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Autore: EffieSamadhi    09/04/2023    1 recensioni
Londra, giorni nostri.
Clarissa ha ventisette anni, un cane e un lavoro che la soddisfa, ma dopo una brutta delusione non è più riuscita ad abbandonarsi all'amore. Almeno finché non incontra Christian, il suo nuovo capo, un uomo eccentrico e scanzonato ma dal passato estremamente misterioso...
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Clarissa1

Capitolo primo.

 

 

 

 

 

Londra, aprile

 

            Come ogni mattina, la cabina dell’ascensore era gremita di persone. Clarissa si strinse nelle spalle e guadagnò un angolo, tentando strenuamente di ignorare il nauseante profumo alla vaniglia portato da Gladys, la responsabile dell’ufficio contabile. Lo aveva sempre detestato, ma quella mattina lo trovava più fastidioso che mai. Deve essere perché sono appena rientrata dalle ferie e non ci sono più abituata, si convinse. Alzò lo sguardo, concentrandosi sul display a cristalli liquidi che troneggiava sulle loro teste. Terzo piano, ne mancavano nove alla sua destinazione. Il cellulare all’interno della tasca della giacca vibrò: con qualche manovra difficoltosa riuscì a estrarlo per leggere il messaggio appena ricevuto. Atomica al dodicesimo piano. Grande casino. Ti aspetto in ufficio. Clarissa aggrottò la fronte, tentando invano di decifrare il criptico messaggio di Ava. Non era strano che l’amica, illustratrice di professione, trasformasse un semplice sms nell’anteprima di una catastrofe, perciò non si preoccupò. Conoscendo la sua tendenza a drammatizzare ogni evento, era possibile che la fonte dell’agitazione derivasse semplicemente da un ficus spostato di dieci centimetri.

            Al sesto piano Gladys lasciò la cabina, portandosi dietro la fragranza nauseabonda e un buon numero di colleghe. Con l’aumento dello spazio vitale, Clarissa si staccò dalla parete e prese fiato, rispondendo velocemente al messaggio di Ava. Calmati o ti verrà un infarto. Due minuti e sono da te. Approfittando del cellulare ancora stretto in mano, ne avviò la fotocamera per controllare la propria immagine. Non era mai stata ossessionata dal proprio aspetto, ma voleva essere certa di aver conservato l’aria rilassata conquistata a fatica durante la settimana di vacanza. Sorrise brevemente alla propria immagine riflessa, pensando che sette giorni non erano stati sufficienti a smaltire tutta la stanchezza e lo stress accumulati negli ultimi mesi.

            Ripose il cellulare in tasca e tornò a fissare il display, che indicava il nono piano. Quella corsa iniziava a sembrarle interminabile. Inaspettatamente tutti i suoi compagni di viaggio scesero, lasciandola sola. Felice di potersi godere qualche minuto di pace prima di ripiombare nella frenesia della routine lavorativa, Clarissa ebbe un sussulto quando qualcosa bloccò improvvisamente le porte mentre queste si stavano richiudendo. Al braccio comparso di colpo tra i pannelli scorrevoli seguì un uomo piuttosto alto, che entrando nella cabina premette il tasto quindici sulla pulsantiera. La salutò con un grande sorriso. «Buongiorno!»

            «B-buongiorno» balbettò lei, vagamente confusa. Lavorava in quella società ormai da tre anni e conosceva praticamente tutti i colleghi, almeno di vista. Ma era sicura di non aver mai incontrato prima quell’uomo, perciò concluse che doveva trattarsi di un visitatore occasionale. Lo osservò appoggiarsi alla parete in acciaio con assoluta nonchalance, digitando qualcosa sul proprio cellulare senza abbandonare il sorriso. C’era qualcosa che sembrava stonare in quella sua rilassatezza, come se appartenesse a un altro mondo e si fosse ritrovato nel posto sbagliato senza essersi reso conto dell’errore. La camicia perfettamente stirata e l’abito alla moda gli conferivano l’aria distinta di un dirigente: pensò si trattasse di un investitore venuto per incontrare il consiglio di amministrazione, poi l’occhio le cadde sul braccialetto di perline colorate che portava al polso destro.

            «Lo ha fatto mia nipote, Patricia. Ha cinque anni. Le piace?»

            Clarissa arrossì, furiosa con se stessa per essersi fatta cogliere in flagrante. «Sì, è molto carino» si limitò a rispondere, costringendosi a sorridere nonostante il desiderio di scomparire. Trascorse il resto della corsa fissandosi la punta delle scarpe, in preda all’imbarazzo più profondo. Le porte della cabina si aprirono finalmente sul dodicesimo piano, consentendole una rapida via di fuga. «Buona giornata.»

            «Buona giornata anche a lei!» trillò lo sconosciuto.

            Clarissa raggiunse a passo svelto la propria postazione, trovando Ava appollaiata sul bordo della scrivania con le gambe accavallate. «Finalmente sei arrivata! È successo un casino epocale, al quinto piano non si parla d’altro!»

            «Se l’azione è al quinto piano, perché tu sei qui?» domandò Clarissa, appoggiando la borsa sulla sedia e premendo il tasto di accensione del computer. Non aveva mai amato i pettegolezzi, anche se doveva ammettere che la teatralità di Ava riusciva sempre a stimolare la sua curiosità.

            «Non è successo al quinto piano, ma qui. O per meglio dire, » ribatté l’altra ragazza, saltando giù dalla scrivania e indicando con il dito la porta alle spalle dell’amica. Clarissa si voltò, guardò nella direzione indicata, poi tornò a guardare avanti, senza capire che cosa potesse essere accaduto nell’ufficio del suo diretto superiore. «L’ho sempre detto che quell’ufficio era la tana del lupo.»

            «Vuoi smetterla di parlare per indovinelli e parlare chiaro? Devo preparare il caffè, Spencer sarà qui tra pochi minuti.»

            «Niente più Spencer, baby

            «Cosa?»

            «Niente più Spencer. Licenziato, cacciato, spedito, silurato. Spencer ist kaputt» aggiunse Ava, rispolverando quel poco che ricordava delle lezioni di tedesco del liceo. «Il signor Bradley lo ha colto nel mezzo di un ripassino di anatomia con la signora Bradley» spiegò, abbassando appena la voce.

            «No!» esclamò Clarissa, sconcertata. «Perché non mi hai chiamata per dirmelo?»

            «Venerdì si vociferava qualcosa, ma ho saputo tutti i dettagli solo stamattina» replicò l’altra, facendo spallucce. «E poi questo weekend si sposava mio cugino, quindi non ho avuto tempo di chiamarti» aggiunse, gettando un’occhiata all’orologio. «Ti racconto tutto a pranzo, tra dieci minuti ho una riunione di staff a cui non posso proprio mancare! Ci vediamo dopo!» urlò, già a metà del corridoio.

            Clarissa rimase in piedi dietro la scrivania, incredula. Il comportamento di Ava non la stupiva, in fondo era proprio da lei gettare il sasso e poi fuggire senza curarsi dei turbamenti che si lasciava alle spalle. A preoccuparla di più era la nuova situazione: se il suo diretto superiore era stato licenziato in tronco, che ne sarebbe stato di lei? Iniziò subito a rovistare tra le carte abbandonate sulla scrivania in cerca di una qualsiasi comunicazione da parte dell’ufficio del personale, senza trovarne. D’altra parte, si disse, non sono stata io ad andare a letto con la moglie di uno dei soci della compagnia. Si lasciò cadere sulla sedia girevole e sospirò, portandosi una mano al petto per calmare il battito cardiaco. Una non può nemmeno assentarsi per una settimana che succede il finimondo, pensò. Osservò il computer ormai acceso, si impadronì del mouse e avviò il programma di posta. Non c’erano comunicazioni urgenti né preavvisi di licenziamento, e questo la rincuorò. Restava tuttavia un nodo da sciogliere: ora che il suo capo era stato licenziato, a chi avrebbe dovuto far riferimento? Decise che il modo migliore per affrontare la situazione fosse quello di conservare la solita routine, fingendo che non fosse successo nulla. D’altronde era stata in vacanza per una settimana, era più che normale che non fosse al corrente delle ultime novità. Prima o poi qualcuno si sarebbe degnato di illustrarle la nuova situazione. Forte della propria convinzione, si alzò e raggiunse l’angolo alle proprie spalle, apprestandosi a preparare il caffè.

