Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: Anchestral    26/04/2023    1 recensioni
La vita di Haruno Shiobana non era mai stata facile.
Una storia che ripercorre la sua triste infanzia fino a quando non è diventato Giorno Giovanna.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Giorno Giovanna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Hirohiko Araki; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
Per favore, leggete i tag, ci tengo a precisarlo siccome è una storia incentrata sull'infanzia di Giorno, che non è proprio una passeggiata e non vorrei turbare nessuno con questa storia. Infatti è canon-compliant e con canon-typical violence, riprenderò i temi della sua storia personale con più profondità e DETTAGLIATAMENTE che vengono solo accennati nel manga. L'idea è accompagnare il personaggio da quando è molto piccolo fino all'inizio del canon, è una mia interpretazione degli eventi di tutto ciò che succede prima. Ci vediamo alla fine del capitolo nelle note perché ho altre precisazioni da fare su questa storia.


 
Preludio
 
La vita di Haruno Shiobana non era mai stata facile. Già da quando era ancora solo un neonato sua madre lo lasciava a casa tutto da solo. Lui si lamentava e piangeva inutilmente desiderando di vederla al suo fianco, ma invece spesso finiva per raggomitolarsi tristemente nelle sottili coperte che lo avvolgevano nella sua piccola culla, tremando e cercando conforto nel loro lieve tepore. Crescendo iniziò a ricercare l'affetto di sua madre che invece era sempre più assente dalla sua vita: la inseguiva, si aggrappava con le piccole manine paffute alla sua gonna per richiamare la sua attenzione, invano. La aspettava davanti alla porta quando tornava tardi anche a costo di addormentarsi lì sul pavimento freddo e, quando vedeva l'uscio aprirsi, si svegliava sorpreso donandole un grande sorriso assonnato mai ricambiato. Poi veniva ripreso in braccio e rimesso lì, tra quelle gelide coperte di nuovo in balia dell'oscurità.
Haruno non aveva ricordi chiari di quelle lunghe sere terrificanti passate nella solitudine più totale ma spesso gli sembrava di sentire sulla sua schiena un brivido che lo riportava in quella stanza, tra le sue più grandi paure facendolo di nuovo sentire piccolo e abbandonato.
 
A quattro anni, quando la sua mamma si risposò, Haruno dovette trasferirsi dall'altro capo del mondo in quel paese a forma di stivale che qualche volta gli era stato mostrato su dei libri coloratissimi. Gli piaceva. Gli piaceva l'idea di cambiare città; non perché non si trovasse bene lì in Giappone, dove aveva sempre vissuto, ma perché sperava che la nuova famiglia potesse volergli bene e compensare quel vuoto indecifrabile che ogni tanto gli appesantiva il cuore. Durante tutto il viaggio in aereo osservò le nuvole sotto di lui immaginando dove sarebbe andato a vivere: se sulla punta, sul tacco o sulla testa di quello strano paese e questi pensieri lo divertivano.  Una volta atterrati nell'aeroporto di Napoli quell'uomo, che aveva già intravisto qualche volta, li aspettava. Non lo conosceva, non gli aveva mai parlato ma gli stava simpatico. Sembrava buono e gentile, pronto ad aiutarlo, o almeno era quella l'idea che si era costruito su di lui.
Quel pomeriggio passò velocemente e Haruno si divertì come non mai. Quell'uomo li portò prima sul lungo mare ad osservare le onde e il grande Vesuvio che troneggiava su di esse e poi li portò in una piccola gelateria artigianale lì vicino. Gli consigliò anche che gelato prendere: cioccolato e pistacchio che, per ironia della sorte, divenne il suo preferito. In fine andarono nella loro nuova casa. Non era molto grande ma a Haruno non importava, gli sembrava accogliente e calda. Si sentiva così felice e sperava davvero che quella sua nuova famiglia potesse cambiare e che sua madre gli iniziasse a mostrare quell'affetto da lui sempre desiderato. E così fu anche se solo per poche settimane. Settimane che volarono via con la loro felicità in pochissimo tempo. Di quelle colazioni allegre, le passeggiate il pomeriggio, le cene insieme e quelle serene conversazioni che finivano sempre con i suoi capelli nero pece che venivano dolcemente arruffati o da mamma o da papà non rimase più nulla.
Quell'uomo che Haruno aveva immaginato come il suo salvatore non lo era affatto. Diventava sempre più furente, arrabbiato, lo guardava sempre male. Haruno non capiva il perché: aveva sbagliato qualcosa, c'era qualcosa in lui che non gli piaceva? I dubbi e i sensi di colpa continuarono ad opprimerlo finché un giorno quell'uomo non lo afferrò per il bavero della sua maglietta e iniziò a colpirlo e a colpirlo sempre più forte fino a quando Haruno non rimase disteso a terra privo di forze con la faccia zuppa delle sue stesse lacrime e un po' di sangue.
A quattro anni Haruno aveva perso la fiducia nelle persone che lo circondavano e la speranza di poter vivere felicemente in quella casa.
