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Autore: muffin12    09/03/2023    1 recensioni
Chuuya NON parlava di Dazai. No, nella maniera più assoluta.
Se non in determinati posti, avvenimenti, situazioni e ... beh, comunque non SEMPRE!
5 volte in cui Chuuya si è ubriacato e ha parlato di Dazai e una volta che non l'ha fatto (quasi)
Ship: Dazai/Chuuya
________________________
Contiene riferimenti alla Novel Storm Bringer, manga e anime.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti!
È la prima volta che scrivo di questo fandom e sono terrorizzata!
Se non fosse stato per LorasWeasley non ci sarei mai entrata, ma eccomi qua dopo aver praticamente perso la testa come non mi succedeva da parecchio per un manga! Ed è TUTTA COLPA (merito) SUA! Perché ora non riesco a togliermeli dal cervello!
Spero che vi divertiate a leggere questa storia come mi sono divertita io a scriverla (imprecazioni e maledizioni a parte che accompagnano la creazione di ogni mia storia)!
Grazie mille e buona lettura!
 
 
 
Always you (but only when I’m drunk)
Oppure
5 volte in cui Chuuya si è ubriacato e ha parlato di Dazai e 1 volta che non l’ha fatto (quasi).
 
 
1.
 
“… Il suo cane! Il suo fottutissimo cane e se ne va in giro con quella faccia di merda compiaciuta che AAARGH! Mi prudono le mani, voglio smontarla pezzo per pezzo!”
 
“Da quant’è che non si vedono?”
 
La domanda di Albatross era divertita e decisamente oziosa. Una risposta naturale ad una ripetizione che andava ormai avanti da parecchio tempo e a cui Iceman, sinceramente, non dava più seguito da quando avvertì i primissimi versi gracchianti e senza senso.
 
Forse era stato un errore permettere a Chuuya di assaggiare dell’alcool.
 
Forse era stato un errore non abbatterlo immediatamente nel momento in cui cominciò a sbraitare in quel modo, ma non avevano alcun metro di giudizio per una situazione del genere.
 
Scoprire che Chuuya, da sobrio, non avrebbe voluto sentire il nome di Dazai nemmeno per sbaglio e che invece, stordito dall’alcool, non riusciva a tenere la bocca chiusa su qualsiasi cosa lo riguardasse – negativa ovviamente -, li aveva dapprima sorpresi.
 
In un secondo breve momento, invece, arrivò l’accettazione e attesero semplicemente che l’intera situazione finisse da sola.
 
In uno sprazzo di gentilezza non richiesta, Piano Man aveva provato a togliere il bicchiere dalle dita distruttive del loro membro più giovane dopo il primo minuto di contemplazione ringhiata contro bende e pesci e quasi si ritrovò scaraventato dall’altra parte del bancone del bar. Decise quindi, con molto buon senso, che non erano problemi suoi.
 
Iceman non poteva essere più d’accordo: facevano parte della Port Mafia. Se permettevano ad un quindicenne di ammazzare gente e curare il traffico di gioielli senza alcun dubbio morale in merito, significava solamente che era abbastanza grande da bere whiskey assoluto e ubriacarsi dopo un sorso scarso.
 
Aveva visto il viso di Chuuya fare una smorfia quando portò per la prima volta il liquido ambrato alle labbra. Non di suo gusto, a quanto pareva, ma ciò non lo aveva fermato dal prenderne un altro boccone pieno e cominciare a sproloquiare su Dazai Osamu e la loro scommessa persa nell’arco di un respiro.
 
Non capiva la linea di pensiero che lo portò a quel particolare argomento, ma se Chuuya era abbastanza occupato ad imprecare senza motivo c’erano ottime possibilità di vincere quella mano di biliardo.
 
Lippmann si limitava a sorridere saputo e guardare Chuuya con occhi inteneriti, come se sapesse qualcosa a cui nessuno era ancora arrivato. “Dalla prima e ultima volta che hanno lavorato insieme.” Rispose calmo, la risata chiara nella voce nel momento in cui Chuuya intervenne con un altro impropero sentito sui capelli a nido d’uccello di Dazai.
 
Mesi interi, quindi.
 
Lippmann alzò il bicchiere in un brindisi silenzioso e lo riabbassò contro il petto, la mano libera stretta contro la stecca in legno, pronto per il suo turno. Albatross ridacchiò in risposta.
 
“Ha barato!” Continuò Chuuya, parlando di scommesse come di videogiochi nell’arco dello stesso insulto. “Quel bastardo ha barato così tanto!”
 
“Potrei staccargli la faccia per te.” Intervenne piano Doc, il largo sorriso sul suo viso che suggeriva esattamente quando avrebbe goduto a mettere le mani sulla testa di Dazai solo per capire cosa ci fosse dentro quel cervello di genio psicopatico.
 
Il suo contributo fu coperto da suoni di vetri rotti – il bicchiere di Chuuya che venne “appoggiato” con forza bestiale contro il legno in un tentativo di coordinazione andato male e furia improvvisa a malapena trattenuta – e dal rumore rotante del suo porta flebo che venne spostato senza preoccupazioni dal whiskey ormai a terra, ad insozzare il pavimento per diventare presto zucchero appiccicoso.
 
Non provarci.” Sibilò Chuuya gelido ed Iceman alzò l’occhio sano dal tavolo verde per guardare meglio la scena.
 
Chuuya sembrò quasi tornare lucido in quel frangente, scoprendo i suoi denti in un silenzioso ringhio di avvertimento. “Quel merdoso è roba mia. Se qualcuno deve ammazzarlo e fottergli la possibilità di diventare Dirigente, sarò io.”
 
“Sane priorità.” Approvò Piano Man scoccando la stecca contro la palla bianca, osservando compiaciuto la traiettoria particolare che portò a liberare il piano di due biglie particolarmente fastidiose.
 
Lippmann sospirò appagato, mugugnando qualcosa su giovani intensi e piccoli demoni assassini.
 
Albatross stuzzicò l’emotività ubriaca di Chuuya gettando benzina sottoforma di considerazioni generali su Dazai, rallegrandosi nel vederlo prendere fuoco immediatamente e ricominciare ad imprecare contro il senzatetto coperto di bende, le guance rosse di calore e gli occhi vitrei e pesanti di chi si sarebbe addormentato da un momento all’altro.
 
Iceman, al solito, non disse nulla.
 
Rituffò la concentrazione sul biliardo studiando la prossima mossa, semplicemente lieto che non toccasse a lui riportare un Chuuya ubriaco svenuto dal – veramente nullo – alcool a casa, per preoccuparsi dei deliri di un piccolo assassino ossessionato.
 
 
2.
 
Ango occhieggiò la porta d’entrata non appena venne spalancata bruscamente. Prese rapido la sua valigetta ventiquattrore e la aprì, accendendo velocemente un piccolo registratore. Metodo vintage decisamente sorpassato, ma la memoria nel suo drive era riservata a cose serie, non a quelle porcherie.
 
Per quelle c’era un’apposita collezione molto fisica in una delle mille casseforti della Port Mafia, precisamente quella più vicina a dove viveva l’anima tormentata di Paul Verlaine. Era piacevole rispondere alle sue domande sul mondo con la scusa di tenerlo d’occhio per informazioni laterali, iniziandolo alle bellezze di internet e alle ricerche online, chiacchierando riguardo suo fratello e il traditore che gli stava troppo attorno.
 
Ango stringeva le labbra a sentire quelle parole, premurandosi di reperire quanto più materiale possibile sul livello in continua crescita delle “missioni” dell’ormai stabilito team Soukoku.
 
Oda, accanto a lui, guardava il nuovo arrivato con i suoi caratteristici occhi limpidi ed espressione chiara.
 
“Proprio te cercavo!” Sbraitò quello, puntando un dito una spanna oltre la spalla di Oda e pretendendo di camminare in linea dritta verso di loro.
 
