTUM REUELATUM"

Che meraviglia d'anatomia! Era dunque questo il famoso reperto che stavamo cercando. Si favoleggiava d'un cristo ridotto come San Bartolomeo, ma il novello Marsia era messo pure peggio del suo epigono. A questo non mancava solo la pelle, ma pure gran parte degli organi risiedenti dal diaframma in giù, per non parlare di una muscolatura scomparsa, consentendo una trasparenza che finiva nel muro alle sue spalle. Questo orrendo gula era tutto fuorché l'amichevole maestro, vestito di luce, appena sbucato dal sepolcro, seppure rassomigliasse molto di più un cadavere comparato ad altre interpretazioni convenzionali. Il passare degli anni gli aveva portato via la gamba sinistra dall'iliaco in giù, eppure, quel monopoda, non dava segni di squilibrio, perché la struttura di quell'arto era molto più sviluppata del resto del corpo, quasi fosse un'eventualità prevista. Qui risiedevano i muscoli, dal tibiale al gastrocnemio, fino ai tendini che scendevano a separarsi nelle singole dita, tutto scolpito non come il polpaccio d'un uomo comune, ma una colonna portante. Ricordava quella descrizione poetica del leggendario bĕhēmōth, dal libro di Giobbe.

"Come un cedro, i nervi delle sue cosce s'intrecciano saldi. Le sue vertebre, tubi di bronzo, la sua cartilagine, lastre di ferro."

Non vi era firma d'artista. Fantasiose attribuzioni la collegavano alla mano raffinata del grande Tilman Riemenschneider, ma sarebbe grossolano ricondurre ogni buona statua tedesca a lui. In più non pareva il lavoro di un incisore del legno e a dir la verità non si capiva che razza di materiale la componesse. Doveva certamente essere più recente della chiesa, perché non poteva essere frutto di un'epoca che sconfessava la dissezione dei cadaveri e accettava Galeno: quella rete da pescatore di vasi sanguigni era stata scolpita da chi voleva dichiarare il suo amore per Vesalio e rivaleggiare con le macchine anatomiche di Napoli. Fuori dai canoni gotici di eleganza, oltre pure il manierismo, era fuori luogo in un ambiente spirituale quale eravamo, eppure era stata posta come prima attrazione per i visitatori. Forse, i versi gridatici dalle statue, si riferivano a questo: mettere in primo piano la venuta di cristo in carne e ossa, perfettamente concreto anche ai più duri di comprendonio.

Dall'anticamera si aprivano due portali ai lati della statua. Il resto della cattedrale si dimostrò vasto ma scarno, come fosse stato derubato. I ragni avevano invaso ogni angolo del soffitto e le loro tele cadevano come veli sui candelabri d'ottone che avevano perso ogni riflesso. Le panche erano disposte alla rinfusa per la navata e mangiate dalle tarme. Quadri dalle pitture cangianti erano caduti in terra e sulle tele si formavano croste. L'altare scolpito presentava una tovaglia irrigidita e una fiala di vino ancora inviolata ma dall'aspetto nero come aceto e denso. Giravamo come fantasmi increduli. I nostri passi si trascinavano incerti nel nostro studio e un moto di delirio si abbatté su di me. Non riuscivo a focalizzare gli occhi sulle piastrelle del pavimento senza vedere le linee intrecciarsi e pulsare. Chiesi supporto a uno dei miei colleghi. Avevamo passato tutte le ore del viaggio, in treno e a piedi, a discutere di locali giù a Monaco, dei nostri studi, dei nostri libri, ma ora mi scacciava quasi prendendomi a schiaffi, accusando un forte mal di testa. Vagai sotto una cappella laterale, dove un'icona, la cui foglia d'oro era coperta di polvere, sedeva su un altare dal pizzo lacerato. Inciampai in qualcosa che gemette. Era un altro della spedizione, accasciato a una ringhiera di ferro battuto come a venirne strappato via. Lo scossi. Uggiolava vertigini e una nausea che dimostrò vomitandomi sulle scarpe l'impasto giallastro del suo pranzo. Chiamai aiuto e lo mettemmo sdraiato nel mezzo della navata centrale con uno zaino a fargli da cuscino. Restava lì, muovendosi appena come a contorcersi nella sostanza malaticcia che lo ricopriva.