Così per alcuni anni continuò a subire giorno dopo giorno le violenze da parte del patrigno perdendo sempre di più la sua stessa vitalità. Stava diventando cinico, crudele verso la vita e verso di sé. Desiderava che la sua famiglia scomparisse dalla faccia terra per poter rimanere finalmente da solo e vagare per le strade indisturbato. Quel peso sul cuore continuava a crescere come un macigno. Ma dentro di lui continuava ad albergare un piccolo barlume di speranza che, sì vacillava, ma non si era ancora spento.
 
A sei anni Haruno però capì anche che se non si poteva contare sulla famiglia non si poteva fare affidamento nemmeno sugli amici. I suoi pochi e vecchi amichetti, con cui qualche volta passava il pomeriggio insieme prima di trasferirsi, gli mancavano. Erano gli unici che lo facevano sorridere lì in Giappone, nel suo vecchio paese, e lo distraevano dalla sua continua ricerca di affetto. Invece in Italia non aveva più nessuno con sé, nemmeno un amico. Non che non avesse provato a farsi strada tra i gruppetti di quartiere, aveva provato più volte ad essere amichevole e farsi accettare ma era tutto inutile. Ogni suo tentativo era inutile e controproducente. La sua gentilezza veniva scambiata per falsità e veniva mal visto da quasi tutti i bambini della sua età. Forse il suo modo di comportarsi appariva forzato ai loro occhi perché lui di gentilezza ne aveva sperimentata davvero poca in prima persona, ma comunque non capiva i loro atteggiamenti nei suoi confronti.
Così Haruno si ritrovò gettato in un baratro di solitudine e tristezza ancora più profondo: nessuno gli parlava, nessuno gli chiedeva come stesse o lo invitasse a giocare con lui. Pensava di aver toccato davvero il fondo. Ma quello che capì, sempre a sei anni, è che le cose possono sempre mettersi peggio di quel che già sono. E così dall’indifferenza, che lo faceva stare terribilmente male provocandogli spesso un nodo allo stomaco, quei gruppetti di delinquentelli passarono al commettere crudeli angherie nei suoi confronti fino a sfociare in veri e propri atti discriminatori. Haruno infatti non aveva affatto considerato il fatto che essere mezzo giapponese e mezzo inglese lo faceva apparire estremamente diverso agli occhi degli altri bambini, fin troppo stupidi per capire che la diversità fosse una cosa totalmente naturale. E allo stesso tempo per Haruno era totalmente sconosciuto il concetto di discriminazione per delle caratteristiche fisiche. Gli sembrava difficile da capire anche perché, avendo altri problemi di cui preoccuparsi tra cui sfuggire al patrigno quanto il più possibile, non si era mai posto quella problematica.
Fu un pomeriggio in particolare che lo fece ritornare di colpo con i piedi per terra, sbattendogli duramente la verità in faccia e facendogli capire quanto la vita fosse stata crudele con lui. Uno di quei bulletti, che lo tormentava già da un po', infatti colse l'occasione di spingerlo dritto in una pozzanghera. Haruno si ritrovò per l'ennesima volta con la faccia bagnata ma questa volta non dalle sue lacrime ma da quell’acqua piovana che sentiva così sporca sul suo volto. Si pulì velocemente le guance strofinandole con la ruvida manica del cappottino. Poi con le piccole mani fece leva sul marciapiede e si rialzò leggermente specchiandosi quasi per sbaglio nell'acqua. E fu allora, a soli sei anni, fissando i suoi occhi cerulei vuoti che capì. Capì cosa aveva davanti: l'amara verità. Lui era un vero disastro, la sua vita era un disastro, non c'era quella felicità e spensieratezza tipica dei bambini, non sapeva neanche cosa fossero a dir la verità. Lo aveva letto su qualche libro ma il più delle volte non riusciva a comprendere a pieno cosa fossero e si ritrovava a fantasticare sull’avere una famiglia perfetta, forse con quello stesso padre dalla bizzarra capigliatura bionda che non aveva mai conosciuto. Sperava che un giorno sarebbe tornato da lui a prenderlo e a salvarlo. Ma in cuor suo sapeva bene che quella era solo un’illusione ma era l'unica ancora a cui poteva ancora aggrapparsi, l’unica speranza che gli era rimasta.
Continuando a fissarsi in quello specchio d’acqua sporca sentì gli occhi pizzicargli e inumidirsi per le lacrime. La gola gli bruciava, gli sembrava fosse in fiamme e pungeva terribilmente. Sentiva la voce tremante morirgli in bocca. Quel giorno avrebbe voluto rialzarsi, ribellarsi, lottare per se stesso. Sentiva una forte energia pervadergli ogni parte del corpo, dalla punta dei piedi fino al più sottile dei sui capelli. Si rialzò, si girò verso l'altro bambino e serrò i piccoli pugni mentre si mordeva il labbro tremante. Lo guardò negli occhi con sguardo glaciale, cattivo e avvertì da parte dell'altro una reazione che lui conosceva bene: paura. Haruno così si rese conto di quel che stava per fare, di star diventando simile a colui che tanto disprezzava. Allentò i pugni e, deluso e amareggiato da se stesso, prese il suo zainetto e se ne andò via verso casa.
