MISERY
LOVES COMPANY
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New
York City, aprile 2006
J.T.
scavalcò un paio di Nike blu abbandonate tra
l’ingresso ed il salotto per
dirigersi verso la porta d’ingresso. Chi potesse essere a
quell’ora indegna di
un martedì notte era un mistero. Si passò la
destra tra i capelli biondi cortissimi,
come se le cuffie che portava ora al collo li avessero scompigliati.
Non
attendeva visite e l’ultima volta che aveva controllato il
suo conto corrente
aveva pagato il mantenimento ad entrambe le sue ex-mogli. D’altro
canto,
conoscendo Rochelle…
Si
chinò un poco ed osservò dallo spioncino. New
York City non era esattamente il
posto dove aprire la porta a caso nel cuore della notte, nemmeno se eri
un uomo
in forma sulla trentina. Quello che vide gli fece quasi ingoiare la
lingua
dalla sorpresa, mentre apriva la porta con una certa foga.
“Ehi,
stranger!”
La
cascata di capelli rossi sarebbe stata inconfondibile se anche la loro
proprietaria
non l’avesse, involontariamente, tormentato da quando era un
ragazzo.
“Kay?”
domandò, ancor più confuso dal fatto che lei
fosse alla sua porta traballante
su tacchi troppo alti e con l’aria alticcia. Fosse stato in
grado d’essere più
circospetto si sarebbe dato un pizzicotto per assicurarsi di non
essersi
addormentato di nuovo sul suo divano, giocando a WoW.
“Posso
entrare?” Chiese lei, appoggiata malamente alla sua porta.
“Ehm,
sì, certo.” Rispose J.T. indietreggiando per farla
passare, mentre Kay
barcollava all’interno, poi, chiuse la porta alle sue spalle,
tenendola d’occhio
con la coda dell’occhio. Non per la prima volta, J.T. dovette
trattenersi dall’aiutarla,
conoscendola si sarebbe infuriata.
Ancora
mezzo paralizzato dalla sorpresa, il ragazzo la guardò
circospetto, cercando di
ricordare se l’avesse mai vista brilla in vita sua, mentre
incapace di trattenersi
oltre le allungava una mano per aiutarla a stare in piedi.
“Oh…”
mormorò lei, sorridendo stupidamente a quel gesto e mandando
in fumo ogni sua
previsione. C’era qualcosa di estremamente strano
quella sera nell’aria. “Volevo
scusarmi per tutte le volte che ti ho dato del porco
sciovinista.”
J.T.
continuò a sorreggerla mentre camminavano verso il divano
marrone, spostò con
la mano libera il joystick in traiettoria e
l’aiutò a sedersi. Cercò
disperatamente una risposta.
“Ehm…”
si morse leggermente il labbro, pensando. “Ti ringrazio, Kay.
Come mai volevi
dirmelo di persona alla 1.50 di …” Ah,
pareva fosse già mercoledì.
Kay
scacciò lontano le decolleté color ciclamino ed
aprì il primo bottone del giacchino.
“Io
…”
Guardò la stanza per un attimo con sguardo intenso, come se
la vedesse per la
prima volta e fosse confusa un tantino di essere realmente
lì. “Ah, sì …
perché
il mio capo … anzi no, ex capo, lui
sì che è un porco sciovinista.”
L’unica
cosa chiara era che J.T. non ci stava capendo un accidente.
“Mmm…”
rispose, mentre continuava a fissarla, incerto sul daffarsi. Sedersi
accanto
a lei? Prepararle un caffè? Portarle la sua coperta e
sperare che smaltisse la
sbornia dormendo?
Kay
interruppe i suoi pensieri. “Siediti, che mi gira la stanza
se stai in piedi!”
“Eh?”
domandò il fotografo.
“Siediti!”
Ordinò Kay.
Persino
ubriaca riusciva ad essere prepotente. J.T.
si trattenne dallo
scuotere la testa e fece quello che lei aveva chiesto.
Non
era sempre così, anche quando pensava fosse il contrario?!
“Come
sei arrivata qui?”
“Taxi.”
mormorò la donna, alzandosi ed andando a spegnere la luce,
nel momento stesso
in cui lui si sedeva. Lo schermo accesso davanti a loro era
più che sufficiente
per vederci, ma nel ritornare verso il divano, Kay inciampò
nelle Nike e, solo
un buffo balletto, la tenne in piedi.
Ridacchiò,
un risolino che J.T. le aveva sentito proferire raramente.
“Non
volevo mi vedessi così, ma devo aver pensato che domani
avrei perso il coraggio.
Almeno credo. E mi sono trovata davanti al tuo palazzo.”
“Eh?
Coraggio? Perché?” Certo era lei quella
ubriaca, ma anche lui non brillava d’eloquenza
e perspicacia quella sera.
