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Autore: _Lisbeth_    25/05/2023    1 recensioni
Jürgen scrive da quando era solo un bambino, ma non ha mai scritto niente per se stesso, fino alla calda estate del 2022, in cui inizia a stendere il proprio diario personale, inserendone la propria filosofia e i propri pensieri, mentre le giornate scorrono lente nel torpore tarantino.
Dal testo:
"Io mi chiamo Jürgen, comunque. I diciannove anni li ho compiuti il trenta aprile, sono stato uno tra i primi, in classe. Nonostante ora mi trovi nella villetta estiva che prendiamo in affitto tutte le estati, sulla litoranea tarantina, sono nato in Germania. Il tedesco lo so parlare, essendo cresciuto in una casa in cui si sono sempre parlate due lingue: mio padre Emil é nato a Berlino, dove sono nato anch'io, e mia madre Arianna è nata qui, nella città dove mi trovo adesso e dove ho passato tutta la mia infanzia e la mia adolescenza, abituato al profumo del mare in estate e alle inalazioni di diossina in autunno, inverno e primavera."
Forse romanzo di formazione in erba, avviato in un'estiva notte insonne.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.

Stasera, a dormire, proprio non ci riesco. Non ne capisco il perché, forse la causa del mio girarmi e rigirarmi nel letto è data proprio dalla scomodità del materasso, o dal fatto che la mia mente, oggi, stia vagando più del solito. In effetti é da tanto che non mi succede di non riuscire ad addormentarmi, perché solitamente vado a letto abbastanza presto, chiudendo gli occhi già dopo le dieci della sera, senza nemmeno rendermene conto. Eppure, stasera, sembra così difficile.

É quasi l'una e io ho cercato di trovare delle strategie per riuscire almeno a farmi venire sonno. Ho preso un libro e sono uscito per restare un po' all'aperto a leggere. Mi sono alzato dallo scomodo, forse troppo grande letto, e ho percorso il breve tratto che serve fare per arrivare dalla mia stanza alla porta che dà sull'esterno. 

C'è una piccola veranda attrezzata di sedie e un tavolino di plastica su cui mi piace passare il tempo specialmente la mattina, sedendomi su una delle sedie e appoggiando i piedi sul tavolo. Di giorno é più bello, il sole non mi dà nemmeno eccessivamente fastidio, essendo la veranda sempre ombreggiata. E ho fatto proprio così, questa sera: mi sono seduto, ho appoggiato i talloni sul tavolo e ho aperto il libro dove l'avevo interrotto, a pagina duecento. 

Ho avuto un lungo blocco del lettore di cui sono riuscito a disfarmi solo pochi mesi fa, e a dire il vero ne sono soddisfatto, perché ho ricordato finalmente quanto bello fosse leggere, quanto mi piacesse da bambino e quando la lettura avesse fatto per permettermi di sentirmi meno solo durante l'infanzia. 

Avrei preferito, tuttavia, che il mio blocco del lettore si dissipasse dopo gli esami di maturità. Sì, perché in questo periodo tutto si rivela essere una distrazione dallo studio, un motivo per non mettere la testa sui libri di scuola e tante altre frasi che potrebbero tranquillamente venir fuori dalle labbra dei miei insegnanti. 

Non trovo cosa ci sia di male, però, nel dedicarmi alla lettura di un bel libro piuttosto che studiare, non la vedo come una perdita di tempo, ma come un arricchimento che vale quanto lo studio della storia o della fisica. Fisica é una materia che proprio non mi piace, storia la preferisco. 

Non vado male a scuola, nonostante le varie distrazioni che possono capitarmi a tiro e da cui spesso mi faccio trascinare. Mi sono sempre impegnato, a volte più e a volte meno, quest'anno in particolare ho raggiunto dei buoni risultati, ma di sicuro preferisco spendere il mio tempo in altro. 

Non leggo e basta, no. Mi piace disegnare, ascoltare la musica. So anche suonare il pianoforte, nonostante io mi ritenga molto più portato per la chitarra. La trovo più libera e meno rigida, e in realtà lo studio del pianoforte l'ho anche pressoché abbandonato da un annetto, appena prima dell'esame che avrei dovuto svolgere per ottenere il diploma in solfeggio. Non oserei dire che io sia scappato, più che abbia preferito smettere di stressarmi anche con lo studio del pianoforte, che inizialmente mi piaceva e che avrebbe dovuto continuare a piacermi. Non lo suono da quando ho lasciato e un po' mi manca, se ci penso. 