 
A sette anni però ci fu una svolta inaspettata nella vita di Haruno. Tornando a casa dopo l’ennesimo giorno in cui aveva dovuto sopportare tutti i soprusi commessi dai suoi compagni e dal patrigno nei suoi confronti, accadde qualcosa che finalmente avrebbe messo fine a tutto ciò. Arrivato a un incrocio verso la strada che conduceva al parchetto dove da qualche tempo si recava il pomeriggio per stare un poco da solo all’aria aperta, sentì un lamento provenire dalla sua sinistra. Si girò. Vide disteso in un’aiuola un uomo sanguinante. Lo fissò per qualche secondo poi si rigirò e rincominciò a camminare. Se c’era una cosa che aveva capito è che è meglio non immischiarsi in certe situazioni anche se, a dir la verità, gli dispiaceva vederlo lì per terra inerme. Ma proprio quando stava per abbandonare l’incrocio, due uomini vestiti di nero e di tutto punto gli si avvicinarono. Haruno capì subito di cosa si trattava, era piccolo ma non stupido, così si fermò. Uno dei due proferì parola e gli chiese se avesse visto un uomo ferito nelle vicinanze.
Haruno mentì: indicò veloce l’altro lato della strada con il piccolo indice e con voce atona ma sicura rispose che era scappato da quella parte.
Non sapeva nemmeno lui il perché li avesse ingannati. Forse si rivedeva in quell’uomo? Anche lui sembrava essere stato abbandonato da tutti proprio come era successo ad Haruno. Forse fu per questo che decise di proteggere quello sconosciuto? L’unica cosa che sapeva è che all’altezza del cuore aveva sentito un leggero tepore quando aveva parlato. Non sapeva dare un nome a quella sensazione ma erano coraggio ed empatia, indice di un cuore puro che continuava a battere nel suo piccolo corpo nonostante tutto. Proteggere quell’uomo era una proiezione della sua stessa volontà di proteggersi e ricevere protezione e amore da altri.
Una volta che i due malviventi si erano allontanati da lui, Haruno si rigirò indietro, con aria quasi fiera, verso l’aiuola di erba selvatica i cui ciuffi gli sembravano… più alti rispetto a qualche minuto prima? Haruno era un poco confuso da quel fatto ma decise di non farsi altre domande. Riprese a camminare a passi lenti e con il cuore un po’ più leggero.
Dopo circa una settimana le cose iniziarono a cambiare sia a casa che a scuola. I bulletti ormai non lo tormentavano più anzi, gli facevano addirittura dei favori come offrirgli il gelato, cosa che lasciò indispettito Haruno. Quando era a casa, invece la maggior parte del tempo la passava con il patrigno poiché sua madre, come era sempre stata sua abitudine, il più delle volte non era presente. Anzi in quell’ultimo periodo la vedeva addirittura meno spesso di prima, lei infatti scompariva per giorni interi alcune volte. Haruno era sicuro che prima o poi avrebbe abbandonato anche quella casa definitivamente proprio come aveva fatto anche con lui. Per quanto non fosse stata amorevole nei suoi confronti era sicuro che non riusciva a sostenere la vista di quelle violenze che si perpetuavano in quelle mura, anche lei doveva avere un minimo di sensibilità dopotutto. E il fatto che non tenesse particolarmente a lui e che lo stesso Haruno fosse la causa e l’oggetto di tali violenze sicuramente l’aveva convinta ad evadere da quel luogo senza pensarci due volte.
Ma quella sera al ritorno dal pomeriggio passato al parchetto, quando Haruno aprì silenziosamente il portone, non c’era nessuno che lo aspettava furente lì nel piccolo soggiorno su cui affacciava l’ingresso principale. Pensò subito che fosse un brutto segnale. In quel periodo, infatti, era diventato particolarmente bravo a leggere le persone e a capire le loro intenzioni anche con un solo sguardo e questo valeva soprattutto per il patrigno che in tutto quel tempo aveva imparato a conoscere capendo le sue abitudini e anticipando anche i suoi comportamenti. Quella sera però accadde qualcosa di inaspettato. Entrato in casa infatti, dopo aver chiuso dietro di sé la porta, si diresse svelto verso la sua camera. Era così che doveva fare se voleva sfuggire a tutto: far credere di non esserci proprio in casa, essere un’ombra.
Però passando per lo stretto corridoio incrociò il suo sguardo attraverso l’arco di cartongesso che apriva la cucina. Haruno arrestò la sua corsa e rimase lì fermo ad aspettare. I secondi sembravano interminabili, sapeva cosa lo aspettava. Quando lo vide muoversi appena dal suo posto, istintivamente si portò le braccia, piene di dolorosi lividi verdi e violacei che le lunghe e sottili maniche della maglietta nascondevano, davanti al volto, e serrò gli occhi preso da un momento di panico. Ma a differenza di ciò che si aspettava, non accadde nulla. Dopo alcuni secondi, riaprì gli occhi titubante e vide che l’uomo non si era affatto spostato dal tavolo. Stupito continuò a fissarlo sempre con il volto nascosto dalle braccia che ancora tremavano ma, ancora una volta, non successe nulla.
L’uomo continuava a fissarlo in cagnesco, come una belva affamata e arrabbiata, ma non osava alzarsi nemmeno per errore. Alla fine, sbuffò nervoso rumorosamente e gli parlò. Haruno non credeva alle proprie orecchie. Erano anni che non sentiva rivolgersi parole che non fossero urla furiose da quell’individuo crudele. Gli disse di andarsene in camera. Haruno lo fece. Prima si allontanò lentamente dall’uscio della cucina e, una volta superato, corse in direzione della sua cameretta. Si chiuse la porta che gli sembrava quasi enorme dietro di sé e iniziò a respirare affannosamente. Era ancora spaventato, quella era stata una reazione totalmente innaturale, non prevista assolutamente da Haruno.