            Mentre riempiva il serbatoio della macchinetta con l’acqua, ripensò alla propria carriera all’interno della società. Si era presentata alla porta della More Books Publishing tre anni prima, fresca di una laurea in Letteratura e con il sogno di sfondare nel mondo dell’editoria. Ma la realtà era stata dura con lei, e il massimo che fosse riuscita a ottenere era stato un posto di receptionist all’ingresso. Un paio di mesi dopo Spencer Glencorse l’aveva notata e richiesta come propria assistente personale. Clarissa sapeva che non erano stati i suoi meriti a farle ottenere quel posto, quanto piuttosto il suo fisico asciutto e l’aspetto gradevole. Spencer non aveva mai fatto mistero della propria attrazione fisica, cogliendo ogni occasione per rimarcare quanto gli sarebbe piaciuto instaurare un rapporto amichevole. Clarissa, però, forte degli insegnamenti ricevuti in famiglia, era sempre stata pronta a ricordargli che si trovava lì per lavorare, e non per soddisfare i suoi pruriti. Sebbene lo avesse sempre trovato un uomo molto attraente, era stata molto attenta nel tracciare confini precisi, una linea netta che non potesse lasciare spazio a fraintendimenti.

            Il caffè iniziò a colare nella caraffa di vetro, e cominciò a chiedersi quante cose sarebbero cambiate. In due anni e mezzo aveva sempre cercato di dare il meglio di sé sia sul lavoro che nei rapporti interpersonali, ottenendo ottimi risultati: i suoi capi si erano sempre detti contenti del suo operato e i colleghi di lavoro la apprezzavano – l’amicizia con Ava ne era una prova lampante, si conoscevano da poco più di due anni ed erano ormai amiche del cuore. Non sarebbe stata pronta a ricominciare tutto da capo in un’altra azienda. Più di tutto il resto temeva l’ipotesi di essere costretta a rientrare a casa, in seno alla propria famiglia, ammettendo il fallimento. Quella sarebbe stata davvero la peggior disfatta.

            Quando il caffè fu pronto, dei passi lungo il corridoio annunciarono l’arrivo di qualcuno. Clarissa inspirò a fondo un paio di volte, tentando di recuperare la calma perduta. Alzando lo sguardo si trovò di fronte il signor James, uno dei due soci fondatori della casa editrice. «Buongiorno, signorina Breckenridge. Bentornata dalla sua vacanza. Spero abbia trascorso giorni felici.»

            Clarissa rimase sorpresa sia dal fatto che l’uomo conoscesse il suo nome, sia dall’idea che sapesse del suo rientro dalle ferie. Tuttavia fece appello a tutta la propria forza per risultare calma e accomodante come al solito. «Buongiorno, signor James. Capita al momento giusto, ho appena preparato il caffè. Il signor Glencorse dovrebbe essere qui a minuti» aggiunse ad arte, fingendosi completamente all’oscuro dei cambiamenti.

            «Accetto volentieri il caffè, signorina Breckenridge» rispose lui, sistemandosi distrattamente il polsino della camicia. «Tuttavia temo di doverla informare che ci sono stati alcuni… cambiamenti all’interno della società.» Clarissa riempì per metà una tazza, aggiungendo una zolletta di zucchero e un cucchiaio di panna per poi porgere la bevanda all’uomo. Talvolta le era capitato di servire il caffè durante alcune riunioni di consiglio, imparando molto sulle preferenze dei dirigenti. «Suvvia, ne prenda uno anche per sé» la esortò, accomodandosi sulla sedia posta davanti alla scrivania. Clarissa lo osservò con attenzione mentre riempiva una seconda tazza. Il signor James era un uomo di bassa statura e di aspetto piuttosto comune, eppure dotato di una certa naturale autorevolezza, dono di ben pochi uomini, che lo rendeva estremamente carismatico. Rimestando con il cucchiaino nella tazza, sembrò scegliere con estrema cura le proprie parole. «Sono certo che le sia già stato riferito che il signor Glencorse ha lasciato la nostra famiglia» iniziò, ponendo un accento particolare sull’ultima parola. «Apprezzo il suo tentativo di mostrarsi ignara dell’accaduto, ma so che la notizia ha fatto rapidamente il giro del quartiere» aggiunse, sorseggiando la bevanda calda. «Non le nascondo che l’addio del signor Glencorse è stato piuttosto burrascoso. Le risparmio i dettagli, avrà modo di conoscerli chiacchierando con i suoi colleghi» disse ancora, un sorriso aperto stampato sul volto segnato dal tempo. «Sono qui per rassicurarla circa il fatto che la sua posizione non è assolutamente in discussione.» Il signor James amava riferirsi all’impresa come a una grande famiglia allargata, e questo a Clarissa aveva sempre fatto piacere: pensare che un imprenditore milionario potesse considerarla come una sorta di figlia acquisita la rendeva più tranquilla circa il suo ruolo all’interno dell’assetto societario. «Naturalmente, però» riprese l’uomo, aggiustandosi la cravatta, «alcune delle sue abitudini dovranno cambiare.» Controllò l’orologio. «Se non ho sbagliato i miei calcoli, tra poco il signor Murray dovrebbe raggiungerci.»

            «Il signor Murray?»

            «Scusate il ritardo, ma questo palazzo è un labirinto!» intervenne una voce poco lontana. Clarissa alzò lo sguardo e si sentì sprofondare: lo sconosciuto dell’ascensore stava marciando a grandi passi verso di loro. In un istante, la realtà si palesò davanti ai suoi occhi in tutta la sua forza: lo sconosciuto dell’ascensore sarebbe stato il suo nuovo capo.

            «Grazie di averci raggiunto, Christian» lo salutò l’altro uomo, alzandosi per stringergli la mano. «Chiederò all’usciere di fornirle una pianta dell’edificio, se la cosa potrà servire.»

            «Ringrazio per l’offerta, ma credo saranno sufficienti due o tre giorni per adattarmi. Ho sempre avuto l’indole dell’esploratore.»

            «Mi fa piacere sentirlo. L’intraprendenza è un valore aggiunto qui da noi. Ora lasci che le presenti la sua assistente» aggiunse il signor James, stendendo un braccio verso Clarissa per sottolineare la sua presenza.

            «Oh, ma noi ci conosciamo già!»

            «Sul serio? Che meravigliosa notizia!»

            «Sì, ci siamo incontrati in ascensore» spiegò Clarissa, alzandosi dalla sedia. «Ma non si può dire che ci siamo veramente presentati. Clarissa Breckenridge» aggiunse con un sorriso, tendendogli la mano.

            «Christian Murray. È un piacere conoscerla, Clarissa» replicò lui, restituendo la stretta. Lei trovò che avesse una presa solida, tipica di molti uomini di successo, e la cosa le fece un’ottima impressione. Poi lui aggiunse, senza accennare a lasciarle la mano: «Il nome Clarissa deriva dal latino. Il suo significato è brillante. Lo sapeva?»

            Sulle prime lei non seppe che rispondere. Come già successo in ascensore, quell’uomo l’aveva sorpresa con un intervento del tutto inaspettato. «In realtà, no» rispose, lasciandogli la mano. «Ho ereditato il nome da un’anziana prozia, ma non ne conoscevo il significato.»

            Il signor James intervenne nuovamente nel dialogo. «Non so spiegarmene il perché, ma ho la sensazione che voi due lavorerete molto bene insieme. Signorina Breckenridge, da oggi lei sarà l’assistente del signor Murray. Mi auguro che continuerà a svolgere il suo lavoro con la medesima cura dimostrata in questi ultimi due anni e mezzo.»

            «Naturalmente, signor James.»

            «Molto bene. Mio caro Christian, noi ci siamo già confrontati a lungo, dunque non vedo alcuna ragione di trattenerla oltre. In caso di necessità saprà dove trovarmi. Ma non credo ce ne sarà il bisogno: le assicuro che la signorina Breckenridge sarà un’ottima collaboratrice.»

            «Ne sono certo» rispose l’altro, continuando a sorriderle.

            «Molto bene, molto bene. Auguro un buon lavoro a entrambi. Signorina Breckenridge, come sempre il suo caffè è spettacolare.»

            «La ringrazio, signor James. Le auguro una buona giornata» concluse la ragazza, osservandolo allontanarsi a passo lento. Tornò a voltarsi verso il suo nuovo principale, che continuava a fissarla con aria curiosa. Cominciava a trovarlo vagamente irritante: non le era mai piaciuto sentirsi al centro dell’attenzione, e di certo non voleva iniziare una nuova collaborazione sentendosi costantemente sotto la lente del microscopio. Decise di prendere in mano la situazione, se non altro almeno per potersi smarcare dallo sguardo indagatore dell’uomo. «Le mostro il suo ufficio» disse, voltandosi per raggiungere la stanza dietro di sé. Quando aprì la porta, spalancò gli occhi per la sorpresa: Spencer aveva lasciato la società appena tre giorni prima, dunque a rigor di logica il suo ufficio sarebbe dovuto essere vuoto. Al contrario, lo trovò già completamente ridecorato secondo lo stile del signor Murray. «Ma che diavolo…» fu il sussurro che sfuggì alle sue labbra.