Ango sospirò, in parte deliziato.
 
“Nakahara-kun.” Salutò Oda con rispetto e Nakahara avanzò sprezzante, una bottiglia mezza piena di liquido scuro stretta nella mano con tanta forza che sembrava avesse paura potesse volatilizzarsi da un momento all’altro.
 
“Quell’idiota continua ad andare dietro Oda-san!” Sia Oda che Ango lo guardarono crollare nella terza poltrona libera, la postura scomposta e il cappello all’indietro a liberare rossi capelli selvaggi. Oda continuava a fissarlo impassibile. “Non può dargli il tormento in quel modo, è una fottuta piaga!”
 
“Nakahara-kun,” Provò Oda con molta gentilezza. “credo che …”
 
“Ne parla come se avesse appeso le fottute stelle nel cielo!” Ango lo vide bofonchiare qualcosa di non chiaro e il viso già roseo dall’evidente assunzione di alcool si fece più scuro. “Non se lo merita.” Borbottò con un piccolo broncio, alzando le gambe per poggiarle sul tavolino lì davanti e fallendo miseramente.
 
La bottiglia dondolò pericolosamente tra le sue dita guantate e solo un intervento di gravità ben presente e molto rosso la salvò da una fine rovinosa. Oda sembrava imperturbabile. “Nakahara-kun, mi dispiace averti infastidito.”
 
Ango strinse le labbra, uccidendo un piccolo sogghigno sul nascere.
 
Una scenata di gelosia in stile Soukoku era quella che serviva a quella giornata francamente noiosa – il tempo di prelievo dell’automobile che l’avrebbe portato all’aeroporto era tristemente lungo e Oda, per quanto fosse suo amico, non era propriamente la compagnia in cui sperava per passare quelle ore tediose.
 
Nakahara continuò. “Oda-san è un brav’uomo, capito?” Ringhiò e – cielo, era imbarazzato. Oda non si scompose. “È un brav’uomo e un eccellente membro della Port Mafia, non può essere infettato dai suoi germi di sgombro, è solo sbagliato!”
 
Oooh, era diventato improvvisamente più interessante.
 
Ango controllò che il registratore funzionasse ancora, accendendone un altro per buona misura. Non poteva rischiare di ritrovarsi senza prove di tale portata.
 
“Sai cosa ha detto? Eh? Sai cosa ha avuto il coraggio di dire?” Oda scosse la testa e Nakahara armeggiò con la bottiglia, scuotendola come se non fosse aperta con ringhio scoperto e controllando immediatamente dopo al suo interno, per verificare se fosse rimasto qualcosa.
 
Rimase in quella posizione per un lungo minuto senza dar segno di muoversi. Ango non riusciva a capire cosa potesse cercare per tutto quel tempo, ma poi pensò al fatto che Nakahara si rivolgesse ad Oda senza riconoscerlo e decise che, dopotutto, era solo materiale gratuito per analisi poteriori.
 
Lo vide improvvisamente scuotersi come se l’avessero colpito.
 
Sia Ango che Oda aspettarono pazientemente.
 
Nakahara batté le palpebre – pesanti, sempre più pesanti – e riprendersi con vigore. “Sai cosa mi ha detto quel merdoso?”
 
“Ti prego diccelo.” Sussurrò Ango a mezza bocca ma Nakahara non lo sentì nemmeno.
 
Si erse in tutta la sua – minima – altezza seduta e ringhiò “OdaSaku non riuscirà nemmeno a vedere un chibi basso come te.” I suoi denti digrignarono di rabbia e Ango sentì scricchiolare qualcosa di spiacevole. “Quel bastardo!
 
“Nakahara-kun, non penso che intendesse …”
 
“Come se potesse guardare lui!” Continuò Nakahara nel suo mondo alcolico aggressivo. “Lui, che non si capisce da che tombino è uscito fuori! Ah!”
 
Ango si sentiva leggermente offeso per non essere stato preso in considerazione da nessuno, ma poi pensò a chi avesse dovuto prestargli attenzione, occhieggiò Oda e, beh, davvero, poteva capire. E, a posteriori, andava benissimo così, non voleva due ragazzini idioti con troppa forza e cervello che si battevano per una virtù francamente andata.
 
“Lo so che combinerà qualcosa.” Sibilò Nakahara a denti stretti, affondando nella poltrona e portando la bottiglia mezza piena sul petto, coccolandola amorevolmente. Il cappello quasi slittò per il movimento e le gambe si allargarono senza forza. “Lo so che Oda-san verrà traviato da quel sacco di bende a passeggio. Lo so.”
 
Lo guardarono chiudere gli occhi, il broncio vicino al collo della bottiglia e un leggero russare che uscì da quel corpo compresso in quella posizione scomoda per ogni schiena.
 
Oda batté le palpebre. “Non credo di aver ben capito.” Mormorò con tono calmo, un attimo prima che il suo cellulare cominciasse a squillare per chissà quale lavoro dell’ultimo momento.
 
Come se fosse stato chiamato, un agente in nero entrò nella sala per avvertire Ango dell’arrivo della sua macchina, pronto per portarlo verso un’altra missione oltreoceano.
 
Ango e Oda si limitarono a guardarsi e salutarsi con un secco cenno del capo, lasciando Nakahara Chuuya docilmente abbandonato nella hall della Port Mafia.
 
 
3.
 
La bottiglia sbatté sul kotatsu in legno pregiato con un tonfo maleducato. Vetro malamente maltrattato che rischiava di crepare ed esplodere in mille pezzi, la foga con cui urtò contro il piano a malapena trattenuta e una vibrazione di fondo che non riusciva a vedere, ma che poteva sentire sulla sua pelle come se fosse fisica.
 
Kouyou alzò gli occhi dal suo tè, poggiandoli sull’etichetta del vino – Château Petrus, 1989. Rosso scuro che sfumava nel nero e veloci sprazzi violacei. La sola presenza, e il ricordo del suo valore, preannunciava combattuta disperazione.
 
“Ane-san, festeggiamo!”
 
“Vedo che hai già cominciato.” Mormorò sofficemente, tenendo delicatamente la tazza tra le mani e guardando alzando il viso per controllare quello di Chuuya.
 
Chiazze rosse a macchiare le guance, palpebre umide e pesanti e un sorriso aperto e largo che non riusciva ad arrivare agli occhi. “Il bastardo se n’è andato!”
 
“Lingua, Chuuya.” Sibilò Kouyou abbassando di nuovo lo sguardo sul liquido caldo tra le sue mani. “Ti ho insegnato meglio di così.”
 
“Chiudi un occhio per oggi.” Lo vide sedersi in modo scomposto. Una singola gamba sotto il kotatsu e l’altra piegata contro il suo petto, una postura che lei non avrebbe mai accettato. “Il vagabondo è finalmente evaporato! Al diavolo il linguaggio!”
 
Kouyou gli scoccò un’occhiata tagliente, senza ottenere alcun risultato.
 
Chuuya prese la bottiglia per il collo e si attaccò per bere qualche altro sorso, senza respiro. Piccole gocce scure si concentrarono agli angoli della sua bocca e le ciglia abbassate sugli occhi erano troppo umide per poterla ingannare come voleva.
 
Lo vide staccarsi rumorosamente, aspirando aria e singhiozzando leggero. “Ah! Il giorno più bello della mia vita!” Lo disse con gli occhi chiusi. Palpebre strette di felicità contaminata e angoli pizzicati di lacrime sfuggite.
 
Alcool, dispiacere, contentezza, non lo sapeva.
 
Poteva comunque immaginarlo.
 
“Pensavo aveste superato la vostra antipatia.” Commentò placida, avvicinando la tazza alle labbra per assaporare il calore bollente del tè, il profumo delicato ma imponente allo stesso tempo che le investiva le narici e allontanava l’odore forte di vino e amarezza.
 