Da quanto tempo vagavamo per quella caverna? La luce azzurrina che trafiggeva le finestre si era fatta fioca. Forse erano tornate le nuvole o erano passate le ore. Mi resi conto di essere uno di quelli che stavano meglio fra noi. Il malessere ci aveva colti tutti, chi prima chi meno. Le leggende dovevano essere basate su qualcosa di vero. Uno suggerì che ci trovassimo sopra una bolla di gas naturale e che la costruzione medievale fosse un rozzo tentativo di chiudere il problema, fino a quando le esalazioni non trovarono un altro sbocco e ora uccidessero di nuovo l'aria circostante. Questo spiegava la desertificazione circostante, il nostro malessere, ma non l'odore. Il metano è famosamente inodore, al di fuori di quello distribuito commercialmente con tioli aggiunti. Anzi, se la concentrazione era tanto alta nell'aria, perché non siamo esplosi sulla soglia, quando alcuni si erano permessi una sigaretta? Perché la chiesa era in piedi dopo tutte i lumi accesi fino a questo secolo? Obiezioni che mossi e furono trovate soddisfacenti, ma certo era che qualcosa ci stava facendo del male e dovevamo uscire. Fino ad allora avevamo sopportato, credendolo solo un cambio di pressione dovuto all'altitudine, o forse all'aria viziata di una chiesa rimasta chiusa da più di quarant'anni e le decorazioni erano tanto affascinanti nella loro vivacità gotica da risultare ipnotiche nei loro tralicci e motivetti.

Sollevammo il nostro caduto e ci dirigemmo per l'anticamera, ma era più buia di prima. Il portone era chiuso. Stringendo le maniglie d'ottone arrugginite, tirammo senza riguardo per i cardini mai oliati, eppure qualcosa bloccava i nostri sforzi. Infilando l'occhio in mezzo le due ante secolari, si vedeva una striscia orizzontale bloccare il paesaggio. Qualcuno aveva posto una trave come chiavistello all'ingresso. Sbattemmo con furia a chiunque potesse averci giocato un tiro del genere. Eppure eravamo soli in tutta la zona. Chi poteva averci seguito senza essere notato? Contammo chi poteva mancare. C'eravamo tutti ma non Lidenbrock! Possibile che lui proprio che aveva indetto l'escursione ci avesse chiusi dentro? E perché diavolo una chiesa, simbolo di asilo e rifugio, aveva un chiavistello esterno? La statua del cristo malnato scrutava i nostri sforzi col suo occhio di perla.

Qualcuno non era convinto che proprio il professore fosse il responsabile. Forse era rimasto indietro a studiare una reliquia peculiare o ancora caduto ammalato come il nostro compagno. Stanchi di tirare, convinti che fosse impossibile anche con venti braccia spezzare quel blocco, procedemmo a cercare un'altra uscita. La chiesa doveva comunicare con la casa canonica lì di fianco. Raggiungemmo l'altare, lasciando qualcuno ad assistere il malato incapace di muoversi. Il bancone di marmo era la sede di un tabernacolo in oro spalancato. Distratto ci scrutai dentro. Nell'ombra più scura qualcosa brillava. Infilai la mano attratto e tastai qualcosa di freddo, metallico. Strinsi la presa e mi tagliai sul filo di una lama mossa in avanti. Tirai fuori il palmo rigato dal sangue e lo osservai incantato sgocciolare gravemente nel calice liturgico. Dentro quella scatola stava una trappola d'argento al posto dell'ostia consacrata.

Gli altri erano proceduti e mi incitavano a raggiungerli. Per una porta laterale dell'abside si finiva nella sagrestia. In un'ambiente ancora più buio dovuto alla presenza di una piccola, misera finestra, ci si sentiva nella taverna dipinta dal Caravaggio. Brancolando nel buio, accendemmo le nostre torce e le puntammo sopra i grandi armadi d'abete. Là dentro, a giudicare dall'odore, dovevano trovarsi le vecchie tonache. Una porticina era giusto lì accanto e vi ci avventammo sopra. Spingendo e tirando non si schiodava. Doveva pur esserci una chiave o qualsiasi cosa potesse aiutarci a forzare l'uscita. Nella nostra ricerca esplorammo i cassettoni trovando solo libri di canti, calendari liturgici, registri di battesimo, pissidi gemmate, fasce sacerdotali mangiate dalle tarme, vino da messa ancora sigillato, anelli vescovili, pastorali decorate da foglie di rame, crocifissi a cera persa, candele rosse ritorte come colonne di marmo, acciarini, ostie così ben chiuse che ancora sembravano commestibili, calici, boccette per la comunione, cofanetti di mirra e gonfaloni sacri con punta di lancia. E là, in un angolo, un telo bianco copriva qualcosa che avevamo paura di scoprire, ma lo facemmo ugualmente. Preso un lembo, tirai forte. Due volti scavati all'osso ci sorrisero. Due cadaveri giacevano persi al muro, l'uno sopra l'altro. La penombra ci impedì di vedere i dettagli di quei ventri svuotati, ma la mente presto vagò fino alle leggende sopracitate di maledizioni. Stavamo venendo mangiati vivi.

