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Autore: carachiel    17/04/2023    0 recensioni
La prima volta, non è così traumatico. Sembra quasi normale quando si sveglia, non ha la testa leggera quando si alza dal letto e tutto sembra quasi usuale, niente di davvero fuori dall'ordinario, finché non si alza e incrocia sulla soglia della stanza un ragazzino dai capelli azzurrini che lo saluta con aria spensierata.
Lì, le parole gli muoiono sulla lingua, lasciando un retrogusto di smarrimento, un groppo di qualcosa che non riconosce nella gola, come un animale morto.

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Faker ha un'amnesia.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Altri, Dr Faker
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Impulso–verse'
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Tutte le cose che non hanno importanza



I thought of you the other day
How worlds of change led us astray
Colors seem to fade to gray
In the wake of yesterday
You looked into my eyes
You had me hypnotized
And I can still remember you




La prima volta, non è così traumatico. Sembra quasi normale quando si sveglia, non ha la testa leggera quando si alza dal letto e tutto sembra quasi usuale, niente di davvero fuori dall'ordinario, finché non si alza e incrocia sulla soglia della stanza un ragazzino dai capelli azzurrini che lo saluta con aria spensierata.
Lì, le parole gli muoiono sulla lingua, lasciando un retrogusto di smarrimento, un groppo di qualcosa che non riconosce nella gola, come un animale morto.
Il ragazzino non sembra notare la sua incertezza e procede per la sua strada, mentre la sua testa si comincia a riempire lentamente di domande.
Chi è quel ragazzino?
Come fa a conoscerlo?
Dove si trova?
E soprattutto, chi è lui?


"Amnesia?" ripete lentamente due giorni dopo, passandosi le mani sul viso.
Il ragazzo davanti a lui, che ha scoperto chiamarsi Kite, annuisce.
"Spiegherebbe perché non ti ricordi nulla."
Non vorrebbe davvero farsi prendere dal panico, ma è difficile quando la mattina si sveglia e non ricorda, quando tanti, troppi anni di vita sembrano evaporati, scappati lontano.
E non è quella la parte più traumatica, no, la parte più difficile sono le tante, troppe domande che gli si sono accumulate nella testa e le conseguenti risposte. Risposte che causano altre domande, altri dubbi sul passato, sul Prima e non lo calmano davvero.
"E quindi io sarei vostro padre" ripete, scandendo ogni sillaba come a volersela imprimere nel cervello, per non farla fuggire.
"Sì" risponde Kite e, a una seconda occhiata, comincia davvero a vedere le somiglianze tra lui e il ragazzo. Capelli biondi, corporatura esile e il viso allungato. Tuttavia, non può che ammettere che Kite sia molto più bello di lui, che a momenti la prima volta che si è guardato allo specchio gli è venuto un infarto, e quello sì che si ricorda cos'è.
"Ma perché lui non mi assomiglia?" domanda stupidamente indicando Hart e lo sguardo di disapprovazione che compare sul viso di Kite lo fa immediatamente pentire della domanda. Tuttavia, prima che possa rispondere – e ha paura, perché gli è bastata una manciata di minuti per scoprire che Kite è fornito di un sarcasmo tagliente e che non ha assolutamente nessuno scrupolo a farne uso, specialmente se il bersaglio dello stesso è lui –, Hart prende la parola.
"Ho preso dalla mamma!" replica, e il suo cuore si stringe.
Quello è stato un altro colpo, scoprire di essere sposato o meglio, di essere stato sposato. E che, a quanto gli ha raccontato Hart, lui ha amato molto la donna con cui li ha avuti.
Talmente tanto da bruciare tutto quello che gli era rimasto di lei, incluso le foto.
Hart gliene fa vedere una, di nascosto, perché, a quanto dice "il fratellone non deve sapere che l'hai vista, sai, ha strane reazioni quando si parla di questo" e lui, quando passa le dita su quel rettangolino di carta, sull'immagine di quella donna sorridente, cristallizzata, piange e non sa il perché.
Si sente come se nella stessa giornata avesse scoperto di avere una famiglia e un istante dopo l'avesse persa, senza che gli fosse lasciato neanche il tempo di piangerne la scomparsa.
O forse è proprio quello che è successo.