“Ah?” Chuuya la guardò a mezze palpebre, come se non riuscisse ad aprirle del tutto. Il suo sguardo era vitreo e il rossore sulle guance si era espanso, circondando le orbite e attaccando le orecchie. “Io e quel merdoso?”
 
Lingua.”
 
“Ane-san, dovremmo essere morti per riuscire a superare qualcosa.” Il tono duro con cui lo disse, voce graffiata e sprezzo assoluto, la fece concentrare sulle sue parole. “E credimi, ho pensato più volte di ammazzarlo.” Lo sentì sospirare, l’espressione stanca di chi si rende conto di essere stato improvvisamente privato di qualcosa di importante.
 
Kouyou abbassò la tazza, guardandolo direttamente per la prima volta.
 
La postura sbagliata, la gamba piegata, la guancia sul ginocchio e lo sguardo fisso sul vino nella bottiglia, guardandolo dondolare come mare rosso sangue ad ogni spostamento della sua mano.
 
“Gli sarebbe piaciuto, scommetto.” Bofonchiò Chuuya schiacciando la bocca sul pantalone, i denti che affondavano nel tessuto e nella carne in un tentativo inconscio di risveglio. “Crepare nel modo più veloce possibile e addossarmi tutte le colpe che sarebbero sorte con la sua schifosa dipartita.”
 
“Dazai-kun avrebbe preferito un doppio suicidio, mi sembra di ricordare. Con una bella donna.”
 
Venne graziata da una smorfia disgustata che la fece sorridere. “Dice tante stronzate, ma darmi il tormento è la sua priorità.”
 
Le dita guantate slittarono sul vetro, accarezzando il collo con una tenerezza che cozzava con l’intensità rabbiosa della sua voce. “Sarà contento, adesso!” Abbaiò all’improvviso, raddrizzandosi di scatto e facendole battere le palpebre stupita. Il repentino cambio di posizione lo portò ad ondeggiare leggermente e Kouyou si rilassò, ringraziando per la resistenza all’alcool praticamente inesistente del suo subordinato più caotico. “Potrà orchestrare i suoi subdoli piani psicopatici per far impazzire chiunque da qualsiasi buco sceglierà di rintanarsi, ma sarò finalmente libero!”
 
“Sembra quasi ti dispiaccia.” Sorrise teneramente, guardandolo strabuzzare gli occhi e tentare di metterla a fuoco allo stesso tempo. Sembrò ponderare le sue parole per qualche secondo, poi lo vide aggrottare le sopracciglia e digrignare i denti pronto a scattare. “Mi spiacerà soltanto se non potrò ucciderlo io stesso.”
 
Kouyou ridacchiò, deliziata.
 
L’assoluta incoerenza di quella conversazione sembrava confermare quello che aveva sempre pensato e la confusione arrabbiata di Chuuya era un diversivo graditissimo per una serata altrimenti noiosa.
 
Lo ascoltò blaterare per altri minuti, terminando docilmente il suo tè e sentendo insulti misti a gioia sporca diventare niente più che balbettii incoerenti.
 
In tutta sincerità, non pensava che Dazai Osamu potesse trovare la pace in altri posti o altri modi: era nato nell’oscurità e lì sarebbe rimasto. Avrebbe potuto attenuare il bisogno di morte, forse, ma la vita era solo una giostra e prima o poi si sarebbero dovuti incontrare di nuovo.
 
Si ritrovò a sperarlo, almeno per quel ragazzo mezzo addormentato davanti a lei che non aveva smesso un attimo di nominarlo.
 
Sospirò, guardandolo chiudere gli occhi con un ultimo insulto sulle labbra.
 
Non le rimaneva altro da fare che portare Chuuya in uno degli alloggi liberi della sua ala, pensando che qualche tempo lontano da Yokohama avrebbe potuto fargli solo che bene.
 
 
4.
 
“Devo ucciderlo.”
 
Hirotsu aveva sentito quelle esatte parole almeno un milione di volte solamente nelle ultime settimane.
 
La stima era al ribasso, ovviamente.
 
Quattro anni di tranquillità nel frangente Soukoku aveva abbassato i suoi scudi di tolleranza, portandolo a credere che situazioni del genere potessero essere finite con il tradimento e la successiva fuga di Dazai-san dalla Port Mafia.
 
Scioccamente, con il senno di poi.
 
Per fortuna aveva alle spalle gli addestramenti e gli allentamenti più crudi contro i più vari metodi di tortura – superati sempre in modo eccellente -, quindi portò repentinamente la concentrazione sul lavoro del barman intento a preparare drink, concedendosi così di ripristinare la propria – notevole – abilità di ascoltare con un orecchio solo insulti e improperi più vari senza esserne influenzato in alcun modo.
 
La Port Mafia poteva vantare di formare i suoi adepti nel modo più completo possibile e immaginabile. Solo gli stupidi avrebbero potuto pensare che fosse circoscritto esclusivamente a situazioni di carattere mafioso.
 
“Devo davvero affogarlo in qualche stagno del cazzo.” Chuuya-san artigliò forte il bicchiere e scosse il braccio a simulare un colpo, come se non tenesse nulla in mano. Qualche goccia di vino sfuggì dal bordo dopo il mini tsunami che derivò dalla scossa incurante e Chuuya-san le guardò schiantarsi ed allargarsi sul piano del bar, rompendo la loro resistenza come un rimprovero beffardo. Non ne fu felice. “Spingere quella testa di merda nell’acqua e soffocarlo con il fottuto fango!”
 
“Uno stagno asciutto, in pratica.” Bofonchiò Tachihara ottenendo l’attenzione alcolica di Chuuya-san e perdendo minimo tre anni di vita. Hirotsu non poteva vedere l’espressione sul viso del dirigente, ma il pallore improvviso di Tachihara fu più che sufficiente per non voler indagare ulteriormente.
 
Sospirò deluso.
 
Aveva grande considerazione di Tachihara, ma se aveva difficoltà a capire il momento in cui tacere con quella bomba ad orologeria che era Nakahara Chuuya, soprattutto con la sobrietà che lo aveva abbandonato da svariati minuti e un sorso pieno di vino, Hirotsu sarebbe stato costretto a segnare il suo nome per la classe di Resistenza a Tortura Psicologica che si teneva ogni giovedì per le reclute più giovani, costringendolo ad una frequenza obbligatoria.
 
Con la coda dell’occhio, vide Gin alzare un dito verso il barman e offrire un nuovo calice di vino al Dirigente – rosso, stavolta -, distraendolo abbastanza da salvare la vita di Tachihara e fargli avere il buonsenso di non infervorare ulteriormente il possessore dell’abilità più pericolosa di conoscenza comune fino a quel momento.
 
Hirotsu approvò.
 
Anche solo il pensiero di Dazai Osamu era una minaccia più che sufficiente per minare la tranquillità mondiale, senza che ci fossero scintille sparute che aiutassero Chuuya-san ad esplodere più facilmente.
 
Chuuya-san afferrò il vino con la mano libera senza guardarlo nemmeno, cominciando a scuotere entrambe le braccia e costringendo Hirotsu a spostarsi di qualche centimetro di lato, giusto per non essere colpito dalla foga. “Mi ha lasciato in mezzo a quella cazzo di foresta quando mi aveva espressamente promesso di riportarmi indietro!”
 
Beh, pensò Hirotsu con sguardo fisso sull’enorme blocco di ghiaccio che rotolava nel suo cognac, avrebbe dovuto prevederlo.
 
Dazai Osamu non era propriamente un esempio di sincerità e sicurezza. Troppe volte, in passato, Hirotsu stesso aveva dovuto organizzare una squadra di recupero per l’uno o l’altro membro del team Soukoku a seguito di dispetti iniziati male e finiti peggio.
 