La finestra! Gridò il più motivato di noi in un moto disperato, che non sembrava risentire del ritardo che ci affliggeva. Preso un incensiere per la catena si diresse al vetro e lo sferzò come un mazzafrusto contro il pertugio, spezzandone l'intelaiatura prima ancora del vetro sporco. Quel buco così piccolo ora sfavillava come il sole pomeridiano che ci attendeva fuori. Presosi il tempo di strappare i cocci dagli infissi, con un balzo si issò agli stipiti e cercò di strisciare fuori. Era stretto, solo un bambino ci sarebbe potuto strisciare, ma ciò non gli impedì di gridare di gioia a sentire l'aria aperta e il calore del sole, sporto con mezza spalla fuori. Lo incitavamo e spingevamo a scendere oltre, ma il nostro tifo fu presto soprresso dall'urlo d'orrore del nostro compagno. Indietro, diceva, fatemi entrare, ci pregava, non spingete che arriva. Chiunque lo faceva strillare in quel modo lo fece anche smettere con un tonfo sordo. Un'ombra nera si abbatté sulla sua cervice, spezzandogli il collo come un ramo secco. Senza resistenza, il corpo esanime, ricadde nella sagrestia con un'espressione da capriolo colto fra i fanali, tremava scosso da convulsioni ma incapace di muovere le braccia raggomitolate al petto. Si capiva che sarebbe morto pur senza guardare la macchia scura che si allargava dietro la nuca.

Con quanta fretta ci ritirammo dalla finestra spintonandoci a vicenda. Qualcuno pensò di tirare indietro il corpo immobile del compagno, assicurandosi così involontariamente di ucciderlo se già il trauma non l'aveva seccato sul colpo. Lidenbrock non si trovava ancora e maledicemmo il suo nome, certi della sua colpevolezza. Il terrore mi aveva ghermito o forse la malattia stava scendendo nella sua fase terminale, perché non riuscivo più a muovermi. Mi scossero per scappare ma sentivo lontane le loro voci. Solo una volta che fui lasciato solo a guardare quel mio conoscente morto che ebbi come un'accettazione. Con tutta calma mi diressi a quei registri che avevamo scartato per terra e lo tirai su. Erano le memorie del vecchio parroco, datate per l'inizio al 1946. Confrontando il documento con gli altri non potevo trovarne nessuno, fra battesimi e matrimoni, che andasse oltre quella data. Aprii con cautela le pagine curvate. In una scrittura elegante e corsiva, in un dialetto bavarese che non si parlava più, stavano stilate le sue osservazioni in ordine cronologico.

Annotazioni sugli strani costumi popolari osservati nell'antica cattedrale del Risorto riportati da chi scrive, il presbitero Hansjoachim Ziegler, da porre sotto l'attenzione di sua eminenza il vescovo Nikolaus della diocesi di Stoccarda.

E proseguiva. Io pure, fuori dalla stanza. I miei compari tentavano di scappare dai finestroni della navata, ammu  hiandi qualunque cosa potesse fungere da scalinata. Non li aiutai, non tanto per mancanza di forze, dato che pure il malato si era alzato a spingere le panche, ma per un senso di arrendevolezza. Proseguii la lettura in mezzo agli insulti dei compagni che mi appellavano come lavativo e ritardato.

