La notte si affacciava su uno dei centri più affollati della città, talmente illuminato che le stelle e la Luna sparivano in mezzo al cielo. Gli edifici commerciali brillavano come templi dorati e le strade erano gremite di gente: giovani studentesse che si divertivano a girare per i negozi aperti anche durante gli orari più tardivi; coppie di amanti che si godevano una passeggiata mano nella mano; colleghi di lavoro che si riunivano per una bevuta.
Le risate sguaiate e le chiacchierate vivaci formavano un gran baccano.
Insomma, tutto ciò che ci si poteva aspettare da una vivace notte di fine settimana all’interno di una delle tante città del Giappone, dove il sonno giungeva soltanto in rarissimi casi.
Eppure, tra tutta quella spensieratezza, qualcosa stonava.
In mezzo alla calca di gente che camminava sui larghi marciapiedi, mani nelle tasche dei pantaloni blu scuro e col cappuccio della felpa nera calato sulla testa, avanzava una figura. Una figura che, solo dalla flemma, si poteva ben intuire non condividesse lo stesso umore di chi la circondava.
Ma dopo tutto, chi poteva biasimarla?
In fin dei conti, non era lì per divertirsi.
Era lì per lavoro.
Camminò per diversi minuti, schivando i passanti che nemmeno la consideravano a testa bassa, ben conscia di quale fosse la strada da fare per raggiungere il suo obbiettivo. In tutta onestà, non poteva dire certo che quella situazione le piacesse particolarmente. Lavorare durante il weekend non era mai piaciuto a nessuno. Non fosse stato per quella stramaledetta licenza, sarebbe rimasta a casa a guardarsi qualche anime.
Strinse il labbro inferiore tra i denti.
Strinse i pugni dentro alle tasche.
Il lato positivo di tutto questo, era che sfruttando quell’incazzatura repressa avrebbe sicuramente portato a termine l’incarico in meno tempo del previsto.
Continuò a camminare, fino a quando la calca di persone non cominciò a scemare sempre di più.
Quando raggiunse un largo spiazzo a cerchio, dalle grosse mattonelle incurvate su loro stesse che, a causa della luce dei lampioni tutt’intorno, assumevano un colorito giallognolo, sulle larghe panchine che costeggiavano l’aria, affiancate ad enormi vasi di siepe, vi erano si è no ancora una decina di persone, perlopiù coppiette troppo impegnate a scambiarsi effusioni romantiche per darle una qualsivoglia attenzione.
Non che le importasse.
Superata l’enorme fontana composta da poliedri ed enormi kainji al centro esatto dello spiazzo, la figura incappucciata si fermò, a pochi passi da un’ampia scalinata di marmo candido, puntando poi gli occhi dall’iride dorata verso l’alto, la bocca ancora bloccata nella linea dura di prima: alla fine della sfarzosa scalinata, s’estendeva l’altissimo edificio commerciale conosciuto come ‘Sakadawa Tower’, con le sue vetrate nere che riflettevano la luce dei lampioni e che si mimetizzavano nell’abisso della notte, come un faro oscuro. Ai piedi del grattacielo, sopra una tettoia di neon rossi e blu da dove partivano delle aste da cui svolazzavano alcune bandiere, svettavano le lettere cubitali che riportavano il nome dell’edificio, illuminate da coni di luce provenienti dal basso.
Un vero e proprio monumento di opulenza e avidità, che ostentava ricchezza e pote- non era qui per fare la filosofa. Era qui perché, all’interno di quel grattacielo, erano scomparsi almeno venticinque impiegati. Svaniti nel nulla, senza lasciare alcuna traccia della loro esistenza.
Si trovava lì per quel motivo.
E per quella stramaledettissima licenza.
Mosse un passo in avanti.
Tirò fuori una mano dalla tasca, e tese il braccio.
Ormai abituata e quasi annoiata dallo spettacolo, osservò l’arto che cominciava lentamente a vibrare, per poi farlo sempre di più e sempre più incontrollatamente. Il movimento si fece tanto veloce che, per un secondo, parve che il braccio si stesse disintegrando sul posto.
Sbuffò.
E mosse un altro passo.
Nessuno si accorse nemmeno che la figura incappucciata era sparita nel nulla.
[…]
Abbassò il braccio.
Infilò la mano in tasca.
Tornò nuovamente a posare lo sguardo sulla ‘Sakadawa Tower’, che ora aveva assunto un nuovo volto. Le immacolate vetrate scure avevano perso tutta la loro lucidità, diventando opache come se strati e strati di polvere vi si fossero adagiati sopra. Alcuni vetri erano spaccati.
Il pianerottolo, superando le scale spaccate in più punti e invase da erbacce, presentava un trio di larghe porte automatiche socchiuse e inclinate leggermente verso destra e sinistra. Dalla tettoia, distrutta in più punti con i neon spenti ben visibili, svettavano le aste arrugginite che, adesso, facevano sventolare bandiere prive di simboli o colori, stracciate e disgustosamente sporche di nero.