Il team Soukoku era stato un lavoro a tempo pieno. La tregua, a quanto pareva, era stata interrotta nel modo più duro.
 
“Sono stato giorni a farmi mangiare dalle formiche!”
 
Un’ora e mezza scarsa in verità, ma si guardò bene dal dirlo ad alta voce.
 
Tachihara sembrava aver imparato la lezione e annuiva con convinzione ad ogni parola del suo Dirigente, mordendosi la lingua e mostrandosi interessato e di parte.
 
Hirotsu apprezzò il tentativo, ma niente lo avrebbe salvato da ripetizioni forzate a fianco di piccoli iperattivi assassini minorenni.
 
Senza farsi vedere, guardò l’ora e controllò la quantità di vino nei bicchieri di Chuuya-san. Dal livello generale, sembrava rimanessero esattamente quarantatré secondi di veglia ubriaca, dopodiché sarebbe crollato addormentato sul bancone in marmo del bar.
 
“Non voglio lavorare con quel bastardo!” Lo sentì gracchiare ingollando un altro dito di bianco, accorciando il tempo di svenimento ad una ventina di secondi. “Stavo benissimo prima di rivedere quella faccia di merda!”
 
Le palpebre si stavano chiudendo, notò efficiente.
 
Silenziosamente, prese il telefonino e mandò un messaggio ad una persona specifica, sperando non fosse di umore particolarmente dispettoso – o che lo fosse, con Dazai-san non si poteva mai dire cosa avrebbe funzionato.
 
Accompagnò celermente la caduta di Chuuya-san nel momento in cui si inclinò in avanti, poggiandolo sul piano e avvertendo la vibrazione del cellulare che lo informava di una risposta troppo enigmatica per poterla capire senza l’aiuto sobrio di colui lo conosceva come se condividessero la stessa anima.
 
Lo stesso qualcuno che arricciò il naso nel suo sonno alcolico, aggrottando le sopracciglia come se anche percepire l’esistenza di Dazai-san nell’etere accanto a lui fosse motivo di fastidio.
 
Quasi non sentì il sospirò che venne subito dopo e che gli fece scuotere la testa di affettuosa disapprovazione.
 
“Non posso fidarmi di lui.”
 
 
5.
 
“Si è fidato di me.”
 
Sembrava Chuuya, quello.
 
Non era sicuro fosse vero.
 
Non vederlo da svariati anni, se non nelle riunioni tra dirigenti le rare volte in cui veniva convocato, era il problema minore in fin dei conti. Sapeva ogni cosa di lui: ogni successo, ogni titolo, ogni caduta. Mantenersi aggiornato su suo fratello era stato naturale come pensare a Rimbaud, un affetto lontano che non aveva mai voluto abbandonare.
 
C’erano stati momenti in cui pensava di averlo scorto, durante le sue lezioni ad aspiranti assassini: cappelli neri e capelli rossi che svoltavano angoli e urla impreziosite di imprecazioni a rimbombare lungo corridoi che pensava vuoti. Ma i loro incontri non erano incoraggiati.
 
Benché semplicemente si trattassero di argomenti mai affrontati, le precauzioni erano le ultime a morire con dei trascorsi come i loro. Soprattutto a causa delle sue azioni passate.
 
Verlaine alzò gli occhi dal libro che stava leggendo – drammi poetici e veleno mischiato tra le parole – e li puntò verso la porta. Là, a decorare metallo e cautela, una finestra limpida mostrava l’arida vita dei sotterranei.
 
“Non doveva, capisci? Quello stronzo si è fatto ammazzare con il rischio che … cazzo!”
 
Un tonfo pesante e suono di roccia che si sgretolava. Lentamente, Verlaine segnò le pagine e si alzò, camminando verso la voce e guardando suo fratello al di fuori, seduto contro il muro con capo basso, schiacciato sul petto. Il pugno affondava nei mattoni pieni, crepe frantumate si diramavano dalla mano chiusa partendo da una voragine contenuta e del fumo polveroso lo circondava, poggiandosi sul pavimento  e sul tessuto scuro dei suoi vestiti come un manto impalpabile.
 
Accanto a lui, una fiaschetta abbandonata.
 
“Non dovresti essere qui.” Lo rimproverò placidamente, una mera constatazione di consuetudini ferree buttate alle ortiche.
 
Chuuya sembrò non ascoltarlo. “Non mi ha nemmeno avvertito.” Era strana, la sua voce. Ricordava le sue urla, ricordava il suo tono sarcastico, ricordava le sue accuse. Ricordava tutto.
 
Ma la sua gola, in quel momento, sembrava stretta, come facesse male pronunciare quelle parole particolari. “Ho affrontato un drago.”
 
Beh, pensò Verlaine con un sorriso accennato, notevole.
 
“L’ho fatto sotto Corruzione, in realtà.”
 
“Corruzione?” Domandò piano, non capendo.
 
Chuuya alzò la testa e Verlaine non pensava di poter vedere quella quantità di emozioni su un solo viso. Quando parlò di nuovo, lo fece con un sussurro. “Non avrebbe dovuto fidarsi.”
 
Rabbia, risentimento, calore, paura. E altro, che Verlaine non poteva classificare nonostante gli studi che portava avanti da tempo.
 
La sua pelle era bianca, considerò velocemente, e le sue guance rosse. Gli occhi vitrei lo guardavano alla ricerca di risposte, cercando di capire qualcosa che non comprendeva nemmeno Verlaine stesso. “Hai bevuto?” Domandò curiosamente.
 
Lo guardò occhieggiare veloce la fiaschetta lì accanto e tornare su di lui, stringendo le palpebre contrariato. “Non è questo il punto.”
 
Oh, quindi lo sentiva.
 
Aveva cominciato a pensare che fosse sotto effetto di qualcosa di più potente, in realtà, qualcosa in grado di offuscargli i sensi. “Puoi dirmi di chi stai parlando?”
 
Inspirazione brusca, occhi che si spalancavano e furia che poteva avvertire ad ondate, nonostante fosse in una stanza con muri dello spessore di settanta centimetri. Armati, sicuramente, e con così tanti strati di protezione che la maggior parte dei detentori di poteri avrebbe avuto difficoltà a penetrarli.
 
Dazai.” Uscì dalla bocca di Chuuya come una maledizione e Verlaine si ritrovò a chiudere gli occhi, riflettendo su quanto fossero uguali nella loro diversità.
 
Rimbaud lo aveva fatto pensare ogni giorno, quando era in vita. Da morto, donandola per lui, le cose non erano cambiate.
 
Non sorrise, perché sentimenti di quel tipo corrodevano gli organi come nemmeno i veleni più potenti riuscivano a fare, lasciando coscienti e mobili a continuare la propria esistenza senza preoccupazioni su come si veniva erosi ad ogni passo, ad ogni ricordo, ad ogni mossa.
 
Dimenticalo, avrebbe voluto dirgli. È più facile. Non ti distruggerà in questo modo.
 
Ma li aveva visti insieme e aveva sentito di loro. Una leggenda che ancora camminava su quella terra, ormai divisi ma mai veramente del tutto.
 
Prese un respiro, perché non aveva reali consigli da dare. Non capiva nemmeno se Chuuya ne stesse chiedendo, in realtà.
 
Sembrava semplicemente avesse perso prima ancora di capire a quale gioco stesse giocando.
 
Lo vide scuotere la testa e spingere il cappello in basso con la mano, come se non fosse perfettamente a posto e potesse invece volare via da un momento all’altro. “Non importa.” Mormorò sconfitto con lettere schiacciate tra di loro, alzandosi lentamente e perdendo per un attimo l’equilibrio.
 