            «Le piace?»

            «Ma quando è riuscito a sistemare tutto?»

            «Oh, l’ho fatto ieri. Ho pensato fosse meglio così, almeno potremo iniziare subito a lavorare.» Clarissa mosse qualche passo nella stanza, notando subito le enormi differenze tra il gusto di Spencer e quello del signor Murray. Fino alla settimana precedente quell’ufficio era stato un monumento alla raffinatezza e all’eleganza, con quadri d’autore appesi alle pareti e un mobile bar ben rifornito nell’angolo accanto alla finestra che affacciava sul parco. Quella mattina, invece, sembrava che nella stanza fosse esplosa una bomba. «Quelli li porterò via presto, appena avrò trovato un posto in cui sistemarmi» spiegò l’uomo, indicando i vestiti aggrovigliati sparsi sul divano in pelle. «Quando il signor James mi ha chiamato offrendomi il posto, sono partito così in fretta che a malapena sono riuscito a chiudere la valigia. In verità molte delle mie cose sono rimaste a Oxford. L’università ha già organizzato la spedizione.» Clarissa si voltò a guardarlo con aria interrogativa, chiedendosi perché avesse nominato il famoso ateneo. «Tenevo un paio di corsi alla facoltà di Letteratura, dovevo restituire un favore a un amico» spiegò lui, quasi leggendole nel pensiero.

            L’attenzione della ragazza fu poi catturata da una serie di foto incorniciate disposte sopra una mensola poco lontana: in quasi tutte erano ritratti dei bambini. «Sono molto carini» osservò, ed era sincera. I bambini le erano sempre piaciuti molto, tanto che ogni volta che tornava a casa spendeva quasi tutto il tempo facendo da babysitter ai figli delle proprie sorelle.

            «Sono i miei nipoti» disse lui, prendendo tra le mani una foto che ritraeva cinque bambini seduti insieme su un prato. «Questi sono Christine e Jeremy, i figli di mio fratello» aggiunse, indicando i due più grandi. «Questi invece sono i figli di mia sorella: Patricia, Catherine e Michael» concluse, indicando gli altri.

            «Patricia è quella che le ha regalato il braccialetto, giusto?»

            «Sì, proprio lei» replicò lui con una risata, osservando una sorridente bambina con i capelli rossi e il viso coperto di lentiggini. «Mi rendo conto che non è molto onorevole per un uomo della mia età e nella mia posizione indossare braccialetti di perline, ma se lo togliessi lei si offenderebbe a morte.»

            «Mai deludere una ragazza» commentò lei, sorridendo a sua volta. Pensò che era vero quel che si diceva, che l’apparenza poteva ingannare. Se a un primo sguardo il signor Murray le era sembrato un uomo molto strano, quelle poche e semplici confidenze stavano lentamente trasformando l’opinione che aveva di lui, sebbene fosse consapevole che cinque minuti non fossero abbastanza per conoscere davvero una persona.

            «Vorrei assegnarle il primo compito della giornata, se è d’accordo.»

            «Sono a sua disposizione, signor Murray.»

            «Vada a prendere un paio di caffè e ritorni qui. Voglio fare due chiacchiere con lei. Per conoscerci meglio» aggiunse.

            Clarissa aggrottò la fronte. Un paio di minuti, e il signor Murray era di nuovo sprofondato nel mistero. Quale altro uomo nella sua posizione avrebbe chiesto alla propria segretaria di prendere un caffè insieme? Nemmeno Spencer glielo aveva mai proposto, eppure avevano lavorato a stretto contatto per più di due anni. Tuttavia, decise di obbedire. «Come gradisce il caffè, signore?»

            «Nero e senza zucchero, grazie. Se il signor James ha ragione e il suo caffè è così buono, non ci sarà bisogno di alcuna aggiunta.» Perfetto, un altro po’ di pressione era esattamente quello di cui avevo bisogno.

 

            Un paio di minuti più tardi, rientrando nella stanza con due tazze fumanti, Clarissa lo trovò affacciato alla finestra, impegnato a fissare il panorama. «Questo parco è meraviglioso. Ci sono un sacco di cani! Io adoro i cani» lo sentì dire, forse rivolto più a se stesso che a un pubblico. «Lei ha animali?»

            «Ho un cane, anche a me piacciono molto. L’ho salvato dal canile quasi tre anni fa, poco dopo aver iniziato a lavorare qui.»

            «Come si chiama?»

            «Beh, io… è un nome un po’ stupido» chiosò lei. «Si chiama Harry.»

            «Un omaggio al maghetto più famoso del mondo?»

            «Un omaggio al principe ereditario di questo Paese, in realtà» replicò lei, vergognandosi un po’. «Ha il pelo rossiccio ed è piuttosto vivace, all’epoca mi sembrò adeguato.»

            «Non posso darle torto» ribatté lui, accettando la tazza che gli veniva offerta. Se la portò alle labbra e assaggiò la bevanda bollente, facendo attenzione a non scottarsi. «Il signor James aveva ragione, è uno dei caffè migliori che abbia mai bevuto» aggiunse, abbassando la tazza. «Harry…» sussurrò poi con un sorriso. «La sua scelta denota un certo patriottismo.»

            «Lo farebbe se fossi inglese. Sono nata a Cork. Ho la doppia cittadinanza, però mi sono sempre sentita più irlandese.»

            «Il suo cognome dice il contrario. Breckenridge… mi fa pensare a una famiglia nobile. Sa quei nobili che vivono in campagna, vanno a caccia di quaglie e hanno sempre un segugio sdraiato davanti al camino acceso? Ecco, pensando al suo cognome immagino una cosa del genere» osservò lui, accomodandosi sulla sedia e facendole cenno di imitarlo.

            «Mio padre è di Manchester. A vent’anni partì per un viaggio attraverso l’Europa. Ebbe la malaugurata idea di cominciare dall’Irlanda, conobbe mia madre e lì si fermò» spiegò con una lieve alzata di spalle. «La famiglia decise di disconoscerlo per questo. Proveniva da una famiglia non nobile ma molto agiata, mentre mia madre… non lo era» concluse in fretta, sorseggiando il proprio caffè.

            «Un ottimo spunto per un grande romanzo. Posso supporre che non ci sia stato lieto fine?»

            «Da nessuna parte c’è mai stata un’offerta di pace. Ma dopo quarant’anni di matrimonio e sette figlie, non è difficile capire chi fosse dalla parte del giusto.»

            «Sette figlie? Santo cielo, mi stupisce che suo padre non sia scappato con il primo circo disponibile! Sto scherzando, naturalmente» aggiunse dopo un istante, tornando serio. «Mi scuso se l’ho offesa.»

            «Nessuna offesa, signor Murray. Sono la prima a scherzarci su.»

            «A proposito, penso sia il caso di mettere qualche puntino sulle i» riprese lui. «Il signor Murray è mio padre. Io gradirei essere chiamato Christian, se la cosa non le crea problemi. E mi piacerebbe poter chiamare lei semplicemente Clarissa» aggiunge. «Strillare signorina Breckenridge attraverso l’interfono mi darebbe l’impressione di chiamare la governante. Naturalmente continueremo a darci del lei finché non deciderà che sia il caso di passare a una maggiore confidenza.»

            «Finché non lo deciderò… io?» domandò la ragazza, sempre più confusa dallo strano atteggiamento di quello strano, strano uomo.

            «Personalmente mi ritengo una persona estremamente cordiale e detesto i formalismi. Mi piacerebbe che un giorno arrivassimo a darci del tu, anche se mi rendo conto che sia ancora un po’ presto.»

            Lei ci rifletté su per qualche istante. Il signor James e il signor Bradley, fondatori della casa editrice, avevano sempre incentrato la loro impresa sul concetto di famiglia, trattando i loro dipendenti e collaboratori quasi come dei figli, dunque non le dispiaceva l’idea di poter chiamare il proprio diretto superiore con il solo nome di battesimo. In un certo senso sentiva che la cosa li avrebbe avvicinati, forse spingendoli a lavorare meglio. Tuttavia aveva passato così tanto tempo alle dipendenze dirette di Spencer da essersi quasi dimenticata di come ci si sentisse a essere trattati come pari. «Il signor Glencorse non mi ha mai chiamata per nome» osservò a mezza voce.