“Sì,
perché a nessuno piace ammettere di aver avuto torto, sai,
né di essere stati
cattivi e superficiali.”
Con
qualche difficoltà Kay lo raggiunse sul divano e
slacciò il secondo bottone del
giacchino bianco di finta pelliccia che indossava. Si sedette di nuovo
e
cominciò il, nel suo stato non semplice, esercizio di
coordinazione di
toglierselo di dosso.
“Kay,
tu non sei cattiva” La rassicurò l’amico.
La
donna scosse la testa. “Invece, sì”
Sospirò. “Pensaci! Quanto ti ho fatto
soffrire da che ci conosciamo?”
In
un certo qual modo era un colpo basso, ma non era una domanda a cui
J.T. era
disposto a rispondere sinceramente quella sera, non con lei in quello
stato.
“Non
l’hai fatto apposta, Kay.” Cercò un
diversivo. “Dimmi, quanto hai bevuto
esattamente?”
Lei
tentò
comicamente di alzare tre dita, le fissò perplessa e, poi,
aggiunse. “Penso.”
“Tre
cosa, tesoro?”
Kay
si liberò finalmente dai confini del giubbino di pelliccia.
“Non ho più caldo, ora.”
Disse tra sé con un certo sollievo.
“Bene”
osservò J.T. “Non che mi spiaccia vederti, Kay, ma
perché sei qui?”
Kay
lo guardò stringendo un po’ gli occhi, come se
cercasse di focalizzare lo sguardo
su di lui.
“Te
l’ho già detto!” Protestò.
J.T.
scosse di nuovo la testa, cercando di non pensare a Nick.
“Vuoi un po’ di caffè,
Kiki?”
“Dici?”
domandò lei, stranamente docile.
“Dico.”
Rispose l’uomo. Si alzò per andarle a prenderle
una tazza e si diresse verso la
cucina dell’altro lato della stanza, accendendo i led sotto
l’armadietto,
mentre cercava di ricostruire il filo di un discorso che non filava
affatto. Fece
l’unica cosa logica da fare.
“Vuoi
provare a spiegarmi di nuovo, Kay?” Chiese, cercando di
mettere nella domanda
tutta la pazienza che desiderava mostrarle.
Kay
fissò i suoi enormi occhi nei suoi. Sospirò.
“Sono
stata cattiva con te e sono qui per scusarmi…”
Ripeté.
“E
lo apprezzo, tesoro, ma non ce n’era bisogno, sul
serio.” Rispose, mentre le versava
il caffè.
Le
porse la tazza.
“Grazie.”
Ne prese un lungo sorso mentre il logo del Punitore appariva in bianco
col
calore sulla superficie nera della mug.
“Forse
sono i tre bicchieri di prosecco che parlano, ma…”
“Prosecco?!”
J.T. si dovette trattenere dal ridere. Avrebbe dovuto
saperlo. Il suo
scricciolo. Anche se quel possessivo era sempre stato
doloroso.
“Mi
hanno licenziato.”
La
frase e il tono con cui era stata pronunciata, come se fosse la fine
del mondo,
distolse l’attenzione di J.T. dal momento di
autocommiserazione.
“Licenziato?”
“Già!”
Kay osservò per un po’ il pavimento come se fosse
lì che avrebbe potuto trovare
la chiave per risolvere i misteri del mondo. “Ma
io con Alan Davis non volevo andare a
letto!”
J.T.
si sedette di nuovo lentamente accanto a lei. Provò a
mantenere il tono più
neutro possibile. Kay era una donna adulta, non era mai stata sua, per
quanto
avesse desiderato il contrario da troppi anni per contarli.
“Cioè,
fammi capire, mi stai dicendo che ti hanno licenziato perché
andavi a letto col
tuo capo?”
Kay
bevve un altro sorso di caffè, lo guardò sdegnata
e tossicchiò.
“No,
mi ha licenziato perché gli ho detto di no.”
E
se
J.T. aveva pensato di essere di cattivo umore mezzo minuto prima
immaginandola volontariamente
con un altro, la sua indignazione raggiunse ora una vetta del tutto
diversa.
“Cosa?
Ma è … Oltraggioso. Illegale.
Ingiusto!” Esclamò, balzando in piedi.
Kay
sorrise amara. “Il mondo è ingiusto,
Mitchell.” Gli porse la tazza ancora mezza
piena.
“Ma
devi fare qualcosa! Non puoi dargliela vinta così!”
“Mmm,
ci penserò domani.” Disse, stiracchiandosi.
“Ora devo fare pipi.”
J.T.
si trattenne dal ridere forte a quella confessione, così in
contrasto con
quella di pochi secondi prima. Appoggiò la tazza di Kay sul
bancone della cucina,
mentre istruiva “In fondo al corridoio, a destra!”