Superato lo choc iniziale e passati un po' di giorni, inizia quasi a abituarsi.
La sua testa ha ancora tanti spazi vuoti, strappi che necessitano di essere ricuciti, ma se non altro può smettere di essere sorpreso di tutto, limitandosi ad assorbire le informazioni che gli vengono fornite e ad incamerarle, sperando che non ricapiti.
I racconti di Kite non lo aiutano davvero, in questo senso. Sono brevi, come se non avesse davvero voglia di raccontargli il tutto – e probabilmente è così, vista l'espressione da funerale che sfoggia al termine di ognuno di essi –, culminando spesso in scenari poco gradevoli, tratteggiati frettolosamente, come a voler liquidare quella realtà dei fatti nella risoluzione che non c'è più nulla da fare a riguardo.
Ogni tanto, quando è immerso nel dormiveglia, ricorda: piccoli frammenti, iceberg vaganti di ricordi senza un posto, che non hanno senso. Forse, sogna. Sogna nomi che non hanno volti e volti che non hanno corpi, sagome dai tratti incerti, fumosi.
Sogna – o forse ricorda, perché ormai non sa più dire la differenza, o forse ha smesso di avere importanza – una ragazzina dai capelli neri, neri e rosa che gli prende la mano e ride, una piccola risata argentina che in qualche modo gli scalda il cuore, per poi correre via, correre via senza voltarsi.
Anche così, può cominciare a fingere che sia normale, che è perfettamente ordinario svegliarsi e non ricordarsi più chi è, o chi si è stati, quel che si è fatto per vivere fino a quel momento, di avere una famiglia o persino una propria città.
Ecco, Heartland è stata una sorpresa, una delle poche volte in cui la risposta alle sue domande non gli ha causato una sensazione spiacevole nelle viscere, come un pesce preso ad un amo che lotta per la vita. No, a quanto pare sentirne parlare, sentir raccontare di come l'ha progettata e l'ha costruita sin dalle fondamenta gli scalda il cuore, gli ricorda improvvisamente che cosa significa fare quello che ama. E quando Kite aggiunge a bassa voce, quasi a malincuore, che l'ha fatto per Hart, capisce.
Perché avrà un'amnesia, certo, ma non è stupido e si è accorto che il figlio maggiore sembra soffrire della differenza di tono con cui gli parla Hart.
"Tu mi odi" mormora e per qualche istante ha quasi il dubbio che non l'abbia sentito o che abbia scelto volontariamente di non rispondergli, perché il ragazzo continua a dargli le spalle, restando con le braccia strette ostinatamente al petto, la testa bassa e lo sguardo perso verso un punto imprecisato della città, molto più in basso.
"L'ho fatto" ammette alla fine.
Non gli chiede perché, non gli chiede da quanto, non vuole davvero saperlo, non ora, anche perché è piuttosto certo che per fare breccia nel cuore di suo figlio deve aver fatto qualcosa di veramente orribile, troppo persino per parlarne o menzionarlo di sfuggita – qualcosa che va rinchiuso e maneggiato con cautela estrema, una fiala di nitroglicerina.
"Sei troppo giovane per tutto quest'odio" replica e lo sguardo di Kite sembra alleggerirsi per un istante, per un istante soltanto.
"Ho fatto cose orribili per te."
"Lo so" mormora, con dei colpetti sulla spalla che dovrebbero essere confortanti, nella più rosea delle prospettive.
E forse ci riescono, perché risolleva lo sguardo, portandolo verso di lui "È la prima volta che non ti limiti a borbottare quelle scuse senza senso."
Faker sorride o meglio, si prodiga in una smorfia che dovrebbe assomigliarci vagamente, ma a quanto pare i suoi muscoli hanno dimenticato come si fa e di certo la sua faccia non gli fa alcun favore in tutto ciò, ma non ha importanza. Forse, pensa per la prima volta dopo giorni, forse questa amnesia gli può anche essere utile.