Aveva paura perché non sapeva assolutamente come si sarebbe potuta evolvere quella situazione: sarebbe venuto da lui per picchiarlo ancora una volta o lo avrebbe lasciato in pace quella sera? Non avrebbe saputo dirlo. Però una cosa era certa, era rimasto paralizzato al solo pensiero che sarebbe potuto arrivare da un momento all’altro. Si accasciò al suolo con un piccolo tonfo rannicchiandosi con la schiena contro la porta, i gomiti sulle ginocchia e le mani al viso. Il suo corpo inizio a tremare terribilmente e a bruciare nei punti dove c'erano ancora piccoli tagli e dolorosi lividi. La vista gli si offuscò per le lacrime.
Era in preda al panico, non riusciva a smettere di pensare a possibili e agghiaccianti scenari e il fatto che non riuscisse nemmeno a vedere da un palmo dal naso non lo aiutava. Sentiva le dita prudergli che bramavano qualcosa su cui affondare e sfogarsi. Haruno le piantò di dritte nel tappeto polveroso su cui sedeva mentre cercava di soffocare i singhiozzi e le lacrime scendevano copiose sulle sue guance. Non riusciva nemmeno più a respirare per bene perciò annaspava alla ricerca di aria. Sentiva la voce morirgli in gola ed era incapace di emettere suoni diversi da lamenti soffocati. Passò così una terribile mezz’ora in cui Haruno tentava di calmarsi ma non ci riusciva fino a quando dentro di lui non si rimase più alcuna forza. Si sentì svuotato ma con l'animo in subbuglio. Con quelle poche forze rimastegli gattonò fino al letto, si arrampicò su di esso e si rifugiò sotto le coperte cercando il loro calore. Stremato alla fine da quella sua instabilità emotiva si addormentò inquieto sul cuscino zuppo di lacrime salate.
La mattina successiva Haruno si risvegliò spossato sentendosi la testa pesante. Cercò di ricordare quello che era successo il giorno prima e una volta riuscitoci avrebbe voluto non averlo mai fatto. L'inquietudine riprese ad assillarlo senza lasciarlo nemmeno per un secondo, la sentiva quasi come se si fosse posata sulle sue spalle e le soffiasse col suo fiato gelido sul collo. Si vestì velocemente e uscì dalla sua cameretta altrettanto velocemente. L'unica cosa che voleva fare era rimandare il prossimo incontro con quell’uomo malvagio. Ma appena si chiuse la porta dietro se lo trovò proprio di fronte. Iniziò di nuovo a tremare mentre lo fissava con sguardo impaurito ma, l’altro oltre a guardarlo con disprezzo e crudeltà dall'alto, non fece nulla. Anzi lo ignorò superandolo per raggiungere l'angusto bagno. Haruno rimase sbalordito ma decise di correre via dell’appartamento prima di riordinare i suoi pensieri. Sulla strada per la scuola iniziò a riflettere. Possibile che le cose stessero iniziando a cambiare? Non se lo spiegava proprio e così nei giorni seguenti iniziò a fare caso a molti particolari intorno a sé.
Passarono un paio di settimane prima che Haruno riuscì a risolvere il mistero. Aveva notato che dovunque andava, nascosto nell'ombra, lo seguiva un signore alto e dall’abito nero con un cappello strano in testa. Tentò di avvicinarsi senza farsi notare e una delle volte che c’era quasi riuscito lo riconobbe. Era l'uomo che aveva aiutato circa un mese prima salvandolo da alcuni mafiosi. A quanto pare l'uomo, anch'egli mafioso aveva dedotto Haruno, era rimasto colpito dal suo gesto e per questo dopo averlo seguito per un po’ e avendo scoperto della sua vita, aveva deciso di aiutarlo e proteggerlo.
Così come unica figura familiare che lo proteggeva Haruno si ritrovò niente di meno che un mafioso con decine di uomo al suo servizio. Paradossalmente la cosa non lo spaventava, a differenza di quanto tre anni prima aveva conosciuto il suo patrigno, sapeva che l'uomo misterioso ci teneva a lui e che lo avrebbe protetto: lo aveva dimostrato molte volte in quel mese. Haruno lo cominciò a guardare come ammirazione come fanno i bambini della sua età con i supereroi. E infatti quel criminale per Haruno era appena diventato il suo nuovo eroe ed era pronto a seguire le sue orme. Fu allora che iniziò a crescere dentro di lui il distorto desiderio di voler diventare anch’egli un criminale. Ma non uno qualsiasi, uno come quello che lo aveva salvato dalla sua vita disastrosa.
 
A dodici anni però Haruno imparò una nuova importante lezione: non tutto dura per sempre.