            «Questo non significa che le cose non possano cambiare» replicò lui, sporgendosi appena sopra la scrivania. «A quanto mi dicono, il signor Glencorse era solito anche abusare del suo tempo libero» aggiunse con aria complice, e Clarissa comprese immediatamente che si stava riferendo a tutte le commissioni svolte per il suo vecchio capo. «Posso garantirle che questo non succederà, finché lavoreremo insieme. Si lavora per vivere, non si vive per lavorare. E avere un sottoposto non significa possederlo.»

            «La ringrazio, signor M… Christian» si corresse in fretta.

            «Molto bene» sorrise lui, tornando ad accomodarsi sulla sedia. «Ora, che ne direbbe di illustrarmi i progetti ai quali stava lavorando il mio predecessore? Suppongo che dovremo riprendere da dove lui ha interrotto.»

 

 

***

 

 

            Ava l’aggredì non appena varcato il portone del palazzo, come al solito curiosa e avida di ogni dettaglio. «Che aspetti? Sputa il rospo!»

            «A che ti riferisci?»

            «A chi mi riferisco, vorrai dire! Parlo del tuo nuovo capo!»

            «E tu come faresti a sapere che ho un nuovo capo?» domandò Clarissa, facendo spallucce come una bambina ingenua, cominciando a camminare lungo il marciapiede.

            «So quello che mi ha raccontato Ronnie, cioè ben poco, ma abbastanza per sapere che devi avere un sacco di cose da raccontare! E poi Spencer è stato licenziato, quindi devi per forza avere un nuovo capo.»

            «Parliamo di Ronnie l’usciere, quello che ti fa gli occhi dolci da quando è arrivato?» Clarissa amava punzecchiarla a proposito di quel ragazzo: era stato assunto all’incirca un anno e mezzo prima, e dal primo momento si era preso una cotta formidabile per Ava. La ragazza, dal canto suo, non sembrava disdegnare l’interesse, ma il continuo tira-e-molla con lo storico fidanzato l’aveva sempre trattenuta dall’approfondire la conoscenza. «Chissà, la prossima volta che tu e Danny vi lascerete potresti chiedergli di uscire.»

            «Senti, non siamo qui per discutere di Ronnie e delle sue cotte» tagliò corto Ava. «Avanti, raccontami qualche particolare! È un tipo in gamba? Lo sai che odio stare sulle spine!»

            «Si chiama Christian Murray» cedette Clarissa, fingendosi particolarmente concentrata nel riportare alla memoria i particolari salienti. «Ha un fratello, una sorella e cinque nipotini. È stato contattato dal signor James in persona e si è precipitato qui subito da Oxford, dove ha tenuto dei corsi alla facoltà di Letteratura. Gli piace il mio caffè e porta un braccialetto di perline fatto dalla sua nipotina di cinque anni.»

            «Ok, tutte cose molto interessanti, ma è vero che è tremendamente sexy? Gladys della contabilità dice di non aver mai visto un uomo tanto attraente.»

            «Gladys non esce con un uomo dal Mesozoico. Credo che troverebbe attraente anche un paracarro.»

            «Va bene, forse Gladys non è il testimone più attendibile del mondo. Ma tu hai sempre avuto un ottimo gusto in fatto di uomini.»

            «E quindi?»

            «E quindi che ne pensi? È carino?»

            Clarissa si strinse nelle spalle. «Non lo so, non ci ho pensato. L’ho appena conosciuto.»

            «Sì, ma è carino?»

            Clarissa si prese un attimo per riflettere sulla risposta. «Non saprei… è alto, ha un bel fisico. Potrebbe avere… non lo so, hai presente quegli uomini di cui non si riesce mai a stabilire l’età precisa? Potrebbe avere tra i trentacinque e i quarantacinque anni, credo. Ma non ne sono sicura. E poi… beh, ha i capelli scuri, un bel taglio, e…»

            «E gli occhi?»

            «Castani. Un bel castano scuro.»

            «Di quelli che se ci guardi dentro troppo a lungo rischi di caderci?»

            «Sì, qualcosa del genere» ammise Clarissa con una leggera risata.

            «E tu avresti la faccia tosta di venirmi a dire che non è un bell’uomo?» la stuzzicò Ava, sapendo che l’amica aveva appena descritto il proprio uomo ideale. «Almeno è un gentiluomo oppure un porco come Spencer?»

            «Mi è sembrato un uomo molto cordiale, un vero tipo inglese. E comunque Spencer non era un porco.»

            «Certo che no» sbuffò Ava, alzando gli occhi al cielo. «Credo si sia fatto almeno la metà delle donne che lavorano alla More Books. E non dirmi che non è vero, ricordo quante volte mi hai raccontato delle sue proposte piccanti

            Si fermarono davanti alla porta del piccolo ristorante italiano che frequentavano quasi quotidianamente. «Ma l’ho sempre respinto, e dopo un po’ ha smesso di darmi fastidio.»

            «Almeno avrà provato una volta nella vita l’ebbrezza di sentire una donna rispondergli di no. Santa Clarissa da Cork, la futura ex signora Bradley avrebbe molto da imparare da te!» sospirò Ava, spingendo il battente per entrare nel locale.

            «A proposito, hai promesso di raccontarmi tutti i particolari» le ricordò Clarissa mentre raggiungevano il loro solito tavolo, salutando il personale e alcuni avventori abituali.

            «Beh, non è che ci sia chissà cosa da raccontare» rispose l’altra, sedendosi e afferrando il menu. «Sembra che il signor Bradley sospettasse da tempo che la signora si dedicasse a un nuovo tipo di opere di carità» continuò, sfogliando distrattamente le pagine. «Così ha assunto una persona che la tenesse d’occhio, soprattutto quando lui era fuori città per lavoro.»

            «Ha assunto un investigatore privato per seguire sua moglie?»

            «Poteva anche immaginarselo che prima o poi lei avrebbe cercato qualcosa di più adatto. Non puoi arrivare a sessantacinque anni, sposare una ex modella di biancheria intima che potrebbe essere tua nipote e aspettarti che ti sia fedele per sempre.»

            «Da quando sei diventata così cinica?»

            «Oh, andiamo, non farmi la morale!» sbottò Ava, chiudendo di scatto la lista dei piatti. «Non poteva certo aspettarsi che durasse per sempre… quando mai succede?»

            Clarissa fu molto sorpresa dalla reazione dell’amica. Non era da lei essere così tagliente, soprattutto quando si parlava di sentimenti. «Ma tu non eri quella che cercava di convincere me dell’esistenza dell’amore vero?»

            «Ma io credo ancora che l’amore esista davvero. Solo, non credo che ci si possa aspettare di vivere per sempre con una persona che hai sposato a meno di tre mesi dal primo incontro. Ci vuole tempo per conoscere bene una persona, e questo lo sai anche tu.»

            «Sì, questo è vero, ma… insomma, li ho visti spesso insieme. Mi sembravano una coppia affiatata, nonostante la differenza di età.»

            «Infatti lei si è fatta sorprendere con il vestito alzato nell’ufficio di Spencer. Non credo le stesse togliendo una zecca.» A Clarissa sfuggì una risata. «Comunque è andata così, da quello che so. Una sera il signor Bradley ha finto di uscire per una cena di lavoro. Lei è saltata in macchina e ha raggiunto Spencer in ufficio, e mentre Spencer aveva le braghe calate…»

            «Il signor Bradley è entrato in scena» concluse Clarissa.

            «Voci non confermate dicono che gli abbia addirittura dato un pugno in faccia, ma non ci credo molto. Sembra un uomo così distinto…»

            «No, neanche a me dà l’impressione di uno che darebbe il via a una rissa.» Alzò gli occhi in cerca del cameriere. Tutte le novità della mattinata le avevano messo addosso una fame incredibile, e non vedeva l’ora di poter ordinare per mettere finalmente qualcosa sotto i denti. «Secondo te quanto ci vorrà per… signor Murray, lei che ci fa qui?» esclamò, trovando improvvisamente il suo capo nel proprio campo visivo.

            «Clarissa, che piacere! Ma non avevamo stabilito di chiamarci per nome?»

            Clarissa avvertì lo sguardo indagatore di Ava e desiderò di essere inghiottita dal pavimento. Sai quanto mi prenderà in giro, adesso? «Ha deciso di pranzare qui?» gli domandò, scegliendo di ignorare l’amica.