Giorni dopo, quando ha ristabilito una sorta di routine quotidiana, suona il campanello.
"Aspetti visite?" domanda distrattamente a Kite.
"No, dev'essere per te."
Quindi ha degli amici, si domanda distrattamente mentre apre la porta, o se non altro, qualcuno che si preoccupa per lui abbastanza da venirlo a trovare.
"Ciao" lo saluta affabilmente quello che potrebbe tranquillamente definire come l'uomo più affascinante che ha mai visto.
"Ehm, ciao...?" replica un po' incerto, cercando di non fissarlo troppo intensamente. Ha un accento particolare nella voce, forse europeo, che gli risulta familiare.
L'altro sembra confuso per un istante per poi emettere una risatina "Che stupido, è vero, scusami, Kite mi ha accennato della tua amnesia... Sono Byron, sono... O meglio, ero il tuo migliore amico."
"Oh. Oh... Capisco. Vuoi... Vuoi entrare?"
"Grazie."
Lo fa accomodare nel salottino attiguo all'ingresso e si siede di fronte a lui, cercando di non guardarlo troppo a lungo.
"Quindi sei il mio migliore amico."
"Mi fregio di questo titolo, sì" replica sorridendo e lui non è certo di come reagire "oltre che tuo collega. E bastardo figlio di puttana, quando sei particolarmente in vena di complimenti."
"...Ti offendo davvero così tanto?"
"Abbastanza" replica, regalandogli un altro sorriso, più ampio dei precedenti e non può non ammirare i suoi denti perfettamente bianchi e allineati "ma, se ti può consolare, faccio lo stesso, considerando la frequenza con cui ti chiamo stronzo."
"...N-Non ti considero davvero tale!" replica, incerto se l'ha davvero offeso.
Di certo, quando ha pensato di avere degli amici, non pensava decisamente a questo, anche perché Byron dimostra facilmente una decina abbondante di anni in meno di lui, no, aveva pensato più a dei vecchi decrepiti incontrati alla bocciofila – o alla ragazzina dei suoi sogni, che ormai sarà vecchia e sdentata, ma questo non lo dice – "È solo che non mi aspettavo fossi... Così" aggiunge con un gesto vago.
"Sono britannico, se è quello che ti stai domandando" replica gentilmente.
"Sì, e anche che sei..."
"Sì?"
"...Carino" replica, avvampando. C'è qualcosa di decisamente imbarazzante nelle persone convenzionalmente attraenti e la loro beata ignoranza dell'effetto che hanno sulle persone attorno a loro, decide, troppo per la sua soglia di sopportazione.
"Ti ringrazio" risponde e non può fare a meno di domandarsi come ha fatto a stringere un legame con una persona così... Così "Anche se spero non starai cercando di nuovo di essere sexy."
"Guardami in faccia e dimmi che sono anche solo lontanamente sexy" replica, passandosi una mano sul viso "Una parte di me muore ogni volta che mi guardo allo specchio."
"Beh, se ti può consolare, sei il più grande genio che il ventitreesimo secolo abbia da offrire" replica stringendosi nelle spalle "e no, non lo dico io, lo dicono i giornali."
Due ore dopo, scopre che Byron ha una gamma di sorrisi molto più ampia di quanti non ne potrebbe mai sognare lui, una pazienza invidiabile nel ripetergli che no, non è solo lui che lo definisce un genio e che, forse per la loro vicinanza passata – trent'anni, gli rimarca, e Faker sa che, anche senza amnesia, trent'anni sono un tempo terribilmente lungo, che gli spiega tante, troppe cose, in primis l'incondizionata fiducia che sente di poter nutrire nei confronti di quello che è, a conti fatti, poco più che uno sconosciuto, venendo ricambiato abbondantemente – le sue risposte sono molto più estese e complete di quelle di Kite, sempre che uno sbuffo irritato si possa considerare una risposta.
Un'altra cosa che scopre, è che Byron non lo chiama. Evita di pronunciare il suo nome con studiata cautela, per poi spiegargli che 'Faker' era apparentemente un nome frutto di un errore di stampa sui giornali e che alla fine ci si è abituato sino al punto da odiare di essere chiamato per nome.
E non può fare a meno di domandarsi che sì, è un genio, ma quanto deve essere insicuro per anteporre il suo titolo di dottorato al nome?


Alla fine, innumerevoli conversazioni con Byron più tardi, scopre molte più cose di quante non abbia davvero bisogno di sapere e di quante non ne ha mai volute sapere.
Byron non gli chiede cose che non sa, si limita a riempire gli spazi vuoti nella sua testa con i suoi interminabili racconti, con tutti gli aneddoti possibili e una dose di pazienza che ha del sovrannaturale, perché a quel punto Faker è certo che avere a che fare con un'amnesia sia terribilmente irritante e perché chiaramente non basta qualche settimana per ricostruire una vita intera. Ma va bene così. Anche con quei racconti interminabili ha meno strappi, meno dubbi che lo affliggono e qualche certezza in più. Non si pone troppe domande sulla veridicità degli stessi, non vuole, perché non dovrebbe davvero dubitare della parola di un uomo che lo conosce bene, che ha conosciuto per trent'anni, e non importa se lui quei trent'anni non se li ricorda. Vuole fidarsi, per una volta.
Ma, anche così, si domanda se i suoi sogni siano ricordi, memorie scappate troppo a lungo per inseguirle e che, nonostante tutto, ancora si ripresentino, perché lo facciano, insistentemente.
Si chiede se la memoria sia verità, e sa che non può esserlo, che non c'è modo per cui i suoi ricordi e i racconti di Byron ricalchino perfettamente la verità, perché ignorerebbe la soggettività e i loro punti di vista, ma sa che nonostante tutto si vive di ricordi e non di verità. Di conseguenza, gli va bene così.