In quei cinque anni la sua vita era cambiata in meglio sotto molti punti di vista ma lui non era cambiato affatto. O meglio, fisicamente sì: si era fatto smilzo, i lineamenti non erano più quelli di un bambino e i capelli erano cresciuti abbastanza da poter essere raccolti in una piccola coda; ma interiormente i suoi sentimenti non erano affatto cambiati oltre all’essere leggermente maturati insieme al suo corpo. Dopotutto non era possibile cancellare i traumi che si portava dietro a seguito di anni e anni di violenze subite. Non era un qualcosa che poteva essere eliminato di colpo solo volendo ma invece andava metabolizzato col tempo.
Haruno perciò non era ancora riuscito a superare il tutto. Paradossalmente adesso si sentiva ancora più solo di prima. Sì, non c’era più nessun ragazzino che lo sfotteva o lo trattava crudelmente e a casa non c’era più lo stesso clima di terrore insostenibile rispetto a quello che arieggiava qualche anno prima. Certo la tensione nell’aria non era scomparsa ma era abbastanza tollerabile a parte in casi sempre più rari in cui Haruno veniva colpito da attacchi di ansia appena succedeva qualcosa che avrebbe potuto provocare la rabbia dell’unica persona rimasta in casa con lui. Perché effettivamente, come Haruno ebbe ipotizzato, sua madre aveva davvero deciso di abbandonarlo definitivamente in balia del suo triste destino. Ma alla fine il ragazzo si era rassegnato e aveva deciso di rinunciare definitivamente a lei. Razionalmente infatti era consapevole del fatto che fosse meglio così. Almeno sarebbe riuscito a mettere una fine alla relazione contorta con il suo unico genitore naturale rimastogli ma, dentro di sé, continuava ad ardere il bisogno e la brama di quell’affetto mai ricevuto nella sua infanzia. Quel senso di vuoto e abbandono a volte lo faceva sentire così perso e solo da togliergli il respiro.
Inoltre, il fatto che tutti fossero fin troppo gentili con lui a lungo andare lo stava iniziando a mettere a disagio. Lui sapeva bene che quegli atteggiamenti nei suoi confronti non erano affatto sinceri ma erano dettati da semplice paura. Haruno per loro era una persona pericolosa quando, in verità, non avrebbe mai pensato di fare del male a qualcuno. Questo lo rendeva estremamente triste. L’euforia iniziale di essere finalmente salvo e accettato dagli altri ragazzi andò presto scemando e si trasformò in consapevolezza di essere, in realtà, più solo di prima. Si sentiva sempre più estraneo rispetto al mondo e alle persone che lo circondavano. Sentiva dentro di sé il bisogno di vedere scomparire tutto quel che esisteva intorno a lui, di vagare senza meta per le strade scure e solitarie simili a lui. Altre volte invece immagina come sarebbe stato se a scomparire dal mondo invece fosse stato proprio lui. Infatti, aveva capito, che anche in un mondo vuoto che lo rispecchiava a pieno i suoi sentimenti sarebbero rimasti lì con lui a tenerlo incatenato. L’invidia, la tristezza, la solitudine, la sua oscurità lo avrebbero accompagnato per sempre. Non poteva sfuggire in alcun modo da loro.
Era ormai sera e Haruno stava tornando a casa dopo aver trascorso il pomeriggio fuori passeggiando vicino al Golfo. Quel giorno gli era sembrato alquanto strano. Sentiva come se qualcosa fosse cambiato, percepiva un’aria diversa intorno a lui. Tutti lo avevano ignorato ma in modo diverso dal solito. Si sentiva preoccupato ma cercò di scacciare quello strano presentimento. Tornò a casa, salì con alcuni balzi gli scalini davanti al portone, infilò la chiave nella toppa e la aprì con tre mandate.
Appena entrato subito percepì un suono che non spesso si sentiva in quella casa: il vociare e le interferenze provenienti dal televisore in camera del patrigno. Haruno non aveva spesso l’onore di poter vedere la televisione, era di proprietà esclusiva di quell’uomo e al ragazzo, a dir la verità, non importava minimamente. Eppure, quella sera, fu colto da un’enorme curiosità: continuava chiedersi il perché l’altro avesse lasciato aperta la porta della sua stanza quando era sempre stata chiusa. Haruno neanche ricordava come era all’interno. Era quasi come se fosse stata lasciata così a posta, come se volesse che il ragazzo andasse lì. Haruno accolse quell’invito ma comunque non abbassò la guardia. A passi lenti e silenziosi attraversò il soggiorno e poi il corridoio. Si appoggiò con le mani sull’uscio della stanza sporgendosi leggermente solo con il capo. La stanza era avvolta da una fitta cappa di fumo proveniente dalle decine di sigarette che il patrigno usava fumare ogni giorno. In quella coltre Haruno riuscì a stento a intravedere la figura dell’uomo sedere su una vecchia poltrona rovinata e la luce soffusa del televisore ingombrante. Tentò di capire il programma che stessero dando in quel momento e dopo qualche secondo, in cui non riusciva a distinguere bene le parole, udì il jingle del telegiornale locale seguito dalla voce della giornalista che annunciava l’inizio dell’edizione speciale. Il ragazzo così aguzzò ancora di più la vista e l’udito.