L'ultimo giorno di scuola io, Samuele e Clara ci siamo rifugiati in un'aula vuota, accaldati nella classe affollata in cui ci trovavamo quel giorno, particolarmente afoso e umido, e in quell'aula ci abbiamo trovato due pianoforti. Uno era scordato, ma l'altro sembrava essere a posto.

"Suona un po', Jürgen", mi aveva detto Samuele, scaricando tutto il peso della magra ma imponente figura su un braccio, poggiato sul pianoforte, mentre Clara si divertiva a far scivolare in avanti e indietro una matita su un banco vuoto.

"E che dovrei suonare?"

"Quello che ti ricordi."

Mi ricordavo poco e niente. Anni prima avevo imparato a suonare "Merry Christmas, Mr Lawrence", un pezzo di Ryuichi Sakamoto che fa parte della colonna sonora di un film di cui nemmeno riesco a ricordare il titolo. Cercai di abbozzare qualche nota che mi pareva di rimembrare, ma non riuscivo a ricostruire la struttura del pezzo, quindi lasciai perdere.

"La sai suonare Fra' Martino?", chiese improvvisamente Clara.

"Sì."

"E perché non suoni quella?"

"Perché é semplice. Potresti suonarla pure tu."

"Davvero?"

"Già. Do, Re, Mi, Do, Do, Re, Mi, Do, Mi, Fa, Sol", e via dicendo.

In classe mi trovo abbastanza bene. O mi trovavo, non so come sarebbe meglio dire ora che mi avvicino alla fine di questi cinque anni di superiori. Comunque, la mia è una classe abbastanza pacifica. 

Gli scontri non mancano, di sicuro, soprattutto tra chi ha opinioni politiche contrastanti, io per primo mi sono spesso trovato a sbuffare ad alcune affermazioni fatte da tre fascistelli della mia classe, che per fortuna sono solo tre. 

La verità è che io proprio non capisco il motivo che spinge dei ragazzetti a sostenere un certo tipo di idee (la dittatura, la violenza), ma non ho molta voglia di parlare di politica, ora. 

A parte queste differenze ideologiche e qualche screzio, in classe regna un ambiente pacifico, in particolare in questi ultimi due anni. Prima, be', non si poteva dire lo stesso, ma eravamo ancor più piccoli di quanto possiamo esserlo adesso, e per fortuna molte questioni si sono risolte con il passare degli anni.

Io mi chiamo Jürgen, comunque. I diciannove anni li ho compiuti il trenta aprile, sono stato uno tra i primi, in classe. Nonostante ora mi trovi nella villetta estiva che prendiamo in affitto tutte le estati, sulla litoranea tarantina, sono nato in Germania. Il tedesco lo so parlare, essendo cresciuto in una casa in cui si sono sempre parlate due lingue: mio padre Emil é nato a Berlino, dove sono nato anch'io, e mia madre Arianna è nata qui, nella città dove mi trovo adesso e dove ho passato tutta la mia infanzia e la mia adolescenza, abituato al profumo del mare in estate e alle inalazioni di diossina in autunno, inverno e primavera. 

Taranto non è male, se la si guarda da una prospettiva che non abbia a che fare con l'acciaieria. C'è un bel lungomare, che a parer mio non si trova ovunque. In centro è piacevole camminare e la litoranea è sempre piena di gente, in estate. Il fatto che sia una città piacevole non significa che mi vada a genio, però. Non c'è molto da fare se non farsi una passeggiata e, spesso, passeggiando, mi ricordo della mia infanzia, che per molte cose preferirei dimenticare: qui dentro mi sento in trappola. In trappola in una vita con scarse se non inesistenti opportunità per chi vorrebbe diventare un artista, in una città che spesso non ascolta, che non evolve. Chissà se quando andrò via mi sentirò più a casa di quanto non mi ci senta adesso, sdraiato nel letto della villetta a scrivere.

Sì, perché uscire a leggere non è servito a molto. Ho letto appena due pagine e poi ho richiuso il libro, stanco abbastanza da non riuscire a leggere ma non sufficientemente per addormentarmi. L'unica cosa a cui uscire è servito é stata farmi pungere da tutte le zanzare possibili.

Prima mamma è venuta a darmi la buonanotte, quando sono uscito.

"Che fai, Jü?"