            «L’entrata mi affascinava, perciò mi sono affacciato per dare un’occhiata all’interno. Adesso che so che lei pranza qui, penso proprio che mi fermerò. So che ha un ottimo gusto, dunque mi fiderò di lei.» Clarissa desiderò di sprofondare una volta di più, convinta che l’amica le avrebbe dato il tormento per sempre. «Mi perdoni, sono stato davvero ineducato» aggiunse l’uomo, voltandosi verso Ava. «Christian Murray, sono un nuovo collega di Clarissa» si presentò, porgendole la mano.

            «Ava Daniels, piacere di conoscerla» rispose lei, ricambiando la stretta. «Anche io lavoro alla More Books, reparto grafico. Mi perdoni, forse ho capito male… pensavo che lei fosse il nuovo capo di Clarissa.» L’interessata, nascosta dal tavolo, le assestò un calcio ben piazzato sullo stinco.

            «Sì, in un certo senso è così, ma non trovo molto elegante presentarmi come il capo di qualcuno. Pone subito in antipatia, non crede?»

            «In effetti lo credo anche io» replicò Ava, stringendo i denti per nascondere il dolore causato dal colpo dell’amica. «Aspetta qualcuno oppure è solo?»

            «Ahimè, non conosco ancora nessuno, dunque pranzerò da solo.»

            «Perché non si unisce a noi?» propose, spostando le gambe per evitare un nuovo assalto. «Conosce già Clarissa, e imparerà presto quanto sia facile andare d’accordo con me.»

            «La proposta mi alletta molto. Accetto volentieri, sempre che entrambe siate d’accordo» aggiunse, guardando prima l’una e poi l’altra ragazza.

            «Ma certo!» replicò Clarissa in un tono di voce cinque volte più alto del normale, pensando ad almeno cinque modi diversi per torturare quella che fino a quel punto aveva considerato la sua migliore amica. Che dovrei rispondere, che non mi va? No grazie, vorrei tenermi il mio lavoro ancora per almeno altri vent’anni.

            «Allora è andata» sorrise lui, sfilandosi il cappotto e richiamando l’attenzione di un cameriere con un elegante e discreto gesto della mano. «Mi perdoni, potrebbe gentilmente aggiungere un posto a tavola?»

            Clarissa assottigliò lo sguardo, puntandolo su Ava. Io ti ammazzo, sillabò.

 

            «Dio salvi la lasagna!» esclamò Ava nell’istante in cui il cameriere le poggiò davanti la sua ordinazione.

            Christian scoppiò a ridere. «Quattrocento anni fa per aver detto una cosa simile le avrebbero tagliato la testa.»

            «Ho sempre creduto nella reincarnazione» rispose l’altra ragazza, alzando le spalle mentre si infilava in bocca un grosso boccone. «Forse in una vita precedente ero Anna Bolena. A proposito di personaggi importanti» riprese, masticando piuttosto rumorosamente, «Clarissa mi diceva che ha tenuto dei corsi a Oxford» disse, ignorando l’occhiata assassina dell’amica.

            «Non mi definirei un personaggio importante, ma… sì, è vero. Mi trovavo tra un impiego e l’altro, e un amico della facoltà di Letteratura mi ha chiesto di organizzare un ciclo di lezioni. Ogni tanto lo faccio, è un’esperienza appagante.»

            «Tra un impiego e l’altro? È stato licenziato?» Clarissa avrebbe tanto desiderato un mantello dell’invisibilità: la completa mancanza di tatto di Ava, qualità che aveva sempre apprezzato, ora la stava mettendo in serio imbarazzo. Si domandò quanti minuti sarebbero trascorsi prima che Christian si stancasse di quell’interrogatorio.

            «No, mi sono mandato via» rispose lui in tono allegro, apparentemente per nulla angosciato da quella ineducata ed invadente raffica di domande. «Ho lavorato per cinque anni alla Stardust Paper, una casa editrice di Liverpool.»

            Ava annuì con decisione, bevendo un po’ d’acqua. «Conosco la Stardust, subito dopo la laurea mandai il curriculum, ma non mi richiamarono mai. Sembrava un buon posto in cui lavorare.»

            «Un ottimo posto davvero. Avevo una bella squadra di collaboratori, la paga era buona e la città mi piaceva… ma ad un certo punto la direzione decise di dedicarsi completamente alla saggistica, dismettendo la sezione narrativa.»

            «E la cosa non le interessava?» intervenne finalmente Clarissa dopo un lunghissimo silenzio.

            «Preferisco avere a che fare con la narrativa. Trovo chi scrive romanzi molto più interessante.»

            «Ha mai lavorato con qualche scrittore famoso?» si interessò Ava, determinata a scoprire il più possibile circa il nuovo acquisto dell’amministrazione.

            «Mai con grandi nomi. Ma chissà, forse qui alla More Books succederà. So che avete un catalogo di alto livello.»

            «Beh, tra i contatti del signor Glencorse c’erano parecchi nomi interessanti» osservò Clarissa. «Annabeth Buckley, per esempio. Il suo ultimo romanzo ha venduto dieci milioni di copie. È un ottimo risultato, considerando che si tratta soltanto del suo terzo libro.»

            «Oh, adoro il suo modo di scrivere» replicò Christian. «Il suo modo di tratteggiare i personaggi mi ricorda molto lo stile di Agatha Christie. E nelle sue pagine c’è sempre quel sottile velo di ironia mista a sagacia, così simile a…»

            «…Jane Austen, vero?» lo interruppe Clarissa con un sorriso. «L’ho sempre pensato anche io.»

            «E bisogna aggiungere che è stata davvero magistrale nel mantenere vivo l’interesse dei lettori. Quando si crea una serie c’è sempre il rischio di appiattire la storia o i personaggi, ma a lei non è successo. Qual è il suo libro preferito?»

            «Forse il secondo, Cartoline da Marsiglia. Fino all’ultima pagina ero convinta che Frederick fosse davvero l’assassino.»

            Ava rimase volutamente in silenzio, nascondendo un sorriso fiero dietro il bicchiere. Era bastato piazzare un paio di frasi giuste in alcuni punti strategici della conversazione, ed ecco che Christian e Clarissa avevano subito iniziato a chiacchierare come vecchi amici, dimenticando le differenze che fino a quel momento sembravano aver impedito ad entrambi, ma soprattutto a lei, di comportarsi con naturalezza. Finì in fretta di mangiare, ascoltandoli scambiarsi opinioni ed idee circa il mondo della letteratura contemporanea, e non appena il suo piatto fu vuoto raccolse le proprie cose. «Mi dispiace molto abbandonarvi, ma ho appena ricevuto un messaggio dalla collega con cui sto collaborando. Abbiamo un piccolo intoppo da risolvere, devo tornare subito in ufficio. Oh, non vi disturbate, rientro da sola» aggiunse in fretta, notando lo sguardo preoccupato di Clarissa. «Ci sentiamo più tardi. Signor Murray, conoscerla è stato un vero piacere» lo salutò, porgendogli la mano mentre lui, da vero gentiluomo, si alzava dalla sedia per omaggiarla nel modo corretto. Mentre usciva dal locale Ava si voltò, strizzando l’occhio a favore dell’amica. Si congratulò con se stessa: ancora una volta, la sua personalità dirompente aveva fatto centro.

 

            «Un bel caratterino, la sua amica» osservò Christian, tornando a sedersi.

            «Sì, ha un modo di fare tutto suo» rispose Clarissa, giocherellando con la forchetta. Conosceva Ava abbastanza da sapere che quella del problema di lavoro era soltanto una scusa: per qualche oscura ragione che le risultava ancora difficile comprendere, l’amica aveva deciso di uscire di scena per lasciarli soli. Sperò soltanto che quello della vivace illustratrice non fosse un proposito romantico: un coinvolgimento sentimentale con il proprio capo era l’ultima cosa di cui avesse bisogno in quel momento.

            «Ottima scusa quella del problema in ufficio» riprese lui con noncuranza. «Vecchia come il mondo, ma funziona sempre.» Clarissa si sentì avvampare, incredula. «So che lei non le ha creduto, Clarissa. E sinceramente spero che non mi ritenga così sciocco da cascarci.»

            «Se può consolarla, non ho la minima idea del perché lo abbia fatto» rispose la ragazza, recuperando la propria compostezza. «Tra l’altro, credo che dovrei rientrare anche io. Sono quasi le due» aggiunse, gettando un’occhiata all’orologio.