“Edizione speciale - annunciava la giornalista dalla folta chioma – È stato ritrovato un corpo senza vita in uno dei vicoli dei Quartieri Spagnoli appartenuto a uno degli esponenti più noti dell’organizzazione mafiosa P…-”
Haruno ascoltò ma non assimilò subito l’informazione. Non poteva credere alle sue orecchie. Così, per cercare conferma dalle immagini, continuò a sforzare la vista per guardare il televisore. Non riusciva a vedere bene, doveva vedere bene. Da quel servizio poteva dipendere tutta la sua vita. In uno stato quasi catatonico iniziò a muoversi entrando in quella stanza. Guardò le immagini. Non poteva credere nemmeno ai suoi occhi. Lì sullo schermo c’era lui. Colui che da cinque anni lo proteggeva, tirava i fili della sua vita per salvaguardarlo, la sua guida, il suo punto di riferimento, il suo eroe. E invece adesso era lì, su quel piccolo schermo dal segnale disturbato, con un enorme buco in fronte e affogato nel suo stesso sangue.
Le gambe di Haruno non ressero più. Cadde al suolo in ginocchio mentre continuava a ripetere sottovoce una serie di “no” con lo sguardo disilluso perso nel vuoto. Si portò le mani tra i lunghi ciuffi neri scombinandoli. Era finita. Erano finiti i giorni di calma, adesso sarebbe ritornato tutto come prima. Il suo respiro divenne affannoso, gli occhi iniziarono a balzare a destra e a sinistra. Non riusciva più a controllarsi, a mantenere la calma. Udì un rumore soffocato: il padrigno appoggiò le mani sui braccioli. Subito lo sguardò di Haruno corse in quella direzione. Lo vide alzarsi e il ragazzo con occhi sgranati iniziò a indietreggiare trascinandosi sul pavimento. Cercò di alzarsi velocemente una volta essersi allontanato abbastanza. Sarebbe voluto scappare. In camera, fuori da quella casa. Dappertutto. L’importante era scappare.
Si alzò e subito scattò via dandosi la spinta con la mano sullo stipite della porta. Ma proprio mentre voltava l’angolo sentì una mano pesante sulla sua schiena. Fu spinto per terra con violenza. Sbattè forte il mento contro le fredde assi di legno. Sentì il sangue denso e caldo bagnargli il labbro e scorrergli su gran parte del viso. Il mento gli faceva male, il naso gli faceva male, tutto gli faceva male. Si rigirò verso il punto in cui era stato colpito e lo vide. Gli sembrava enorme, lo sovrastava con la sua enorme statura mentre lui si sentiva piccolo piccolo. Si sentiva come se fosse tornato indietro nel tempo a quando quel tipo di situazioni erano all’ordine del giorno. Le braccia con cui si manteneva più o meno dritto iniziarono a tremare come ramoscelli al vento. Non era pronto a ritornare a quel tipo di quotidianità, non era pronto a dover ritornare a subire tutto quello di nuovo. Non lo sarebbe mai stato. Ma nel momento in cui si sentì afferrare forte i capelli e si sentì strattonare verso l’alto costretto a rimettersi in piedi capì che doveva ritornare ad abituarcisi. Non ricordava più come faceva prima a sopportare tutto ciò: il trauma era rimasto vivido nella sua mente ma allo stesso tempo quel ricordo gli sembrava così lontano. Vide l’enorme mano avvicinarsi quasi a rallentatore, poteva scorgere tutti i suoi movimenti. E poi il nulla.
Quella fu la prima di tante sere in cui Haruno si risvegliava nel bel mezzo della notte sul freddo pavimento con l’odore metallico del ferro a riempirgli fastidiosamente le narici, incapace di muoversi, con la testa pesantissima e con il corpo gli si sembrava potesse cadere a pezzi da un momento all’altro. Fu la prima di tante notti passate al bagno per pulirsi e medicarsi in qualche modo. Fu la prima di tante notti passate a rigurgitare tutta la cena per l’ansia e il panico che lo comandavano come una marionetta senza lasciarlo pensare lucidamente.
Quella fu la notte in cui, a soli dodici anni capì che nulla è per sempre, nemmeno la speranza.
 
A tredici anni però Haruno, guardandosi intorno e osservando gli altri suoi coetanei, iniziò a desiderare molte cose che sentiva non gli appartenessero per nulla. Li vedeva liberi di uscire e comprare ciò che volevano, impensabile per lui in quanto gli unici soldi che riceveva di rado erano proprio dal patrigno e, se li riceveva, era perché o gli faceva fin troppa pena o perché non voleva averlo tra i piedi. Gli rodeva un sacco il fatto di dover dipendere da quell’uomo in tutto e per tutto senza poter nemmeno ribellarsi, dovendo addirittura ringraziarlo a volte. Si sentiva davvero umiliato. Quello che Haruno desiderava di più era comprare un qualcosa di suo e poter dire che apparteneva solo e soltanto a lui, a nessun altro. Poter dire di non dover dipendere per forza da quello stesso mostro che lo maltrattava tutti i giorni. Non era la cosa in sé che lo affascinava ma era il possederla, il significato che derivava da quel gesto: per gli altri poteva sembrare una cosa di poco conto ma per Haruno ciò voleva dimostrare che era ancora lì, che c’era, era pronto a continuare a lottare. Era un segno di ribellione.