Si abbassò per afferrare la fiaschetta con dita insicure e la scosse, una smorfia di disappunto sul viso nel scoprirla vuota. “È tutto inutile comunque.” Era amarezza, quella che sentì. Constatazione non accettata, speranza morta per qualcosa che comprendeva perfettamente. “Tornerò a trovarti, un giorno di questi.”
 
“Non dovresti farlo.” Constatò con una severità che non sentiva realmente, perché avrebbe voluto.
 
 Avrebbe voluto tanto.
 
Lo guardò camminare, l’equilibrio precario che gli fece domandare da quanto stesse rovinandosi in quel modo, quante di quelle fiaschette avesse finito.
 
Sentì un verso di scherno e rilassò le spalle per la prima volta dall’inizio di quella strana conversazione, riconoscendolo per quello che aveva lasciato anni prima.
 
“Non mi importa più un cazzo di quello che non dovrei fare.”
 
 
+ 1
 
“Una bella donna come te non dovrebbe stare in un posto come questo.” Leziosi cinguettii ridacchianti e tanta voglia di scaraventare un tavolo contro qualche muro.
 
Sarebbe stato inutile, ragionò guardando il liquido chiaro circolare suadente nel suo bicchiere. Sarebbe finita presto e lui avrebbe rovinato tutto da solo. “Passeggiamo fino al ponte? Ho sentito che è il posto perfetto per un doppio suicidio.”
 
Gelo puro a fronte di una faccia da schiaffi sorridente. Non vedeva, ma sentiva tutto sulla pelle come se fosse gli stesse accadendo addosso.
 
Le urla di rimprovero del tizio con gli occhiali – Kunikuda, gli sembrava. Quello che aveva avuto la sfortuna di prendere il suo posto, in pratica – quasi sovrastarono la musica, ma Chuuya riuscì a sentire tranquillamente scalpiccii frettolosi di tacchi che fuggivano e la porta di quel locale da quattro soldi chiudersi dietro di loro.
 
Portò il bicchiere sotto il naso, sperando che i sentori di ananas e tè verde, misti alle note aspre proprie dei vini, gli facessero deviare l’attenzione dal coglione in fondo al locale ad una sana ubriacatura ricercata.
 
Quando mise piede in quel postaccio – colpa dell’Agenzia, sempre colpa dell’Agenzia. La tregua doveva venire festeggiata con qualche incontro di dubbio gusto e, ovviamente, Mori-san decise che quel giorno era il momento giusto per ridere alle spalle degli altri e lasciare la scelta del locale a chi vantava un salario minimo che nemmeno riusciva ad avvicinarsi al costo complessivo dei calzini di Chuuya. Deludente, davvero –, Chuuya si schiantò direttamente al bancone, la voglia di affogare i sensi beandosi di un pregiato Château Lafite Rothschild del 2014 che lo rendeva smanioso e agitato.
 
Ovviamente fu un desiderio inutile, lo aveva saputo prima ancora di chiederlo.
 
Lo sguardo perso del barista gli diede conferma che non sapeva assolutamente di cosa stesse parlando, quindi ritentò puntando su un notevole ma decisamente più approcciabile Domaine Huet Vouvray Cuvée Constance. Dovette ripetere il nome più volte, ma alla fine venne accontentato con sommo stupore di chiunque avesse un palato degno di questo nome.
 
Fu con una punta di pentimento che si ritrovò ad osservare il vino nel calice.
 
Bianco quando lo avrebbe invece desiderato rosso, ma forse sarebbe stato troppo simile al sangue di un bastardo cantilenante a caso per poter soffocare la voglia di aprirgli il torace e per vederlo inondare il pavimento. Dolce invece di secco, che lo avrebbe portato ad attenuare la rabbia che scoppiava naturale alla sola vista di bende usate e odiosi sorrisi storti.
 
Economico. Secondo il suo portafogli, almeno.
 
Per quello non c’era nulla da fare, pensò con uno sbuffo seccato portando il vetro alle labbra per il primo, agognato sorso.
 
“Nakahara-san, il rapporto della missione di Shinagawa è stato completato.” Chuuya non riuscì nemmeno a sfiorare il bordo liscio del bicchiere. Girò la faccia e sì, effettivamente aspettava quel rapporto nel pomeriggio.
 
Decise di non prendersela con un suo subordinato, sperando che almeno uno di loro di potesse divertire davvero quella sera. “Le dichiarazioni?” Domandò, chiedendo con un’occhiata un altro calice pulito.
 
Gli venne porto immediatamente – il barista aveva capito la quantità di pericolo stipata in quel locale, a giudicare dal sudore freddo che lo inzuppava – e Chuuya invitò con la testa l’agente a sedersi accanto a lui, versandogli il vino con mossa consumata.
 
Quello sembrò appena stupito, ma una rigidità generale della postura e gli occhiali da sole sul naso non riuscivano a mascherare una punta di agitazione che Chuuya non comprese del tutto. “Nakahara-san, non c’è bisogno …”
 
Chuuya schioccò la lingua. “Le dichiarazioni?” Ripeté con tono duro, poggiando la bottiglia sul banco con un tonfo e riappropriandosi del suo agognato vino.
 
Quello passò lo sguardo dal calice davanti a lui a Chuuya e a qualcosa alle spalle di Chuuya, facendosi pallido in faccia e drizzando la schiena senza alcun motivo. “Sono presenti nel rapporto.” Spiegò velocemente, al che Chuuya alzò un sopracciglio infastidito, la voglia di bere che si faceva ogni secondo più pressante. “Le prove sono state eliminate e la zona è stata ripulita, non sto facendo nulla!
 
“Di che diavolo parli?” Abbaiò Chuuya seccato.
 
“Sicuramente si starà chiedendo perché una lumaca così piccola tenti di sembrare minacciosa senza riuscirci.” Quella voce.
 
Quella voce.
 
Chuuya digrignò i denti e strizzò lo stelo del calice nel pugno, tentando di arginare le ondate di furia improvvisa che scoppiarono a tradimento nel suo stomaco.
 
“È un terribile spreco dare le spalle ad un viso affascinante come questo.”
 
“HAH!?” Chuuya lasciò perdere il calice e sbatté le mani sul bancone, girandosi per affrontare il bastardo allampanato. “Hai finito di fare proposte indecenti, stramaledetto donnaiolo?”
 
“Un doppio suicidio è molto lontano dall’indecenza.” Il suo sorriso era sottile come la lama del coltello che Chuuya teneva sempre con sé e, come ogni volta, aveva voglia di prenderlo a pugni fino a farlo sparire da quella faccia compiaciuta. “Stavi origliando per caso? Che Pipsqueak maleducato.”
 
“Come se mi piacesse perdere tempo sentendo le tue stronzate!”
 
“Nakahara-san, io andrei a …”
 
Nakahara-san è occupato in questo momento.” Il suo sorriso non raggiungeva gli occhi, ma non era una preoccupazione: continuavano ad essere incollati alla faccia Chuuya come se l’agente non esistesse nemmeno. “Non vorrei ti tenesse impegnato più del dovuto, me ne occupo io.”
 
“Non ho bisogno di un cazzone che mi dà il tormento, tornatene da dove sei venuto!” Avrebbe voluto afferrare la bottiglia abbandonata sul piano, ma non per lanciargliela addosso. Non avrebbe mai sprecato dell’ottimo vino per quell’ammasso di bende, tuttavia il primo istinto alla vista di Dazai era sempre quello di volergli fare più male possibile e dargli un ottimo motivo per bardarsi come una mummia puzzolente. “Ho da fare qui.”
 
“Nakahara-san, veramente sarebbe tutt-”
 
“Oh? Quale insperata gentilezza proporti per farmi compagnia.” Chuuya guardò Dazai afferrare uno sgabello e posizionarlo lì, dove non avrebbe dovuto: esattamente tra lui e al suo subordinato nel mezzo di un aggiornamento di lavoro. Dazai drizzò la schiena e incrociò le braccia annuendo con condiscendenza. “Prego, continuate pure.”
 