Alzandosi
a fatica, Kay rispose “Lo so.”
Scrutandola
mentre si allontanava lungo il corridoio, lui la schernì
“So-tutto-io!”
Kay
cominciò ad incedere lentamente, poi si girò
verso di lui, appoggiandosi al
muro per stare più dritta. I suoi capelli una nuvola rossa
un po’ scompigliata
contro la penombra della parete bianca. Bella e lontana mille miglia,
come
sempre.
“Lo
sai che ti voglio bene, vero?”
Con
un pugno che gli stringeva il cuore nelle viscere, J.T. si
sforzò di sorriderle.
“Lo
so, tesoro.”
Lei
gli sorrise sul serio. “E se non avessi avuto tanta paura di
quello che avrebbe
significato per te, ti avrei già detto di
sì.”
Per
un lunghissimo minuto J.T. stette fermo in mezzo al proprio salotto
cercando di
riavvolgere il nastro di quella conversazione nella testa.
“Sì?”
chiese. A che cosa esattamente Kay avrebbe voluto dire
sì, ora? Lui non le
aveva chiesto nulla.
Ma
lei riprese a camminare verso la porta del bagno, lasciandolo a
scrutarsi nel
riflesso della finestra alla luce fioca dei led e dello schermo.
Un
uomo estremamente confuso ad un’ora in cui le persone per
bene dormono con
indosso un pantalone grigio della tuta che gli scendeva troppo sui
fianchi, lo
guardava di rimando. Cosa le aveva chiesto?
Stette
in quella posizione per ancora qualche secondo, prima che una lampadina
gli si
accendesse nella testa.
Non
dice sul serio! L’hai vista, è ubriaca e
vulnerabile.
E
se,
invece, fosse stata seria? Se avesse infine acconsentito a
quell’idea che gli frullava
nella testa da mesi.
Il
suo corpo si mise in modo prima che il suo cervello smettesse di
pensare,
raggiunse la fine del corridoio.
“Kay?”
La chiamò attraverso la porta del bagno.
Sentì
l’acqua del rubinetto scorrere e poi spegnersi, prima che lei
comparisse di
nuovo sulla soglia.
“Ehi…”
Gli sorrise. “Mi hai trovata!” Ridacchiò.
J.T.
l’osservò per un momento in silenzio, tutte le
curve e gli spigoli del suo
corpo che sapeva a memoria sembravano prendersi gioco di lui. Quante
volte le
aveva chiesto di posare per lui negli ultimi mesi? Quante volte aveva
rifiutato
prima di allora?
“Te
l’hanno mai detto che non si prendono decisioni importanti
quando si è bevuto?”
Kay
annuì, sostenendo in silenzio il suo sguardo indagatore.
“Promesso?”
Chiese infine il ragazzo.
Kay
sorrise ed annuì. Era chiaro che non era ancora del tutto
sobria, ma era un
po’ meno brilla di quando era arrivata alla sua porta.
“Lo
sai che ti voglio bene, vero?” Domandò J.T. a sua
volta. “E non t’infurierai
con me domani per aver promesso?”
Kay
s’alzò
appena sulla punta dei piedi e gli sussurrò
nell’orecchio. “Promesso.”
J.T.
strinse i pugni lungo i fianchi, le unghie corte che gli bucavano
appena i
palmi per la forza con cui li serrava per trattenersi dal toccarla. Non
era la
prima volta, non sarebbe stata l’ultima.
Kay
s’allontanò un passo. “Posso dormire
qui?”
Gli chiese, improvvisamente incerta, abbassando lo sguardo
sui suoi piedi
nudi.
Sarebbe
stata una lunga notte insonne, prima di un giorno di lavoro infinito.
Annuì.
Non sarebbe stata la prima volta.
La
donna
si avvicinò e l’abbracciò, sollevando
lo sguardo su di lui. “Grazie”.
Che
lei l’allontanasse o trattasse con freddezza
c’aveva fatto il callo negli anni,
era quando era così, tutta affettuosa e docile che gli
stritolava il cuore. Si
staccò da quel piccolo corpo caldo che avrebbe voluto solo
stringere, ma Kay lo
tenne per mano.
“Mi
preparo il divano?”
“No…
Ti ho mai cacciato dal tuo letto?” Chiese lei quasi offesa
all’idea.
La
morsa intorno al suo cuore si fece un po’ più
stretta. Some people are suckers for punishment.
“Lascia
che vada a spegnere di là.” Le disse, ma Kay lo
trattenne ancora un attimo.
“Ce
l’hai ancora la mia coperta?” Chiese.
“Certo.”
Il
pollice
di Kay gli sfiorò teneramente le nocche della mano, prima di
lasciarla andare e
barcollare verso la sua stanza.
J.T.
si trascinò verso il salotto. A volte essere amico della
donna che ami fa
veramente schifo.