Haruno però era ben consapevole del fatto che se voleva un qualcosa l’unico modo per ottenerlo non era proprio lecito. E neanche legale, a dir la verità. Era troppo piccolo per iniziare a lavorare. Avrebbe potuto trovare un lavoretto vista la sua statura più solida dei suoi coetanei, eppure sapeva che nessuno lo avrebbe voluto con sé; e sapeva bene il perché. L’unica soluzione rimasta era rubare. Ad Haruno però non piaceva affatto essere considerato un ragazzaccio qualunque, né tantomeno voleva diventare come quei ladruncoli da quattro soldi con una morale discutibile. Non lo faceva per ferire gli altri, né per avidità. Eppure, era l’unica strada rimastagli.
Il giorno in cui decise di andare a fare il suo primo colpo era decisamente agitato, lui non era fatto per quelle cose. Al solo pensare a ciò che stava per fare le mani gli tremavano, le sentiva diventare sempre più sudate e appiccicose. Entrava in uno stato di ansia e di allerta da cui non riusciva a scappare. Temeva tutto: di non essere in grado di afferrare di soppiatto nemmeno un piccolo pacco di gomme, cosa che gli appariva semplicissima (l’aveva vista fare un miliardo di volte); di essere scoperto e casomai di vedere la polizia arrivare, di essere poi arrestato e dover infine fronteggiare, uscito di gattabuia, quel bastardo ancora una volta. La sua mente creava miliardi di possibili scenari lasciandolo però lì, immobile. Impaurito. Non era fatto per quel tipo di cose. Decise di spostare lo sguardo dallo scaffale per provare a far schiarire la sua mente da quegli opprimenti pensieri. Lanciò prima un'occhiata di soppiatto verso il proprietario del negozietto di alimentari, che stava dando il resto ad un altro cliente, e poi si girò dall'altro lato sospirando lievemente. Alzò poi lo sguardo e vide di fronte a lui un altro ragazzo. Era leggermente più alto di lui, anche più robusto, sembrava essere più grande di qualche anno. Furtivamente faceva correre le sue mani su quegli scaffali afferrando quante più cose possibili silenziosamente. Prima alcuni snack, che infilò con naturalezza nelle tasche della felpa, poi alcune caramelle e altri oggettini che Haruno non riusciva ad identificare. Haruno lo stava scrutando impassibile, quasi ammirato, non aveva spostato di un millimetro lo sguardo da lui. Stava cercando di imparare da lui come si ruba. Lo vide poi girarsi di scatto verso di lui. Si sentì come risvegliato da un profondo stato di trance, era davvero catturato dai suoi movimenti. Sbatté velocemente le palpebre, celando per alcuni secondi i suoi occhi cerulei, poi distolse lo sguardo, imbarazzato per essere stato colto in flagrante. Quando notò con la coda dell'occhio che l'altro ragazzo gli stava facendo segno con la mano, ritornò a guardarlo. Questa volta fu il turno dello sconosciuto di controllare l'area intorno a loro furtivamente e, una volta accertatosi che non ci fosse nessuno, portò il suo indice al viso, all'altezza della bocca. Sibilò lievemente un impercettibile “shhh” accennando un sorrisetto che mostrava leggermente i denti bianchi.
Haruno, ancora un poco sbigottito, rispose con un semplice cenno del capo e si rigirò meccanicamente verso il suo scaffale per nascondere il suo imbarazzo. Continuò ad osservarlo di sottecchi, cercando di non farsi notare. Dopo pochi istanti, vide l’altro ragazzo muoversi di scatto. Stava correndo verso l'uscita dietro la piccola corsia dove poco prima si erano scambiati quello sguardo di intesa. Haruno si girò velocemente per inseguirlo con lo sguardo. Era rapito da quella visione. Era come se quel ragazzo avesse incarnato i suoi desideri. Gli sembrava quasi una visione mistica, voleva inseguirla. Sentiva il richiamo della libertà invocarlo. Voleva essere anche lui così. Era impossibile resistergli, tutti i suoi sensi erano stati catturati. Il fascino che scena stava esercitando su di lui, gli fece sembrare che quel ragazzo fosse avvolto da un’aura magica. Tutto durò pochi secondi che sembravano essersi dilatati all'infinito. Quando la malia si spezzò, lo vide scomparire dalla sua vista all'improvviso. Sentì come se gli mancasse il respiro, aveva bisogno di respirare di nuovo quella sensazione indescrivibile. Si mosse, tendendo una mano verso il posto dove il ragazzo era fuggito. Voleva inseguirlo, voleva inseguire la sua libertà. Sentiva che le sue preoccupazioni lo avevano abbandonato per qualche secondo. Ma quando raggiunse l'uscita correndo fu bloccato da una mano che lo trattenne per la spalla. Haruno cercò di ribellarsi, non voleva essere fermato ancora, non ora. Quello poteva essere un momento di svolta, se lo sentiva. Si divincolò, riuscendo con qualche scossa a liberarsi. Quasi cadde per la sua spinta, ma facendosi forza con la mano sul marciapiede subito si rimise in piedi e riprese il suo inseguimento.