            «Cos’è, pensa che il suo capo le farà una ramanzina se ritarda?» la prese in giro con un sorriso. «A proposito di lavoro, questo pomeriggio vorrei affidarle un compito piuttosto importante.»

            «Ma certo, di che si tratta?»

            «Sto cercando un appartamento qui in città, e vorrei che venisse a vederne un paio insieme a me.»

            Clarissa aggrottò la fronte, per nulla sicura di aver compreso bene la richiesta. «Sbaglio o non più tardi di stamattina diceva che non ci si dovrebbe approfittare dei propri sottoposti?»

            «Non sbaglia, intendevo esattamente quello che ho detto.»

            «Però mi sta chiedendo di venire a vedere degli appartamenti insieme a lei?»

            «Lei è la mia assistente personale, e per scegliere una casa ho decisamente bisogno di assistenza. E poi siamo all’interno del suo orario di lavoro. Non le chiederò di fare gli straordinari. So che il suo orario termina alle cinque, perciò alle cinque sarà libera di andare.»

            «E perché avrebbe bisogno proprio di me?»

            Christian sorrise, sporgendosi lievemente in avanti. «Perché visitare case mi ha sempre annoiato a morte. Ma lei mi è simpatica, perciò il tempo passerà più in fretta.» Clarissa non riuscì a nascondere un sorriso divertito. Per quanto fosse ancora lontana dal formulare un giudizio concreto a proposito del nuovo capo, sentiva di dover dare ragione alla sua migliore amica: le premesse suggerivano che lavorare con Christian sarebbe stato ben diverso dal lavorare per Spencer.

 

 

***

 

 

            «Sentiamo, perché questa non va bene?» sospirò Clarissa al termine della quinta visita. «Troppo lontana dall’ufficio? Troppe stanze? Troppa luce? Troppo verde?» Non era da lei comportarsi in modo così insolente, ma iniziava ad essere stanca. Camminavano senza sosta dalle due del pomeriggio, e i suoi piedi iniziavano a domandare pietà. Avevano seguito un percorso infinito e non lineare, e l’idea che avessero attraversato più volte le stesse strade iniziava a sembrare un’inequivocabile certezza. «A costo di sembrarle una bambina capricciosa, inizio ad essere un po’ stanca.»

            Christian diede un’ultima occhiata alla casa dalla quale erano appena usciti, grattandosi distrattamente il mento non rasato. «No, non è quello che c’è… e quello che non c’è a non andare bene» sussurrò, senza nemmeno accorgersi delle lamentele della ragazza che lo accompagnava.

            A quel punto Clarissa decise di puntare i piedi, letteralmente e metaforicamente. «Signor Murray» scandì in tono grave, attirando finalmente l’attenzione dell’uomo, «ho accettato di accompagnarla per cortesia, anche se questo va ben oltre le mie mansioni. Ma adesso sono stanca, e vorrei che mi dicesse chiaramente che cosa sta cercando.»

            Christian strabuzzò gli occhi, sorpreso da quell’improvvisa dimostrazione di coraggio. «Mi dispiace, Clarissa, io… un momento, credo che ci siamo!» Deviò all’improvviso dal binario delle scuse, fissando un punto alle spalle della ragazza. «Le giuro che questa è l’ultima» disse ancora, tornando a rivolgersi a lei. «Se nemmeno questa mi andrà bene, l’autorizzo a sputare nel mio caffè.»

            «Dice sul serio?»

            «Mai stato più serio. Su, andiamo!» la esortò, afferrandola per un braccio e dirigendosi a passo spedito verso una casa poco distante.

            Fermandosi con lui davanti ad una bella costruzione in mattoni rossi, separata dalla strada da un piccolo giardino ben curato, Clarissa lesse con attenzione il cartello inchiodato a ridosso della recinzione: «In vendita. Per informazioni suonare alla casa accanto. Ma lei non stava cercando una casa in affitto?»

            «Non sai mai quello che cerchi finché non lo trovi» rispose lui, tenendo gli occhi fissi sull’edificio. Subito dopo guardò la casa accanto, quella indicata dalla freccia dipinta sul cartello. «Mi aspetti qui, vado a vedere se sono in casa.» Mentre lo guardava dirigersi a passo di marcia verso la dimora dei padroni di casa, Clarissa pensò che una cosa del genere con Spencer non le sarebbe mai capitata. Spencer era solito affidarle compiti di poco valore, come ritirare il suo bucato in lavanderia e annaffiargli le piante quando andava in vacanza, ma non gli sarebbe mai saltato in mente di chiederle aiuto per scegliere un posto in cui vivere. Le sembrò strano che Christian l’avesse voluta con sé: aveva sempre pensato che scegliere una casa fosse un evento molto personale, qualcosa da ponderare in solitudine o al massimo in compagnia di una persona molto cara – non riusciva a capire perché invece avesse voluto l’aiuto di qualcuno che conosceva da meno di dodici ore. Ma in fondo, affidarsi ai propri affetti era ciò che avrebbe fatto un uomo comune – e più passavano le ore, più Clarissa si rendeva conto che Christian non era affatto un uomo comune.

            Lo vide salutare la donna che si era affacciata alla porta della casa accanto e decise di prendersi qualche istante per osservare l’edificio che sembrava aver catturato la sua attenzione: era un bell’immobile, in effetti. I mattoni rossi le erano sempre piaciuti, davano un’idea di calore familiare, e gli infissi bianchi spiccavano come piccole lanterne sull’ampia facciata. Inspirò profondamente, chiedendosi come sarebbe stato aprire le finestre a ghigliottina, in un bel mattino di primavera, e sentire come prima cosa l’odore degli alberi e il fruscio delle foglie. Si trovavano in periferia, in un punto abbastanza vicino al lavoro da non costringere ad una levataccia, ma abbastanza lontani dal centro per poter evitare il traffico e il rumore. Sembrava la zona adatta per una famiglia desiderosa di crescere dei bambini accanto alle comodità ma lontano dal caos. D’un tratto, a Clarissa sorse un dubbio: Christian non ne aveva fatto menzione, ma era possibile che avesse una famiglia? Dei figli, una moglie, una fidanzata? Scosse la testa, pensando che non aveva notato fedi al dito e che le uniche fotografie personali all’interno del suo ufficio raffiguravano i nipoti. E poi, si disse, se avesse avuto una fidanzata con la quale desiderava accasarsi, non sarebbe stato più logico farsi accompagnare da lei in quella disperata ricerca?

            Christian si avvicinò in compagnia della padrona di casa, una donna sulla sessantina con un sorriso cordiale e dall’aspetto energico e gioviale. «Buongiorno, sono Julia Fletcher» si presentò, tendendo la mano verso Clarissa.

            «Piacere di conoscerla, signora Fletcher. Clarissa Breckenridge» rispose la ragazza, ricambiando la solida stretta. «Complimenti per la casa, sembra molto bella.»

            «Il signor Murray mi dice che siete interessati a visitarla.»

            «Mia cara signora, non le ho forse chiesto di chiamarmi semplicemente Christian?» la corresse lui in tono dolce, come se stesse parlando a una vecchia amica, e non ad una donna conosciuta da meno di cinque minuti. Clarissa rimase ancora una volta sorpresa dalla capacità dell’uomo di entrare in empatia con chiunque in così breve tempo. Non ci aveva dato peso quando lo aveva visto interagire con il signor James, poiché aveva pensato che si conoscessero già da tempo, e non si era posta alcun dubbio quando lo aveva visto andare così d’accordo con Ava, perché sapeva che l’amica aveva una personalità molto estroversa; solo ora che lo vedeva così in sintonia con una donna appena incontrata si accorgeva di quella sua qualità.

            «Oh, è vero» ridacchiò la donna, prendendo dalla tasca un mazzo di chiavi. «Venite, vi faccio strada» aggiunse, aprendo il cancelletto e avviandosi lungo il vialetto, seguita da Clarissa e infine da Christian. «Non ci vive nessuno da molto tempo» spiegò la signora, varcando la soglia. «Io e mio marito l’abbiamo acquistata una ventina di anni fa, sperando che nostra figlia ci si potesse trasferire» aggiunse, scostandosi per lasciarli entrare. «Per questo l’abbiamo ristrutturata completamente, anche se poi il destino ha avuto un’idea diversa.»

            «Si vede che è molto curata» osservò Clarissa, passeggiando discretamente per il salotto. «Avete un ottimo gusto.»