La sua gamba si era allungata per prendere possesso del poggiapiedi dello sgabello Chuuya. Quello utilizzato da Chuuya stesso. Invadendo il suo spazio con la sua essenza di pesce senza alcun permesso.
 
Il bastardo chiedeva di morire.
 
È una tregua molto importante, aveva detto Mori-san solo poche ore prima, il tavolo assediato dalla maggior parte dei dirigenti e il classico sorriso infido che accompagnava ogni parola. Ne va del destino di Yokohama e della Port Mafia. Non mandate tutto all’aria per questioni puerili.
 
Chuuya sapeva che quella battuta era rivolta a lui. Ne era stato consapevole nel momento in cui l’ultima sillaba uscì dalla bocca di Mori-san e si era ripromesso di rispettare l’ordine ignorando lo sgombro per tutta la durata di quella farsa, ma Mori-san non si era degnato di presentarsi – come nemmeno il Capo nemico – mentre Dazai era lì, a chiedere calci sugli incisivi con la sua sola esistenza invadente.
 
Chuuya strinse i denti, la voglia di farlo volare contro il muro con la gravità che non lo lasciava in pace. “Stai interrompendo un rapporto di lavoro.”
 
“Veramente Nakahara-san …”
 
“Chibikko, agire tutto serio e professionale.” Dazai scosse la testa, l’espressione fintamente dispiaciuta. “Non ti si addice. Mancano almeno venti centimetri di altezza per essere credibile.”
 
“In realtà …”
 
“Come diavolo faresti a saperlo? Ci sono ancora i tuoi fottuti rapporti vuoti a prendere la muffa! E che significa venti centimetri?
 
“Io andrei …”
 
“VAI ALLORA!” Scoppiò Chuuya senza nemmeno guardare il suo subordinato, fissando omicida invece Dazai che per la prima volta diede segno di riconoscerlo salutandolo allegramente. “Ciao ciao agente-kun! Ordina pure qualcosa di costoso, offre la cappelliera!”
 
Dire che si volatilizzò fu un eufemismo grande come Yokohama. Se Chuuya non avesse saputo per certo che il suo subordinato non avesse un potere del genere sarebbe stato ingannato, ma Dazai si alzò dal suo sgabello per prendere il posto lasciato libero e la cosa lo rendeva pazzo. “Non ci sono cose costose in questa bettola.” Ringhiò tra i denti. “Vai a dare il tormento a qualcun altro!”
 
“È un Cuvée Constance vero?” Domandò, cominciando a girare sulla seggiola come se avesse cinque anni. “Non proprio una spesa contenuta, in realtà, ma nemmeno la tua solita scelta.”
 
Chuuya lo schernì, la mano che tornava ad afferrare il calice ancora intonso. “Cosa ne sai tu? Vai in giro a bere l’acqua delle pozzanghere, quand’è l’ultima volta che hai mangiato decentemente?”
 
“Aw, così preoccupato per la mia salute?” Quel sorriso era da scartavetrare dalla sua faccia. Con le unghie. “Ho rubato il pranzo di Kunikida-kun proprio questa mattina ed è stato così gentile da insistere per nutrirmi anche domani.”
 
“CHE COSA???”
 
Chuuya capiva Kunikida.
 
Davvero, lo faceva, era stato al suo posto soltanto quattro anni prima e simpatizzava con sincero trasporto. Ma Dazai non era più affar suo da che aveva deciso di andarsene e fargli esplodere l’automobile, quindi avrebbe apprezzato se, dopo quell’urlo sconvolto, fosse arrivato e avesse cominciato a picchiarlo selvaggiamente. Probabilmente gli avrebbe anche dato una mano per porre fine più velocemente all’esistenza di quello spreco di spazio, ma sembrava che qualcuno dell’Agenzia lo avesse bloccato e distratto anzitempo.
 
Perfetto. Avevano scelto la morte del pesce per sola mano sua.
 
“E poi, la scelta del bianco.” Chuuya lo vide bloccarsi di scatto e guardarlo come se potesse leggere la mente di chiunque, sorridendo sicuro come se la sua fosse particolarmente facile da scardinare. “La tua punizione più grande è essere un Chibi decisamente basso, inutilmente violento e curiosamente amante dei vini rossi. La tua cantina straripa di quella roba.”
 
“… Quando sei entrato in casa mia bastardo?!?”
 
“Non hai intenzione di bere.” Falso. Falsissimo. “Il che è strano, perché non hai mai rifiutato un’indecente ubriacatura quando possibile.” Ma lui non era mai stato presente, in quei momenti. Spariva come uno spaventapasseri in nero per correre a dare il tormento a chi era riuscito ad ottenere la sua sofisticata attenzione, era l’ultimo a poter fare affermazioni del genere.
 
Ma poi si avvicinò con il viso e il ghigno divenne più largo e perfido. “Hai per caso qualcosa da nascondere?”
 
L’attacco era troppo vicino e diede abbastanza fastidio da spingere Chuuya a stringere la presa sul calice e bere tutto in un sol sorso, il gesto veloce e improvviso che quasi lo portò a dare una gomitata sul naso del vagabondo. “Non è il tuo dannato problema, vero?” Ringhiò, afferrando il bicchiere intoccato offerto al suo subordinato e svuotando anche quello in un unico gesto.
 
Dazai lo guardava con un leggero sorriso congelato e gli occhi appena spalancati, il collo ritornato al posto originario per l’azione che quasi lo portò all’ospedale. “Tu e le tue stupide bende usate, non puoi metterne di nuove? Eh? So che hai uno stipendio da fame, ma non così vergognoso da farti andare in giro intasando tutto con la tua puzza di sgombro!”
 
Dazai si limitò a battere le palpebre.
 
Chuuya afferrò l’intera bottiglia e la sventolò vicino a quella faccia da idiota, puntando ad allontanarlo come si faceva con gli animali selvatici. Avvertiva il calore invadergli le guance, il sangue ribollire, i pensieri veloci e lenti insieme e, mentre cercava di capire se la musica fosse improvvisamente scoppiata da qualche parte da come gli rimbombava nelle orecchie, non si rese conto di aver continuato a parlare.
 
E di essersi alzato, in realtà. Un piede piantato sullo sgabello e l’altro sul bancone del bar, intento a bere vino dalla bottiglia come se fosse acqua di ruscello. “E i miei cappelli sono bellissimi, capito?”
 
“È vero!” Sentì qualcuno battere le mani dalla parte dell’Agenzia e venire prontamente zittito, ma Chuuya apprezzava chiunque avesse buon gusto e quindi indicò alla cieca, annuendo di approvazione. “Tu sì che ne capisci, chiunque tu sia!”
 
“Kenji-kun è arrivato in città da poco.” Ridacchiò Dazai e Chuuya sentì il potere della gravità inondare il suo corpo, smaniando per essere usato. “Dimmi Chibi, da quando ti interessa quello che dico?”
 
“Non mi è mai interessato, dannazione!” Terminò l’ultima goccia di vino e sì, non avrebbe dovuto.
 
Non avrebbe decisamente dovuto.
 
Sentì le palpebre pesanti d’improvviso, le orecchie e le guance andare in fiamme e vide la stanza girare e girare e girare e …
 
… e poi divenne tutto buio.
 
 
*
 
 
“Urgh …”
 
Oh ma guarda. Il Chibi si era svegliato.
 
Dazai girò la faccia senza muovere altro muscolo, mani sulla pancia e postura pigra su quel letto troppo grande per non essere stato costruito su misura, ritrovandosi a guardare quella accartocciata del mafioso più piccolo di tutto il mondo conosciuto che ritornava in vita in qualche maniera.
 
