CANTO X - Ove il poeta, ascososi con Vergilio, si fa dare le prime spiegazioni circa l’aldilà.
S'odì un odore de fauna palustri
E passi pesanti su tavole infrante.
Retro li tomi de le "Vite Illustri"
Rifugio femmo con fiata ansimante.
Ecce, fra i rotoli svettò un saio
E visa dure e fiere, infernal cresimante
Era Torquato, catena a bagagliaio
Trascinava arretro cinghiati, da scolaro,
Papiri e codici dal pesante telaio
E s’arrestò a due passi dal nostro riparo.
Disse'l benedettino "Ahi, Svetonio!
Fortunato fosti a ieri paro paro,
Che per trar via il tuo patrimonio
Tutto il resto io dovria lassare.
Ma non tripudiare, savio dimonio,
Che domani istesso ti verrò a trovare
E in un minuto farò il lavoro d'un giorno
In quest’ignoto letterale mare."
Ciò detto discorso, per puro contorno,
Mollò un gran calcio al muro di carta
Che tutta addosso coverse d'intorno
Su le nostre figure e poi si diparta.
Un sospiro io traggo e alzatomi dico
"Poco ancora e quello ci squarta!"
E mi son scosso dello scritto antico
Biograficante di chi ebbe successo
da Seneca indietro a Livio Andronìco.
Il duca rispuose "Stiamogli appresso
Che la pria cosa ch'ho io da mostrarti
Al bieco tragitto d'egli è annesso."
Ed egli, da romano, avea le arti
Non sol culturali ma pur nel fisico
E prese a scalare l'impervie parti
Di quel colle ove io invece risico
A sol star dietro i suoi balzi soprani.
Poggiai le mani su un codice astrofisico
Tolteca del tempo di Mallatzin, tlahtōani
Di Colhuacan, città dei grandi laghi,
E dietro il mi lasciai per li sentieri strani
Intrapresi dal duca per motivi a me vaghi.
Sul dorso m’assistette a salire acquattato
E dalla cima scrutammo nugoli de nuraghi
Fatti di nigri mattoni e ciottolato
È il sentiero al loco a me anonimo
Stagliante su sfondo di zolfo e nitrato,
Di cui sempre Bosch, noto Hieronymo,
Come avvertenza illustrò nei suoi quadri
Che tanto orridì lo me sinonimo
Dacché in vita fui e or coi miei padri.
Spesso fui sul punto de convertire
Per li timori (del raziocinio i ladri)
De le etterne sataniche ire
Pur sempre il dubbio prevalse alla fede.
Ma trovandomi ora all’imbrunire
Nella cittade in cui Dite risiede
Lo spasmo mi prese al realizzare
Che all’inferno poggiava il mio piede.
Al che prego al cielo, ogni malaffare:
“Eloì, Eloì, lama sabactàni?
Per pochi anni trascurai il tuo altare
Dietro a svaghi temporali, mondani
E senza domani mi dai tal castigo.
Ne ho io la colpa? A trovarti furno inani
Li sforzi miei in ogni sacro rigo
Che tanto confusi si faceano col mito
Del duca meo e di te fei disbrigo
Come qualunque leggenda nell’infinito
Distendere dei credi d’ogni angolo di mondo
Che più savio trovai non seguire alcun rito
Dal momento che mai sarei giunto al fondo
Dell’unica justa o se vi fosse affatto
E che un inferno sempre facemi sfondo
E avevo inver ragione, eccomi disfatto
Perché sempre prove io mal ricercavo.”
Vergilio dovettemi tarpare ben ratto
La bocca mea e redarguì quell’avo:
“Idarno tu favelli li passati peccati,
Poiché non sei del Tartaro schiavo.”
“Mia guida” Ripresi “Indo s’è traghettati,
Se morti non semo e dannati neppure?
Rispondimi alfine, scoprimi gli strati
Che asconde il loco, se le tue cure
Davvero hai fatto patto d’offrire
Qual Cicerone delle inferi paure.
È tutto un sogno o vedo l’avvenire?”
Rincuorò egli “Ancor sei tu acerbo
Per vagare li campi dell’Ade il sire.
Lo mondo in cui trovi è lo riserbo
Di chi si fe servo alla musa Calliope
O come è nomata, quel nostro nerbo,
Pel globo vasto per l’occhio miope.”
“Non è dunque un sogno?” Dimmando confuso.
“È falso dunque l'ingresso etiope
Che Ariosto disse all’inferno fu fuso?
E Dante, dunque, di quanto ha errato?
E pur tu, mio duca, il pubblico hai illuso?”
“L’Orco è informe” Spiegò il magistrato
“Noi lo plasmiamo in accordo ai desiri
Come quei in basso, che vedi in tal stato,
Quest’ultimo è frutto dei loro sospiri.”
“Che fu di Ade?” Chiesi paonazzo
“Di Nergal, Ninazu, Aita ed Osiri?”
“Sol nomi giocosi” Disse in imbarazzo
“Che diamo a ciò che non conosciamo
Per lo sfizio di cogliere in un vocabol sprazzo
Ciò ch’è oltre la stirpe d’Adamo.”
“Io ti contesto” Dissi impettito
“Se gli dèi frutto son de lo calamo
Come potè Aenēās il favorito
Pocanzi sottrarmi al cristico paio?
Lui che prima de tutto è mito
E due volte in quanto divino ereditario,
Figlio di Venere eppure concreto
Nel contrastare il duo de lo saio?
Parla, non farmi sapere divieto!”
“Già te lo dissi” Scosse lui il dito
“Due volte e ora una terza ripeto
Sol ne la mente può l’ombra del mito
Atterrir chi vi crede e così avvenne.
Illusioni, nulla più, eppure han patito
Perché quel duo, dal credo solenne,
Sempre in cerca son di nimici
Per riscattar lo favor che li sostenne
In vita e pur ora ne cercan le radici.
Facile poi è illuder chi mi lesse:
Non credi che Milton, che tu benedici,
Letto abbia il poema di noi stesse
Nel dipinger Lucifero e’l suo viaggio?
E Torquato non foggiò la cavaler arabesse,
Clorinda a Camilla, de’ Volsci lignaggio?
Or giù venmi e retro stammi ben stretto!”
Così lo seguitti nell’ameno selvaggio
Verso il tenebroso e infernal ghetto.