            «In effetti quasi tutto lo scelse Claire, nostra figlia» rispose la signora. «Quando si fidanzò decise di aiutarci con i lavori. Il piano era di trasferirsi qui una volta sposata» raccontò in tono pacato, mentre si spostavano lentamente dal salotto alla cucina. «Purtroppo il fidanzamento non ci concretizzò, e quindi alla fine la casa non le servì.»

            Clarissa era estremamente curiosa, ma non voleva metterla in imbarazzo ponendo domande scomode. Osservò di sottecchi Christian, aspettandosi che fosse lui a porle quegli interrogativi che lei non avrebbe mai avuto il coraggio di esprimere. Ma l’uomo sembrava interessato più alle finiture del piano cottura che alle vicende personali della donna, dunque a lei non restò che sperare che la signora Fletcher continuasse da sola il proprio racconto.

            In effetti, sembrava che la signora fosse in cerca da molto tempo di qualcuno cui poter raccontare il motivo per cui quella casa così bella fosse ancora disabitata. «Per superare il dolore della separazione Claire decise di partire per un anno di volontariato in un ospedale in Kenya» proseguì, accompagnandoli verso il bagno e la lavanderia. «Conobbe John, un medico del posto, e quando il suo anno finì decise di restare. Sono sposati da tredici anni e hanno due bambini» aggiunse con il sorriso tipico di una donna fiera dei propri affetti. «Purtroppo riescono a raggiungerci soltanto una o due volte l’anno, ma ci sentiamo spesso. Lei è felice, e quindi anche io e suo padre lo siamo.»

            «Credo sia la cosa più importante» rispose Clarissa. «Essere in pace con noi stessi.»

            «Già» annuì la donna, fermandosi ai piedi delle scale. «Ma basta parlare dei miei guai, adesso» aggiunse in tono energico, iniziando a salire verso il piano superiore. «A quando il grande giorno?»

            Clarissa strabuzzò gli occhi, percependo immediatamente il proprio imbarazzo nel rendersi conto di quanto la signora fosse fuori strada. Aprì la bocca per spiegare il malinteso, ma fu interrotta dalla mano di Christian, che improvvisamente si posò sul suo fianco. «A dire il vero non le ho ancora chiesto di sposarmi» disse, esortando Clarissa a salire le scale. «Prima vorremmo tentare con un po’ di convivenza, per vedere come vanno le cose» aggiunse. La ragazza si voltò di scatto, una volta di più senza parole.

            «E per tentare una convivenza volete comprare una casa?» si stupì la donna, fermandosi al centro del corridoio per aspettarli.

            «Beh, diciamo che sono abbastanza certo che andrà bene» rispose lui, raggiungendole al piano superiore. «E poi farei di tutto per lei» aggiunse, alzando una mano per accarezzarle i capelli. Clarissa abbassò lo sguardo, profondamente imbarazzata.

            «Credetemi, non c’è nulla di meglio del vedere una giovane coppia così affiatata. Venite, vi mostro le camere» li esortò, guidandoli alla scoperta dei quattro vani che affacciavano sull’ampio corridoio. «C’è la camera padronale, qui in fondo, un secondo bagno qui a destra, e infine due belle stanze per i bambini» ammiccò. «In entrambe ci starebbero comodi anche dei letti a castello, se dovessero servire.» A quel punto Clarissa non riuscì a trattenersi dal lanciare uno sguardo decisamente obliquo all’indirizzo di Christian, che rispose alzando le spalle.

 

            «Abbiamo fatto una cosa orrenda» borbottò Clarissa mentre si allontanavano dalla casa, circa un’ora più tardi. «Orrenda, sul serio.»

            «Suvvia, Clarissa, non sia troppo severa con se stessa» replicò Christian in tono scanzonato. «Abbiamo solo messo qualche fronzolo alla verità. Una piccola bugia bianca che non ferisce nessuno.»

            Clarissa si fermò all’improvviso, sconvolta. «Che non ferisce nessuno? Quella povera signora cercava soltanto qualcuno con cui fare due chiacchiere, e noi l’abbiamo riempita di menzogne!»

            Anche Christian smise di camminare. Si voltò a guardarla con un sorriso. «Se la cosa può farla sentire meglio, in realtà sono stato solo io a mentire. Quindi stia tranquilla, non finirà all’inferno» aggiunse, ricominciando a muoversi.

            «Ho smesso di avere paura dell’inferno molto tempo fa» rispose la ragazza, seguendolo lungo il marciapiede. «Solo che… non lo so, mi mette a disagio mentire agli estranei.»

            «Quindi lei mente solo a chi conosce bene?»

            «Beh… no! Insomma, mentire è sbagliato. Posso tollerarlo soltanto se c’è una ragione valida.»

            «Come una questione di vita o di morte? In quel caso riuscirebbe a tollerare una bugia?»

            Clarissa rifletté a lungo sulla risposta, temendo che nessuna delle cose che avrebbe potuto dire l’avrebbero portata a vincere il dibattito. «Immagino di sì.»

            «Beh, io stavo morendo dalla voglia di visitare quella casa, quindi ammetterà che ero giustificato.»

            La ragazza si lasciò andare ad una risata sarcastica, alzando gli occhi al cielo. «Lei vuole sempre avere ragione, dico bene?»

            «Sì, disperatamente. Oh, guardi che ore sono» aggiunse, mostrandole l’orologio. «Sono le cinque del pomeriggio, e come le avevo promesso è libera di andare.»

            Improvvisamente, Clarissa non aveva più tanta voglia di tornare nel suo appartamento. Per quanto fosse molto bizzarro e difficile da interpretare, passare del tempo con quell’uomo le stava piacendo – decisamente le piaceva molto più di quanto gradisse dividere la stanza con Spencer. Non aveva mai amato i cambiamenti, ma per qualche strana ragione sentiva che quella nuova collaborazione avrebbe dato solo buoni frutti. Di certo ci sarebbe voluto del tempo per imparare a conoscere quello strano personaggio, ma qualcosa le diceva che impegno e pazienza l’avrebbero aiutata.

 

 

***

 

 

            «Ha impegni per questo sabato?» Concentrata sul proprio lavoro, Clarissa ebbe un sussulto, trattenendosi a stento dal lanciare un grido. «Santo cielo, sono così spaventoso?» la prese in giro Christian, facendo il giro della scrivania per farsi riconoscere.

            «Mi perdoni, quando sono concentrata finisco in un mondo tutto mio» replicò, alzando gli occhi dallo schermo del computer. «Come posso esserle utile?»

            «Mi chiedevo se ha già qualche impegno per questo sabato» riprese lui, rimestando con interesse nel portapenne ordinato.

            Clarissa aggrottò la fronte, riportando alla mente un episodio di circa due anni prima, quando Spencer le aveva spudoratamente chiesto di unirsi a lui per una romantica serata a base di ostriche e champagne, lasciando ben intendere quale fosse il tipo di finale che auspicava. «Mi sta invitando ad uscire, signor Murray?» domandò con estrema franchezza. A costo di rendersi antipatica, voleva subito mettere in chiaro le cose – assumendo naturalmente che ci fosse qualcosa da chiarire.

            «In un certo senso, sì» ammise lui, smettendo di curiosare tra i suoi effetti personali e fissandola dritta negli occhi. «In un certo altro senso, le sto chiedendo di fare degli straordinari.»

            Ma perché non riesce mai a parlar chiaro?, si domandò la ragazza. «Non credo di capire.»

            «Sono stato invitato ad una festa che si terrà questo sabato sera. Più che invitato, direi che sono stato arruolato» si corresse. «Dal signor James» aggiunse in tono grave. Clarissa abbozzò un sorriso: conosceva il signor James abbastanza da sapere quanto fosse impossibile rifiutare un suo invito. «Non sarà nemmeno una vera festa, a dire il vero. Saranno presenti un sacco di agenti, editori, autori… praticamente una fiera del libro in miniatura. Non ho ancora molte conoscenze in città e queste serate tendono a diventare noiose, perciò… beh, ho pensato di chiedere ad una persona divertente di venire con me.»

            «Ritiene sia opportuno farsi accompagnare dalla sua segretaria?»

            «Secondo il signor James non ci sarebbe nulla di male.»

            Clarissa sgranò gli occhi, ancora una volta incredula: lavoravano insieme da poco più di una settimana, ma aveva già perso il conto di quante volte l’avesse lasciata senza parole. «Ne ha parlato al signor James prima di chiederlo a me?»

            «Non si agiti, non è come se avessi chiesto a suo padre il permesso di sposarla!»

            «Credo che sarebbe in grado di fare anche questo» sospirò Clarissa, riordinando i fogli sulla scrivania. «Non lo so, signor Murray… io non sono mai stata a quel genere di feste.»