E in tutto ciò, solo quando gli menziona le "cose orribili" fatte a Kite chiedendo delucidazioni, vede il sorriso dell'altro attenuarsi e quasi spegnersi.
"Non lo vuoi sapere davvero, credimi, Faker" replica, mettendogli la mano sulla spalla "Non da me, almeno."
"Da chi, allora?" sbotta "Sono giorni che eviti l'argomento!"
"Non sono la persona giusta."
"Sei l'unico che mi sta dando delle risposte."
E alla fine, a malincuore, glielo dice. Gli racconta tutta la storia, fin nei particolari. Tutto. E mentre racconta, Faker sente i pezzi del puzzle, i frammenti sparsi ottenuti da Kite, andare ognuno al proprio posto, le coincidenze che assumono contorni spaventosi e a quel punto può solo immaginare l'effetto che quella storia deve aver avuto sul suo viso – dimmi che è un sogno, vorrebbe urlare, dimmi che è solo un brutto, orribile sogno e che non ho davvero fatto tutto ciò, che queste non sono le conseguenze – perché Byron lo guarda con le sopracciglia corrugate in una muta domanda, versandogli un bicchiere d'acqua.
E questa è un'altra cosa che si ritrova ad apprezzare di lui, pensa bevendo a piccoli sorsi,che nonostante tutto quello che gli ha fatto si fida ancora di lui, è ancora lì, e che allora, forse, come migliore amico se lo è scelto proprio bene. O forse se lo è scelto talmente bene da non meritarselo.
"Sono una merda."
"Interessante paragone" replica, con quel velo di sarcasmo che gli fa venire il dubbio se gli sta facendo un complimento o dovrebbe prenderlo a schiaffi, lui e quella faccia troppo perfetta.
"Piuttosto, dimmi una cosa: mi sono scusato con te, ma mi sono mai scusato col ragazzo Tsukumo?"
"Non che io ricordi" ammette candidamente e Faker sente qualcosa dentro di lui andare in pezzi.


(Scopre solo molto dopo che Byron ha evitato accuratamente di menzionargli che, anche dopo tutto quello che è successo, anche dopo cinque anni di danni e sofferenze, ha tenuto il muso a lui e al mondo per quasi un altro anno, troppo impegnato a sprofondare in un mare di autodisprezzo e rimpianto. Troppo impegnato a barricarsi dietro un muro che nessuno, nemmeno lui, è riuscito ad abbattere del tutto.
Tuttavia, ora, capisce perché non gliel'ha detto.)


Scusarsi col ragazzo Tsukumo–– Yuma, si chiama, Yuma, è sorprendentemente facile e Faker deve ringraziare le informazioni di Byron per quello, che gli ha assicurato che Yuma ha lo stesso carattere benevolo e ottimista di Kazuma e di conseguenza lo capirà.
Scusarsi con Yuma è facile, ma arrivarci non lo è affatto. Anche perché per farlo deve superare una minaccia alta la metà di lui e armata di mattarello, che agita con tutta l'intenzione di impedirgli di varcare la soglia.
"Signora, le posso assicurare che..." tenta di spiegarsi.
"E io dovrei farti entrare in casa mia con tutto quello che hai fatto a mio figlio e a mio nipote? Fossi matta! Sarai pure il fondatore di questa città, ma questo non ti garantisce di essere perdonato!"
La parte peggiore di tutta la situazione non è affrontare una nonna battagliera armata di mattarello, pensa Faker, no, la parte peggiore è che ha ragione. Il fatto che Yuma, nella sua cieca fede circa le sue, se non buone, quantomeno passabili intenzioni, lo abbia perdonato non gli garantisce di essere perdonato a prescindere. E non garantisce la sicurezza che non lo rifarà perché sa fin troppo bene che alcune persone non possono cambiare. O non vogliono. O hanno fatto talmente tanto danno da dover essere tenute lontane perché non c'è prova visibile che cambieranno o che ci sarà mai una riparazione per le loro azioni.
"Signora Haru..."
Il mattarello smette per un istante di essere agitato verso di lui "Come sa il mio nome?"
Faker non lo sa. È un nome che non sa da dove venga, che è emerso impulsivamente dalle nebbie dei suoi ricordi, almeno riguardanti il Prima e non ricorda che Byron glielo abbia detto, quando gli ha parlato di Kazuma. Forse glielo ha detto Kazuma stesso, perché Yuma è improbabile che l'abbia fatto.
"Non ha importanza, ma le posso assicurare che sono qui solo per scusarmi con lei e suo nipote" replica velocemente, occhieggiando nervosamente il mattarello che, alla fine, si abbassa, permettendogli di passare.
Le scuse con Yuma si protraggono leggermente più a lungo del previsto perché apparentemente il ragazzo ha una parlantina piuttosto esagerata e quando finisce è già buio.
E Faker non vorrebbe davvero restare, ma a quanto pare lo stesso mattarello di prima gli sbarra l'uscita.
"Non va da nessuna parte" replica e poi la sua espressione battagliera si scioglie in una decisamente più conciliante "non a stomaco vuoto, almeno!"