Aveva i capelli completamente scomposti dal suo muoversi incessantemente anche mentre dormiva. La solita stupida coda da lumaca sembrava esplosa lì dove era stretta dall’elastico, una striscia di bava secca sul mento con una pozza ben visibile sul cuscino, proprio sotto la bocca arricciata in una smorfia e gli venne da sorridere, reprimendo la voglia di infastidirlo schioccando le dita sulla punta del suo naso.
 
Scelse di dargli il tormento in altra maniera.
 
“I tuoi vestiti sono orribilmente corti e il tuo shampoo odora di animale bagnato.” Lo informò con voce cantilenante, puntando direttamente al suo orecchio scoperto per una sveglia più veloce.
 
Era oltremodo ingiusto che lui fosse attivo da ore – parecchi minuti, in realtà, ma che sembravano giorni - e Chuuya, invece, fosse ancora nel suo solito coma alcolico a costringerlo a spostargli le cose per casa e nascondere i cappelli dal loro armadio personale. Era tardi e la colazione – o pranzo, a quel punto - non si sarebbe cucinata autonomamente. Dazai aveva fame.
 
Lo vide tentare di aprire le palpebre senza riuscirci veramente e mugugnare nuovamente contro il nulla, un’imprecazione schiacciata tra i denti che gli fece capire che la sua mente era abbastanza lucida da indirizzare gli insulti verso di lui, ma al suo mini corpo di Pipsqueak serviva ancora qualche minuto di raccoglimento.
 
Dazai non era altro che un essere umano decente, quindi decise di aiutarlo ad accelerare i tempi. “So che vuoi essere degno del tuo status di cane pastore, ma prendi qualcosa di più profumato la prossima volta. E hai finito il latte, com’è possibile? Tre giorni fa avevi il frigorifero pieno.”
 
“Che cazzo ci fai qui?” Venne fuori sofferente, cupo abbastanza da sembrare arrabbiato ma non troppo, altrimenti Dazai sarebbe stato lanciato fuori dalla finestra con quel suo potere ridicolo. Poteva vedere che ancora non aveva aperto gli occhi, ma quel minuscolo naso a punta si arricciò di disgusto e Chuuya affondò la faccia nel cuscino. “Vattene!”
 
“E privarmi della possibilità di vedere una lumaca ricordare cosa è successo prima di svenire?”
 
Seguì un attimo di immobilità statica.
 
Dazai sorrise, riuscendo quasi a vedere gli ingranaggi chibi arrovellarsi per riavvolgere il nastro di tutta una giornata, cercando di capire quale passo falso gli fosse sfuggito. Sembravano affaticati e poteva quasi sentirli fumare di sforzo e concentrazione. “Non è successo nulla ieri.” Bofonchiò alla fine Chuuya contro la federa, alzando la faccia solamente per scoccargli un’occhiata malevola. “Non inventare cose.”
 
Dal tono, però, non sembrava convinto e Dazai si ritrovò a ridacchiare deliziato. “Oh, questo è semplicemente fantastico.”
 
Si sistemò meglio nel letto, incrociando le braccia dietro la testa su quel cuscino portato dagli dèi in persona, accomodandosi troppo vicino a Chuuya per non sentire il suo irrigidimento generale e la rabbia che cominciava ad uscire ad ondate, colpendolo quasi fisicamente e provocando semplicemente la risposta più sbagliata.
 
Lo spinse a muoversi di nuovo, appiccicandosi al suo fianco bollente e lasciando metri di letto vuoti. Lo sentì ringhiare. “Hai ordinato un vino bianco.” Gli ricordò compiaciuto. I suoi occhi erano chiusi, beandosi di ogni singola vibrazione omicida emessa da quel corpo minuscolo. “Bianco, dolce. Da aperitivo.”
 
“Lo so perfettamente.” Lo sentì alzarsi di scatto staccandosi da lui, il materasso che dondolava come se fosse colpito da un terremoto. Cosa che, effettivamente, stava accadendo, seppur in dimensioni minime. “So anche che non sei stato invitato a casa mia, bastardo.”
 
“Hai spaventato un povero subordinato innocente.”
 
“Dannato ficcanaso, sei venuto a disturbare un aggiornamento di missione.” Dazai schioccò la lingua, muovendo i piedi in segno di diniego e canticchiando di risposta. Gli arrivò un pugno su una spalla e, davvero, faceva male, anche se aveva ovviamente trattenuto quella sua forza bruta da animale. “Che significa? L’hai fatto!
 
“Sono venuto semplicemente a salutare come ogni buon partner di buon cuore dovrebbe fare.”
 
Ex partner.
 
“Tu non l’hai fatto, però.” Scosse la testa, aprendo una palpebra per guardarlo prendere semplicemente fuoco di pura furia. “Chibikko maleducato.”
 
“Il mio saluto sarebbe stato schiacciarti contro il primo muro disponibile!”
 
“Aw, dici le cose più dolci.” Chuuya sbuffò e scese dal letto, vestito esattamente come la sera precedente a meno di scarpe e cappello.
 
Dazai aveva seriamente pensato di togliergli i vestiti superflui quando lo aveva riportato a casa, ma un ripensamento dell’ultimo secondo lo portò a stringere le dita a pugno e allontanarsi il più velocemente possibile da quell’idea, puntando invece a sdraiarsi nel letto per un meritatissimo sonno ristoratore.
 
Sarebbe stato divertente vederlo esplodere il mattino dopo, ma non era del tutto sicuro di riuscire realmente ad addormentarsi sapendolo nudo e disponibile accanto a lui. “Russi fortissimo per essere così piccolo.” Lo informò, perché era nulla se non una persona onesta.
 
“Vaffanculo, non è vero.” Lo sentì borbottare cominciando a togliersi la giacca e oh, bello. Camicia. Camicia decisamente stretta. “Cosa hai detto del mio shampoo?”
 
“Che puzza.” I pantaloni vennero slacciati e Dazai respirò forte, serrando la mandibola quasi a farsi male. “Cosa stai facendo?”
 
“Vado farmi una doccia e, quando avrò finito, tu sarai sparito.” Lo disse senza guardarlo, continuando a togliersi vestiti e incamminandosi verso il bagno, lasciandoli cadere a terra come briciole di pane. “Hai venti secondi per finire di dire tutte le tue stronzate, poi non voglio più vederti.”
 
“Hai detto che ti manco.”
 
Chuuya si bloccò sul posto.
 
Lì, immobile tra il letto e la porta della camera. Dapprima pallido in viso, come se il sangue fosse defluito per mai più ritornate, poi all’improvviso rosso violento, tutto concentrato a chiazzare di vergogna le guance e facendo a botte con i capelli scomposti. “Questa è una fottuta bugia!” Sbraitò aggressivo, facendogli battere le palpebre.
 
Oh.
 
Oh.
 
Dazai stirò il suo sorriso, alzandosi con il busto affondando i gomiti nel materasso. “Oh no, l’hai proprio detto.” Gongolò guardandolo prendere fuoco, una debole aura rossa che lo circondava completamente d’improvviso. Chiunque sapeva che era meglio non pungolarlo quando attivava la sua abilità, ma Dazai non era mai stato chiunque. E un Chibi focoso era un Chibi divertente. “Qui, dritto nel mio orecchio sensibile.”
 
La mancanza di sicurezza di Chuuya si traduceva in violenza gratuita.
 
Il suo corpo si mosse da solo nel momento in cui una scarpa venne privata della gravità e schizzò come un proiettile dove un secondo prima stava il suo bellissimo viso.
 
Il buco pieno di crepe che comparve sul muro lo fece ridacchiare di gusto. “Aw, non fare così, sono naturalmente irresistibile, è normale.”
 