            «Non è difficile come può sembrare: è sufficiente bere champagne, mangiare tartine, dire ad ogni donna che è la più elegante della sala e assicurare ad ogni uomo che la sua è l’impresa più florida del Paese.»

            «Non crede che dovrebbe chiedere a qualcuno di più… qualificato

            «Cindy Crawford sarebbe venuta molto volentieri, ma purtroppo ha già un impegno» la prese in giro. «Glielo chiedo come favore personale, Clarissa. Sono stato a troppi eventi simili per credere che troverò qualcuno più adatto di lei. Per favore» pigolò, congiungendo le mani e mostrando uno sguardo bisognoso. «Non badi a spese per il vestito. Qualunque sia la cifra, la inserisca nella mia nota spese.»

            «Non le ho ancora detto di sì.»

            «Se preferisce che glielo chieda in ginocchio…» replicò l’uomo, iniziando a piegare una gamba per assumere la tipica posizione del postulante.

            «No!» esclamò Clarissa, alzandosi di scatto in piedi. «E va bene, la accompagnerò alla festa» cedette, pur sapendo che presto o tardi se ne sarebbe pentita.

            «La ringrazio con tutto il cuore, Clarissa. E le prometto che non se ne pentirà» aggiunse, quasi le avesse letto nel pensiero.

 

 

***

 

 

            «Ciao, sorellina!» Il grande sorriso di Ella riempì la schermata del computer. La sua voce arrivò forte e chiara, come se fosse seduta appena all’altro capo della stanza, e non in un altro Paese. «Come sta la mia piccolina?»

            «Un po’ frastornata, a dire il vero. È stata una settimana ricca di eventi» rispose la ragazza, scostandosi una ciocca di capelli dal volto mentre Harry saliva sul divano accanto a lei.

            «Com’è il tuo nuovo capo? Nel messaggio che mi hai mandato l’altro giorno dicevi che sembra un tipo un po’ strano.»

            «Ricordi quello che ti raccontavo di Spencer? Beh, pensa il completo opposto.»

            «Cioè non ha ancora provato a toccarti il sedere?»

            Clarissa scoppiò a ridere. «Esatto, e direi che già questo è un bel salto di qualità. Però mi ha invitata fuori per questo sabato.»

            «Davvero?»

            «Una specie di festa aziendale, dice che ci sarà tutta gente del nostro settore» rispose la ragazza, accarezzando distrattamente il cane appoggiato sul suo ventre. «Vuole che gli faccia compagnia perché crede sarà una serata noiosa.»

            Ella annuì, alzando le spalle. «Può essere, tutte le volte che Sebastian mi porta ad un vernissage mi viene voglia di tracannare una bottiglia di lassativo. Preferirei stare seduta sulla tazza per tre giorni di seguito piuttosto di sopportare orde di intellettuali da strapazzo.»

            «Non ti viene in mente che lui potrebbe pensare lo stesso delle tue sfilate?»

            «Ai miei eventi le protagoniste sono le modelle, ai suoi ci sono quasi sempre disadattati che si lavano poco.» Tra le sette ragazze Breckenridge, Ella era famosa per essere quella con la lingua più tagliente. Forse era proprio quella caratteristica a renderla la sorella preferita di Clarissa: il suo cinismo la rendeva un’ottima consigliera, più di quanto potesse esserlo uno psicologo. «Pensi di andarci?»

            «Mi ha praticamente costretta ad accettare. Ha minacciato di chiedermelo in ginocchio» si difese Clarissa.

            «Però, una settimana ed è già cotto fino a questo punto?» la prese in giro la sorella, ben sapendo quanto fosse suscettibile sulle questioni di cuore. «Sai già cosa ti metterai?»

            «In effetti, non ne ho la più pallida idea.»

            «Hai guardato tra le ultime cose che ti ho mandato?»

            «Dici che potrei trovare qualcosa di carino?»

            «Lo spero, visto che è un campionario della mia ultima collezione. Dai, ti aiuto a scegliere qualcosa.»

            Clarissa si alzò dal divano, e portando con sé il computer si spostò in camera da letto. Harry, che l’aveva seguita dal soggiorno, spiccò un balzo e si accoccolò in fondo al letto, fissandola con aria curiosa. «Così ci vedi bene?» domandò Clarissa alla sorella, sistemando il portatile sul comodino e orientandolo verso l’armadio.

            «Ottima visuale, grazie. E ora fammi dare un’occhiata.» Clarissa iniziò a far scorrere le stampelle, operando una prima selezione degli abiti che riteneva più opportuni per la serata. «No, quello lascialo stare» disse Ella all’improvviso. «Sarà una serata elegante, le stampe a fiori non vanno bene, sono più adatte ad un evento pomeridiano. Tu vuoi essere carina ma discreta, dico bene?»

            «Non lo so, voglio esserlo?»

            «Sì, vuoi esserlo, te lo dico io. Chi è la stilista tra noi due?»

            «Mi perdoni, signora Armani» replicò Clarissa, mettendo a posto l’abito scartato. Continuò a far scorrere le stampelle, finché ad un certo punto Ella le intimò di fermarsi. «Questo? Dici sul serio?»

            «Dico sul serio, è semplicemente perfetto. D’altronde l’ho disegnato io.»

            Clarissa osservò il semplice tubino blu notte che pendeva dalla gruccia. «Questo? Non è troppo scollato?»

            «Per l’amor del cielo» sbuffò l’altra donna, coprendosi gli occhi con una mano. «Hai ventisei anni, dovresti mostrare quello che hai prima che la gravità ci metta lo zampino. Avanti, provatelo.» Controvoglia, Clarissa si spogliò della tuta sformata per indossare l’elegante abito realizzato dalla sorella. Si prese un paio di minuti per osservare la propria immagine nello specchio, mentre dall’altra parte dello schermo Ella annuiva con decisione. «Oh, sì, ti calza a pennello. Sembra disegnato apposta per te.»

            «Dici sul serio?» domandò la ragazza, facendo scorrere le mani sui fianchi per lisciare pieghe inesistenti.

            «Mi hai mai sentito fare a qualcuno un complimento che non fosse sincero?»

            «Tutte le volte che incontri nostra cugina Margaret con i bambini.»

            «Quello non conta. Se le dicessi che sono i bambini più brutti che abbia mai visto si offenderebbe a morte. Senza contare che la mamma mi ucciderebbe.» Piegò la testa da un lato per osservare meglio la figura della sorella. «Ma toglimi una curiosità… il tuo capo è un bel tipo?»

            «In che senso?»

            «Dai, hai capito. È uno per cui vale la pena mettersi un vestito carino e scarpe scomode, oppure è uno di quelli che ispirano pigiami di flanella e calzettoni?»

            Clarissa non represse una risata divertita. «Questo sarebbe un modo per chiedermi se è un bell’uomo?»

            «Anche l’occhio vuole la sua parte, tesoro mio. Dai, ce l’hai una foto?» La ragazza sedette sul letto, facendo attenzione a non sgualcire il vestito, mentre iniziava a cercare nel proprio telefono. «Quale segretaria non ha una foto del principale salvata nella galleria?» sospirò Ella in tono drammatico, strappando un sorriso alla sorellina. Quando sentì il proprio cellulare squillare, si affrettò a visualizzare il messaggio appena ricevuto. «Questo è il tuo nuovo capo?» fu il suo primo commento. «Decisamente uno per cui vale la pena di mettersi in tiro. Che ore sono a Cork? Devo chiamare Rebecca, deve iniziare subito le pratiche per il divorzio.» Rebecca, una delle loro sorelle, era un affermato avvocato specializzato in diritto di famiglia e separazioni. «Quand’è che uscite?»

            «Sabato sera, passa a prendermi alle otto. Ma non è un appuntamento.»

            «Certo, come no.»

            «Perché devi sempre pensare che ci sia un secondo fine?»

            «Perché è un uomo!» esclamò Ella, sgranando gli occhi.

            «Se lo conoscessi, non la penseresti così. Il signor Murray è diverso da tutti gli altri uomini che ho incontrato.»

            «Il signor Murray, eh?» ammiccò la sorella. «E lui come ti chiama, signorina Breckenridge?» la prese in giro.

            «No, in effetti mi chiama per nome, e vorrebbe che io facessi lo stesso. E sinceramente non ci vedo niente di strano» aggiunse, decisa a scacciare le ipotesi della sorella.

            «Cara, dolce, piccola Clarissa…» sospirò l’altra. «Immagino di doverti insegnare ancora tante, tante cose.»

   
 
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