"Leggo."

"Non hai sonno?"

"No."

"Leggi il libro che ti ho portato?"

Mi ha portato poco fa un libro che avevo ordinato, arrivato in libreria oggi.  "No."

"Deve essere orrendo, quel libro." ha detto, quasi rabbrividendo, con una smorfia sul volto tirato.

"Per te tutto é orrendo se non è solo rose e fiori."

Ha riso, accarezzandomi i capelli. "Buonanotte, Jü. Chiudi la porta con le mandate e la zanzariera, se no queste stanotte ci mangiano. E non andare a dormire troppo tardi."

Adesso sono le due meno un quarto. Poco fa sono andato in bagno, perché quando non riesco a dormire mi viene spesso sete e finisco per arrivare a metà bottiglia. Mi sono guardato allo specchio e ho tirato su col naso, osservando la mia immagine con lo sguardo stanco. Nei miei occhi azzurri vedo quelli di mio padre. Con mio padre ho un rapporto che non saprei come definire. Forse di tolleranza, o una parola del genere. Lui sono sicuro che da me vorrebbe di più di un rapporto di tolleranza, lo vedo quando torna a casa e mi arruffa i capelli.

"Guten morgen, figlio mio." Mi dice sempre. Siamo abituati, a volte, a inserire nelle frasi qualche vocabolo tedesco, parlando prevalentemente in italiano: per mio padre, così, é più facile. Ormai è diventato molto bravo a parlare la lingua di mia madre, ma a volte deve sforzarsi un po'. Quando entra non lo accolgo quasi mai come lui vorrebbe, forse. Accenno un sorriso quasi senza staccare gli occhi da ciò che sto facendo, o abbozzo un semplice "Ciao", che non mostra esattamente la voglia spropositata che ho di vederlo. 

La verità é che mio padre è un brav'uomo, un buon padre che non mi fa mancare niente, e a dire il vero non capisco da dove possa essere nato questa mia, chiamiamola diffidenza, nei suoi confronti. Di volergli bene gli voglio bene, ma non lo vedo come una figura indispensabile nella mia vita. O meglio, di fatto lo è, e mi sento anche un po' un ingrato, perché senza lui e mia madre io non potrei né mangiare, né tanto meno alzarmi nel cuore della notte per andare a leggere nella veranda di una villetta in affitto vicino al mare.

Un giorno è venuto da me mentre stavo studiando storia dell'arte. Ha aperto leggermente la porta e ha sorriso dal piccolo spiraglio. Quello di mio padre è un sorriso rugoso ma fresco, di quelli che infondono fiducia in chi li guarda, dietro a quella barbetta un po' brizzolata, esattamente come i capelli una volta biondi come i miei.

Era prima di Natale e stavo studiando l'impressionismo, con molto piacere, per altro. Mi stava piacendo molto, quello, come argomento. La storia dell'arte del quinto anno mi appassiona molto di più di quella degli anni passati. Non voglio sminuire in alcun modo l'arte classica o l'arte rinascimentale, quelle che piacciono molto a Clara, ma ho amato studiare le avanguardie sorte dopo le guerre mondiali e quelle ottocentesche. Mi trovo più vicino sia a quegli artisti che alle loro idee.

Quando è arrivato mio padre, stavo scribacchiando qualche appunto accanto all'opera di Manet "Il bar de les folies bergère", che trovo incantevole. Sono molto affezionato all'impressionismo, e anche se so che Manet viene definito più precursore impressionista che impressionista vero e proprio, è di gran lunga l'artista che ho amato di più in tutto il quinto anno. Non alzai la matita e lo sguardo dal libro, allungando la mano nel piatto che avevo poggiato sulla scrivania per prendere un pezzo di mela e incastrarlo tra i denti.

"Jü."

"Sì?"

"Posso chiederti una cosa?"

Aggrottai la fronte, ingoiando il pezzo di mela che avevo masticato prima di scrollare le spalle. Di solito, quando mio padre entrava nella mia stanza, era per dirmi cose del tipo "Ho comprato un nuovo disco" o "Ti ho portato dei kiwi", ma quasi mai per chiedermi una cosa.

"Che cosa?"

Lo vidi sedersi sul mio letto, facendosi spazio tra i vestiti sparsi qua e là che non mi decidevo a infilare nell'armadio o nei cassetti, cosa che faceva innervosire parecchio mia madre.

"Sei omosessuale, Jü?"