Corse a perdifiato, il ragazzo era certamente più veloce di lui. Sentiva il venticello freddo primaverile soffiargli con prepotenza all’addome attraversando la sua sottile maglietta. I capelli neri, che erano cresciuti, gli sferzavano il viso ma senza procurargli fastidio. Sentiva il cappotto quasi come se gli stesse per cadere a causa del vento e della velocità a cui stava andando. L’affanno continuava ad aumentare insieme alla distanza tra lui e l'altro. Finché non ce la fece più. Rallentò con passi pesanti piegandosi leggermente con i palmi delle mani sulle ginocchia per riprendere fiato. La sua libertà gli era sfuggita. Strinse più forte la presa sulle sue ginocchia maledicendosi, non era mai abbastanza per nulla. Si rialzò poco dopo, portando lo sguardo verso l'immenso cielo azzurro sopra di lui liberando tutta la sua frustrazione in ultimo e più pesante respiro.
Nel pomeriggio Haruno decise di riprovare. Scelse un altro negozietto, una computisteria dello stesso quartiere ed entrò. Come fece la mattina si avvicinò allo scaffale, si guardò intorno attento. Fece un sospiro profondo per prepararsi mentalmente. Prese alcune cose dallo scaffale: una penna, una matita e altra cancelleria. Si guardò di nuovo le spalle un po' ansioso delle possibili conseguenze: non era sicuro delle sue capacità. Si fermò un attimo ricordando le sensazioni provate la mattina e sentendosi incoraggiato e ispirato si avvicinò di soppiatto all’uscita nascondendosi dietro agli scaffali. Prese a correre via. Corse per un paio di marciapiedi fin quando non decise di guardarsi indietro. Dietro di lui vide due sbirri che lo stavano seguendo. Non aveva sentito i loro passi, nelle sue orecchie rimbombava solo frastuono del suo cuore impazzito e il respiro affannoso. Haruno però sapeva che non doveva farsi prendere per nessun motivo, perciò, correre sulla strada principale non gli sembrava una buona idea. Correndo continuò a tenerli sotto controllo con occhiate fugaci ma erano sempre più vicini. Non aveva nemmeno il tempo di poter effettivamente preoccuparsi della situazione in cui si era cacciato. Certo, era agitato: la testa gli pulsava forte per l'adrenalina ma cercava di non farsi sopraffare. Alla prima occasione buona si buttò in uno dei vicoletti che davano sulla strada. Velocemente correva seguendo la strada, appoggiandosi ai muri per darsi una leggera spinta. Quasi arrivato alla fine del vicolo, si sentì una mano afferrarlo e un'altra coprirgli la bocca. Con forza venne preso e venne tirato verso l’ammasso di legna e oggetti di ferro. Haruno si sentiva spaventato, non solo stava scappando da un furto ma adesso lo stavano anche rapendo. Non sapendo cosa pensare iniziò a tremare. Portato all'interno di quel mucchio di cianfrusaglie non aveva ancora visto la faccia del suo aguzzino che aveva allentato la presa sul suo braccio ma ancora gli copriva la bocca con la mano. Spaventato Haruno si voltò lento e di fronte si ritrovò il ragazzo che aveva visto la mattina. Batté le palpebre sorpreso e iniziò fare respiri profondi per tranquillizzarsi finché il ragazzo non gli rivolse la parola:
“Se levo la mano prometti che non urli?” sussurrò. Haruno annuì titubante e, una volta liberato, si sentì leggermente strattonare una mano.
“Seguimi" gli disse.
Dopo essere usciti da quell’angusto cunicolo, si ritrovarono in un altro vicolo collegato e stando attenti a non far rumore uscirono di nuovo sulla strada principale seminando i poliziotti.
Haruno era rimasto sorpreso non si aspettava alcun tipo di aiuto e soprattutto era sollevato di essere riuscito a scamparla e così iniziò a parlare esitando un po’: “Grazie… per avermi aiutato.”


Note dell'autrice:
Salve, grazie per essere arrivati fin qui con la lettura. Prima di tutto, ci tengo a precisare il motivo per cui ho pubblicato questa storia. L'ho scritta diversi anni fa (credo quattro anni belli pieni) quando l'anime di Vento Aureo andava ancora in simulcast su vvvvid; sì, secoli fa. Perché l'ho pubblicata solo ora, mi chiederete... perché non l'ho mai terminata. Sarebbero dovuti essere tre capitoli: Preludio, Canone e Coda, ma ho scritto solo il primo e piccoli sprazzi degli altri due. L'ho messa qui su efp dopo anni nella speranza che così mi venga voglia di darle la fine che si merita, perché sento che è una storia che vuole essere raccontata, sono io che sono pigra, ma sto migliorando. E perché la me più piccolina ne sarebbe tanto felice vedendola conclusa. Questo capitolo, infatti, l'ho solo corretto e non l'ho riscritto perché mi sembrava giusto così, è nato in questo modo ed è giusto che rimanga così, secondo me. Ovviamente, spero di essere migliorata un po' a scrivere con gli anni ma chissà... lungi da me dare questa sentenza anche perché non ne sono in grado. Detto ciò, spero vi sia piaciuto e spero che ci rivedremo in futuro (quando finirò le altre wip che hanno la priorità al momento) con il continuo, perché le cose belle iniziano lì (per davvero però, qualcuno diceva che la vita è un pendolo che oscilla tra dolore e noia con brevi attimi di felicità e secondo me non ha tanto torto). Invito, come sempre, a lasciare un parere se vi va e a fare un giro nel mio profilo per vedere le altre storie.
A presto :3
   
 
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