Pare che la chiesa fosse registrata abbandonata da molte generazioni e che tale prete fosse stato incaricato di eseguire un sopralluogo per verificarne un possibile riutilizzo. Quando raggiunse il posto in cima ai colli, in mezzo alla selva, trovò invece una messa già in corso a giudicare dai rumori. Spinse la porta, si ritrovò davanti lo scorticato di Nazareth e, comprensibilmente confuso, si sporse a un portale per la navata a spiare la funzione. A quell'altare cui io stesso mi appoggiavo ora, una fila di locali si apprestava per l'eucaristia. Invece di ricevere il corpo offerto in sacrificio, sacrificavano loro il proprio, tagliandosi a quello stesso meccanismo cui io pure avevo avuto modo di provarne il continuo funzionamento nonostante il passaggio dei lustri. Il povero presbitero Ziegler, in abiti borghesi, fu preso e costretto a partecipare e sotto la celebrazione di colui che si faceva chiamare il diacono Hans, versò il suo sangue insieme a quello degli altri. Preso il calice, il celebrante, condusse in processione tutti nell'anticamera. Qui, ai piedi del cristo svelato, tutti si genoflettevano e, in silenzio, versavano il contenuto sulla base della statua. Solo allora ritrovò la parola e gridò di essere un prete. Sorprendentemente tanto bastò a far cessare ogni costrizione precedente. Partirono presto le scuse. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che avevano visto un prete, uno vero s'intende! Isolati dal resto della diocesi, quei montanari, avevano da generazioni fatto da sé nel soddisfare la ricerca di spiritualità tradizionale tanto indispensabile a tenere unita la comunità. Il finto diacono, tale Hans, che aveva un aspetto grottesco quanto le cariatidi della facciata, si propose di illustrargli la loro religione di modo da sapere se stavano facendo bene. Ziegler scoprì così che avevano infranto ogni articolo del diritto canonico nel loro rievocare memorie lontane dei loro avi cattolici. Niente di questo spiegava ciò che ci stava accadendo, ma avevo il sospetto che fosse collegato ad ogni modo. Le memorie andavano avanti ma lessi distrattamente. Il nome di Hans compariva in quasi ogni pagina, fino all'ultima, dove mi fermai. La grafia aveva perso tutta l'eleganza che la cottrandistingueva. In grossi vocaboli e macchie d'inchiostro, stava scritto:

"HANS NON MENTIVA. SI CIBA DI ME. ORA HA UNA GAMBA. SE AVESSE ANCHE L'ALTRA…"

E lì si fermava. Un brivido mi corse fra le spalle. I miei occhi corsero ovunque e ovunque trovavano muri di pietra. Stavo impazzendo. I dipinti, la mia materia di studi, certo mi avrebbero tenuto la mente occupata. Lì, nel transetto di destra, appeso sopra il confessionale, stava un quadro ad olio grezzo nelle proporzioni ma leggibile. Un cardinale, fatto beato, passava in visita al suo paese natale nel lontano millecinquecentottantasette e forse fu l'ultimo anno che la chiesa romana avesse in nota questo posto dimenticato da dio. Ma lì, il punto di fuoco, non era il cardinale che reggeva una coppa rossa, né la gente, bensì la statua del cristo, sotto cui una didascalia recitava

"Il grande miracolo insegnato alla nostra gente. Il tributo per non soffrire. Il sangue per la vita."

Ma la statua era curiosa. Lontana dalla perfezione anatomica attuale, non solo per le scarse capacità di resa del pittore, ma pure nella figura. Non stava in piedi, era solo un mezzobusto con un braccio in segno di benedizione. Che l'avessero rimodellata decenni dopo? Basta, basta, dovevo vedere! Quella maledetta statua è la causa di tutto, Ziegler lo sapeva e Hans era il suo Lidenbrock! Corsi fuori nell'anticamera. Dio, quanto faceva paura! Così velata di tenebra, le vene saltavano fuori nella polvere svolazzante come coltelli alle luce della sera. Il suo occhio di perla era perfettamente sferico e sgranato. Il suo collo, troppo lungo, teso nello sforzo di reggersi. Quelle mani, mezze chiuse ad ghermire l'aria, la mascella serrata di trentatrè denti, le spalle larghe, il costato appuntito, non era umano del tutto. Osservai la gamba sinistra o dove sarebbe dovuta essere nel suo vuoto. Là, dove sarebbe dovuto poggiare il tallone, cresceva l'erba. Un'erba curiosa, un'erba scura, un'erba senza foglie, di soli viticci, non di steli o spicchi, solo tubiferi rossicci e bluastri, avvighiati fra loro, a puntare verso l'alto…

Gesù cristo, ma quella non era una statua…


   
 
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