Lasciai a mezz'aria il secondo spicchio di mela che stavo per mettere in bocca. Sapevo che un giorno mi avrebbe posto questa domanda, ma credevo sarebbe successo in un altro momento, magari a tavola, o davanti alla TV.

Ho scoperto di essere gay già un bel po' di tempo fa, a cavallo tra la terza media e la prima superiore, quando il mio migliore amico dell'epoca, durante un pomeriggio passato a casa sua a giocare a Mario Kart sulla Wii, mi aveva baciato. Lui si chiamava Federico e in prima media non avevamo legato da subito, più verso la fine dell'anno, fino a diventare inseparabili in seconda e in terza. Tuttavia, non mi sarei aspettato, quel pomeriggio, di ritrovarmi sdraiato sulla schiena con le mani di Federico tra i capelli e le sue labbra sulle mie. Avevo baciato diverse ragazze, prima. Compagne di classe o amiche di amici che fossero, capitava spesso che io fossi il centro del loro interesse.

"Il fascino dello straniero, Jü." Mi ripeteva sempre Mattia, facendomi anche storcere il naso, perché io di straniero avevo solo il nome e il luogo di nascita. "Il tipico tedesco biondo con gli occhi azzurri. Sai, la razza privilegiata da Hitler."

Quella cosa non mi fece storcere il naso, mi fece proprio incazzare. Capitava spesso che mi sentissi dire cose del genere. Secondo me, Mattia semplicemente non riusciva a farsi andar giù il fatto che alle ragazze non piacesse. E di sicuro le ragazze non lo rifiutavano perché era italiano, o perché aveva capelli e occhi scuri, piuttosto per il fatto che lui stesso dava loro delle stupide, delle oche senza cervello buone solo a sparare cazzate, come diceva lui stesso. E diceva pure che erano tutte troie.

Con le ragazze mi trovavo bene come con i ragazzi, ma nonostante il mio "successo" tra molte di loro, nessuna mi aveva mai fatto sentire come aveva invece fatto Federico. Era una sensazione nuova, quella. Il cuore aveva preso a battermi forte e mi era venuto automatico portare entrambe le mani sulle sue guance, su cui già cresceva un accenno di barbetta scura. Anche Federico non dispiaceva alle ragazze. Era molto diverso da me, fisicamente. Alto e già assai sviluppato per la sua età, grandi e allegri occhi così scuri da sembrare neri, esattamente come i capelli rasati. Ricordo un sorriso che mi aveva mostrato dopo quel bacio, che mi aveva quasi bloccato il respiro nel petto, prima di vederlo strabuzzare gli occhi e mettersi a sedere. Non avevo capito, inizialmente, il motivo di quel cambio repentino.

"Tutto bene?"

"Scusa, Jü."

"Per cosa?"

"Come per cosa? Ti ho appena baciato."

"E allora? Qualche ragazza mi ha mai chiesto scusa per avermi baciato?"

"Ma loro sono ragazze."

"E che differenza fa?"

"La differenza é che io non sono gay, Jü."

E allora perché mi hai baciato? Pensai, ma non lo dissi ad alta voce. Non dissi niente.

Alla domanda di mio padre semplicemente sospirai, rimanendo un po' a pensarci. Era passato anche molto tempo, e io non avevo avuto il coraggio di dirlo a nessuno dei due. Più che di coraggio, si trattava di voglia di affrontare il discorso. Sapevo che i miei non mi avrebbero detto nulla se non "ti accettiamo così come sei" o "ti vogliamo bene", di sicuro non avevo paura che fossero omofobi o cose così. Semplicemente non é da me parlare dei fatti miei con loro.

"Sai che non ti giudicherei mai, Jü. Qualsiasi cosa tu..."

"Sì, pa'. Sono gay."

Lo vidi sorridere con la coda dell'occhio. Sorridere per cosa, poi? Perché avevo confermato la sua ipotesi, che di fatto era stata confermata già da anni?

"C'è qualcuno che ti interessa?"

"No."

"A me puoi dirlo, Jü. Magari posso darti una mano."

"In questo momento mi interesserebbe studiare in santa pace."

"Was studieren sie?", Cosa stai studiando?

"Impressionismo."

"Gut! Se vuoi ho anche qualche libro da darti, magari per capire meglio qualche opera, che sui libri di scuola spesso se ne parla in modo striminzito."

Non gli risposi.

   
 
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