La cena si rivela sorprendentemente piacevole e la signora Haru una cuoca eccellente, decisa a riempirgli il piatto finché non invoca pietà. E un digestivo.
Tuttavia è tutto talmente familiare che presto la sensazione di disagio che gli aveva attanagliato le viscere si scioglie e si ritrova sorprendentemente a suo agio a osservare Yuma che divora tutto e la sorella, Kari, che lo sgrida. C'è qualcosa in lui che gli ricorda Kite, anche se non sa bene che cosa. Probabilmente l'impulsività e la testardaggine.
Si domanda se prima, nella sua vita passata, le cene con la sua famiglia erano così. O se sono sempre state come quelle che ha consumato con Hart e Kite, colme di silenzio e di una strana tensione elettrica che pulsa sotto la superficie di ogni parola e che gli impedisce di rilassarsi.

Alla fine, qualche settimana dopo, si fa coraggio e si avventura nella soffitta con l'aiuto di Hart, alla ricerca di non sa bene cosa. Sa che ha già sentito il nome della nonna di Yuma da qualche parte, che non è stato solo un sogno o qualcosa che ha immaginato, ma non ricorda dove l'ha sentito o letto e, nonostante ciò, con l'aiuto di un messaggio di Byron al momento opportuno, ricostruisce che, se Kazuma ha una quarantina d'anni, probabilmente fra lui e Haru ci sono solo quattro o cinque anni di differenza.
La soffitta è piccola, angusta e immersa nel caos e, a quanto gli dice Hart, il fatto che nessuno ci vada da anni non ha aiutato. Si guarda intorno con aria incerta, scrutando fra i rotoli di plastica a bolle, una pila di rottami metallici che Hart gli indica come i tentativi falliti di precedenti Orbital, un altro mucchio di rivetti e bulloni arrugginiti, libri ingialliti, vestiti che sono ormai buoni solo come cibo per le tarme e alla fine trova quello che stava cercando.
Le scatole che cerca sono ricoperte da uno strato di polvere spesso tre dita e chiuse con del nastro adesivo talmente vecchio da essere diventato giallo, ma sono marchiate con una scritta incomprensibile che riconosce come la sua stessa calligrafia, ed è un sollievo vedere riemergere dalle stesse, insieme a un altro mucchio di cianfrusaglie rovinate dal tempo, un vecchio annuario scolastico. Sfoglia le pagine con cautela – quell'affare è vecchio, talmente vecchio che gli si potrebbe frantumare fra le dita – e alla fine la trova. Haru Tsukumo, c'è scritto sotto la foto di una ragazza bassina dai capelli neri e rosa che guarda la fotocamera con imbarazzo.
Non era solo un sogno, dunque.