“Sei naturalmente schifoso, subdolo bastardo.” Lo sentì ringhiare, manipolando anche l’altra scarpa e puntandolo con cattiveria. “Mi sono addormentato e poi …” Chuuya batté le palpebre, attenuando il suo potere per perdersi nella riflessione e abbassando l’arma dubbioso. Il rossore pericoloso che lo circondava fu notevolmente ammansito e Dazai allargò il suo sorrisetto. “… poi mi sono svegliato.” Lo vide stringere le labbra e poi morderle, come per capire se fosse davvero sveglio o fosse un incubo terribile. “Mi hai portato qui tu.”
 
“I codici di accesso sono troppo ovvi, non puoi impegnarti di più?” Chuuya si lamentò a voce alta, strofinandosi la faccia con le mani talmente forte che avrebbe potuto spostare il naso con gli occhi senza che ci fosse nulla di strano.
 
Vattene.” Lo sentì sibilare, lì in mutande davanti al letto con i pugni nelle orbite. “Di’ un’altra parola e ti ammazzo.”
 
Dazai ridacchiò. “Eri un Chibi così chibi mentre mi dicevi tutte quelle cose carine!”
 
“Ero ubriaco, l’avrei detto a chiunque!”
 
“E sfregavi la faccia contro il mio collo, come un piccolo cane domestico!”
 
“Stavo sicuramente cercando di cancellare la tua intera schifosa esistenza!”
 
“Non è la prima volta che mi dici cose del genere.” Chuuya batté il suo minuscolo piede a terra, arrossendo come un pomodoro e sibilando uno “Stai zitto!” che lo fece solo sogghignare di più. “Hirotsu-san mi chiamava sempre quando ti addormentavi dopo aver bevuto mezzo bicchiere e avermi insultato tutto il tempo.”
 
Un gemito sofferto, un ringhio di avviso che lo colpì come un camion. “Perché cazzo lo stai dicendo ora?”
 
Dazai lo guardò improvvisamente serio, battendo le palpebre.
 
Non ne era sicuro, in realtà.
 
Forse perché prima non era il tempo giusto per imbarazzarlo in quel modo e quella, invece, poteva essere la fine di tutto quello che avevano conosciuto fino a quel momento.
 
Forse perché sentirlo sussurrare quelle cose, tra una maledizione spontanea e un’altra, lo aveva sempre lasciato a pensare. Tanti pensieri, di cose che non aveva mai ammesso o di cui non voleva riconoscere nulla.
 
Forse perché il suo corpo era bollente, mentre lo riportava a casa ogni volta. Perché la puzza di alcool non riusciva ad attenuare quello del sangue che li circondava continuamente, quello oscuro delle azioni che avevano tappezzato le loro vite, quello sicuro dell’unica persona che, nonostante le urla e gli insulti sempre presenti, lo seguiva senza fare domande e agiva, a volte, senza nemmeno doversi confrontare. Una macchina oliata che sembrava più di una semplice partnership, più di un’abitudine, più di tutte le cose noiose che poteva pensare in quel momento.
 
O forse perché, la sera prima, vederlo offrire da bere a qualcuno che non era lui gli aveva disattivato talmente velocemente le sinapsi da ritrovarsi lì in mezzo ad infastidirlo prima ancora di capire di essersi mosso.
 
Si limitò a sorridere, alzandosi in piedi e stiracchiandosi con metodo, raggiungendolo per spingerlo verso il bagno mentre continuava a lamentarsi. “Su su Chibikko, corri a fare la doccia prima che io riempia ogni tua bottiglia di vino con aceto a buon mercato.”
 
L’urlo che venne fuori subito dopo venne accompagnato da un pugno alzato che schivò velocemente, abbassandosi al suo – basso, tanto basso – livello e zittendolo con la faccia troppo vicina alla sua.
 
Chuuya digrignò i denti, sibilando un “Provaci e ti sventro, Dazai di merda.”
 
Non avrebbe dovuto piacergli come invece stava accadendo.
 
Il suo alito era terrificante, ma scelse comunque di rispondere “Solo se lo rendi indolore.” sulle sue labbra, prima di portare una mano sulla sua nuca sudata e spingerselo contro, dritto sulla sua bocca.
 
Aveva avuto pensieri, riguardo a questo.
 
Pensieri maledetti e soffocati da dispetti e ovvie verità su altezze microscopiche, sorti nel momento in cui lo guardò guardarlo dall’alto nel loro primissimo incontro, subito dopo avergli fatto un male d’inferno spedendolo dall’altro lato della strada dritto contro un muro.
 
Il suo piccolo piede sul suo petto era stata la prima cosa che aveva notato. Poi i suoi capelli rossi, le sue mani in tasca e alla fine, per ultimo, il suo ghigno.
 
Sicuro, sfrontato, certo delle proprie capacità.
 
Ricordava perfettamente di aver pensato a come sarebbe stato schiacciato sulla sua bocca. Se si fosse perso, se si fosse aperto, se si fosse fatto strada con denti e lingua e sangue e che sapore avrebbe avuto, in caso.
 
Non avrebbe mai pensato ad alito mattutino e dispetti stilettati a tradimento.
 
“Fai il bravo cane e lavati i denti.” Gli sussurrò staccandosi, sorridendo lento e strofinando le dita tra i capelli, guardando le sue sopracciglia aggrottarsi e il suo pugno ancora alzato afferrarlo per la camicia.
 
Chuuya lo riportò indietro con uno scatto brusco e stavolta Dazai trovò la sua bocca aperta, la lingua che entrava con intenti omicida a pugnalarlo con forza, denti che cozzavano e cazzo, finalmente.
 
La presa sulla nuca si fece più forte, stringendo la presa tra i capelli e forzandolo ad inclinare il viso, affondando dentro di lui e raddrizzandosi per farsi seguire, sogghignando nel bacio e venendo premiato con un morso sul labbro tanto forte da sentire il sapore del sangue sulla lingua.
 
Era così buono. Era così giusto.
 
Ferro che si univa tra le lingue, denti che sbattevano per sottomettere l’altro, labbra che si ammorbidivano solo per illudere, giusto il tempo di un nuovo attacco nell’arco di una suzione gentile.
 
Il sangue cantava come non aveva mai fatto prima, il bisogno di sentire la sua pelle – calore, colore, sapore – secondo solo alla voglia di segnarlo con graffi e morsi e ammirare la sua firma su ogni punto visibile.
 
Inspirò forte quando Chuuya si staccò, suono schioccante di saliva e occhi azzurri lucidi e decisi, ansimandogli addosso e guardandolo con la sicurezza e la sfida che lo avevano sempre contraddistinto. “Questo è un bacio.” E la ripicca soffiata sulla sua bocca lo fece solo ridacchiare, stringendo la presa sui suoi capelli per affondare il viso sulla spalla nuda. “Quello di prima era solo una schifezza.”
 
Lo morse, succhiando forte il primo segno del suo passaggio, baciando e raschiando con gli incisivi. Seguì la colonna del collo con sole labbra, sentendolo rabbrividire nel  momento in cui si fermò sulla conchiglia del suo orecchio. Tracciò le linee di cartilagine con le lingua prima di lamentare un “Mi fa male la schiena.” che portò Chuuya a sferrare un pugno sul suo fianco. Solo la profonda conoscenza di ogni suo gesto gli permise si schivarlo abilmente e ridere della sua faccia rossa di rabbia e altro.  
 
“Hai le ossa di cartapesta, mi stupirei del contrario.” Borbottò Chuuya scoccandogli un’occhiata malevola. “Che dici, il tuo fisico di merda riuscirà a farti resistere sotto la doccia?”
 
“Impaziente?” Chuuya lo spinse via, dandogli la schiena e sfilandosi anche gli ultimi pezzi che permettevano al suo cervello di mantenere un minimo di lucidità cerebrale. “Togliti le bende e vedi di farne valere la pena.”
 
Beh, pensò slacciandosi la camicia e seguendo il suo cane come un perfetto padrone affettuoso, chi era lui per rifiutare un così gentile invito?
 
 
 
   
 
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