Alla fine, nonostante avesse giurato di non rimettere più piede in casa Tsukumo, alla fine Haru accetta le sue scuse e, quando gli porta la foto, la vede sorridere e si sente subito sollevato.
Non è perfetto, pensa, ma è un inizio.
(E forse in questo l'amnesia è stata utile, per lisciare le asperità che si è lasciato dietro, le cose che non ha detto quando poteva.)
Gli offre persino un caffè e per quanto sia ancora sospetttosa dal suo atteggiamento, sembra molto meno incline a stenderlo con quell'arma impropria alla prima parola sbagliata.
Forse, pensa nuovamente, non deve andare di nuovo male, forse le cose possono cambiare. Forse lui può chiedere perdono per gli errori commessi ed essere perdonato. E, per una volta, accettare quel perdono, senza timore.
"Quando me lo hai detto non ci credevo" riprende Haru continuando il discorso "Poi mi sono ricordata che Kite fa di cognome Tenjo e ho ricollegato."
"Conosci Kite?"
"Yuma lo frequenta, sì, l'ha invitato persino a cena una volta*" replica, guardando al piano superiore con un sorriso "Un gran bravo ragazzo, se posso."
"Lo so, Yuma mi aveva accennato di averci duellato insieme."
"È vero che sono davvero un duetto al karaoke**?"
"Kite? Non credo proprio..." risponde con aria smarrita. Da quel che sapeva del figlio, tra i suoi interessi figuravano solo i duelli e la robotica.
"Immaginavo, effettivamente era troppo strano, ma a quanto pare Kari ci aveva creduto."


"Yuma" disse Astral, richiamando l'attenzione del duellante, seduto sul tetto e intento a guardare giù.
"Non ora Astral, sto cercando di capire cosa dicono!"
"Era proprio quello di cui volevo parlare. Che cosa ci fa il dottor Faker di nuovo qui? E perché sta parlando con tua nonna?"
"A quanto ho capito si conoscevano di vista dai tempi della scuola."
"Erano coetanei?" domanda.
"No, non credo... Kite una volta mi ha detto che nonostante Faker sembri vecchio in teoria dovrebbe avere avere nemmeno sessant'anni. E di conseguenza..." esitò, contando con le dita "Uno, due, cinque... Aaaah, non lo so!"
"Yuma, avresti davvero bisogno di quelle ripetizioni di matematica. E di smettere di origliare" replica l'astrale, esasperato.


Alla fine Faker, dopo una lunga serie di caffè offertigli da Haru – caffè amaro per lui e té verde per lei – inizia a pensare che non ci sta così male insieme, mentre parlano del passato.
Del tempo trascorso, delle loro vite e dei binari che hanno percorso, lui con la sua scienza e le sue invenzioni e lei al negozio e poi a casa.
Man mano che ci passa del tempo i suoi ricordi iniziano a riaffiorare e non sembrano più iceberg alla deriva, no, sembrano più un puzzle che si va lentamente ricomponendo mentre Haru gli racconta della sua vita e a lui pare quasi di rivedere quella ragazzina dai capelli scuri che si trascinava dietro uno zaino troppo pesante e lo guardava, lui che era troppo alto, con troppi capelli ed era troppo più giovane di lei.
Bizzarro come all'epoca quegli anni di differenza gli sembrassero una barriera insormontabile e adesso gli sembrano niente, pensa, carezzando incerto i capelli di Haru.
Non ha importanza che adesso siano d'argento e anche i suoi siano radi, che gli anni li abbiano separati e trascinati via, nei suoi occhi vede ancora la stessa ragazzina.
Alla fine, le cose cambiano, cambiano comunque, inevitabilmente, e anche quando una mattina si sveglia e i suoi ricordi ci sono di nuovo – cinquant'anni di vita che adesso può ripercorrere con sicurezza, non importa se sono un po' sbiaditi e imperfetti, ci sono di nuovo –, anche quello smette presto di avere importanza.

Haru gli prepara il caffè e lui è lì, sono insieme e solo quello ha importanza.



Do you ever think of me
And get lost in the memory?
When you do, I hope you smile
And hold that memory a while






*dettaglio presente solo nel manga di Zexal
** idem come sopra, Yuma lo dice per non far capire alla sorella che sono duellanti.


Angolo Autrice:
Questo... bestio di one shot, quasi 4k di parole e disperazione, è stato partorito in quattro giorni di scrittura convulsa. Non pretendo abbia senso e non fingerò che lo abbia, è stato letteralmente buttato su carta senza alcuna premeditazione, in teoria un esercizio di stile, in pratica... Questo.
Ispirato alla mia stessa challenge, i prompt erano, per il pacchetto 8,Theta: 24. I Still Remember, Blackmore's Night
7. "Mi chiedo se la memoria sia verità e so che non può esserlo, ma so che nonostante ciò si vive di ricordi e non di verità" Igor Stravinkij
22. Faker x Haru Tsukumo (la nonna di Yuma)
   
 
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