Tower of Misery
Questo era ciò che adesso le enormi lettere nere riportavano, senza che alcun fare più le illuminasse.
La figura incappucciata si guardò intorno, circospetta.
L’aspetto della torre non era stata l’unica cosa ad essere cambiata: se prima era notte, ora non lo era più.
Una spessa e fitta candida nebbia avvolgeva ogni cosa con tentacoli spettrali, nascondendo l’ambiente circostante alla sua vista. I suoi piedi poggiavano su di una versione praticamente identica della piazza dove si trovava prima, ma rovinata in più angoli da crepe immense, macchie nere e grossi pezzi di ciottoli.
I lampioni erano avvolti dai rampicanti talmente tanto da trasformarli in strani alberi che parevano appartenere ad un pianeta alieno.
E benché la nebbia avvolgesse tutto con le sue dita invisibili, si potevano intravedere a spuntare come palafitte nel centro di un mare in tempesta copie perfettamente identiche del grattacielo, a distanza di centinaia di metri l’una dall’altra, che si estendevano allineate tra loro come lugubri monoliti fin verso orizzonti dove lo sguardo umano non riusciva ad arrivare.
Alzò la testa verso l’alto, scoprendo che il cielo stesso era stato sostituito da un’immagine specchiata di quel mare di grattacieli che si trovava a terra.
Una scena da capogiro.
Alla quale, ormai, si era abituata.
Quasi del tutto.
Abbassò lo sguardo, passandosi una mano sulla fronte e sospirando pesantemente.
Conscia del fatto che, se non si fosse sbrigata, sarebbe uscita da quel posto con un terribile mal di testa.
Tornata a fissare le scalinate, con lo stesso sguardo che una belva feroce punta sulla preda, mosse i suoi passi verso la Torre della Miseria, sperando che l’incarico non le avrebbe portato via più del tempo necessario.
Ticchettio di orologi.
Rumori di tasti che venivano premuti.
Computer più vecchi di lei che si avviavano come cadaveri in un film sui morti viventi.
Telefoni che squillavano senza che nessuno rispondesse e, alle volte, anche il lieve ma incomprensibile rumore di voci umane che si perdevano nell’innaturale silenzio circostante.
Questi erano i suoni che circondavano la figura incappucciata.
Ripetuti all’infinito, come provenienti da un disco di dubbio gusto infilato in un jukebox che estendeva il proprio suono in ogni angolo dell’edificio.
E tuttavia… in quel posto ogni cosa era immobile.
Imprigionata come in un ghiacciaio bloccato nel tempo e nello spazio.
Piano dopo piano, ognuno separato da una larga rampa di scale a chiocciola, la figura si trovava sempre il solito ed espansivo spettacolo di decadenza ed abbandono davanti: uffici ed uffici vuoti, con poche scrivanie impolverate ancora in piedi, mentre tutte le altre si ritrovavano riverse a terra come relitti. Alcuni monitor che erano abissi senza fondo, molti che parevano essere stati distrutti come da un violento colpo di martello, la puntavano come occhi spenti e vuoti, assieme ad alcune sedie girevoli su ruote nere, con la tappezzeria blu deturpata da tagli che vomitavano la spugna gialla.
Il pavimento era tappezzato da taccuini, matite, biro, fogli di carta e cornette del telefono, abbandonate come carogne ai lati di una statale. Contro alle pareti, tappezzate da poster o calendari sbiaditi ed illeggibili, o tra le varie scrivanie e tra le vetrate spaccate, riposavano piccoli vasi circolari, le cui piante erano scheletri secchi e privi di colore.
Piano dopo piano, quei reparti la salutavano mutamente ogni volta, estendendosi così tanto in avanti e ai lati da farle credere che l’interno della torre non rispettasse alcuna legge della fisica. Cosa irritante, visto che più di una volta aveva addirittura dovuto sorbirsi la tediosa attraversata di uno di quei luoghi, per trovare le scale che l’avrebbero portata al prossimo piano.
E non c’era nemmeno un ascensore.
E bastardi tutti i Kami questo avrebbe grandemente influito sulla violenza che avrebbe sfogato sul proprietario di quel posto.
Non seppe nemmeno per quanto tempo salì ancora.
Farsi le rampe di scale di un grattacielo sperduto nel nulla avrebbe rovinato la cognizione del tempo e dello spazio a chiunque.
Eppure, quando raggiunse l’ultimo piano, non le fu difficile capire di averlo fatto, visto che ogni singolo suono ammutolì all’improvviso.
Sotto ad un soffitto altissimo, adornato da motivi floreali di marmo brillante e borioso e dal cui centro scendeva un largo lampadario di ferro nero dai lumini di vetro spenti legato da una catena, affacciata su di uno spiazzale candido e lucido attorniato da finestroni di vetrate altissime, c’era una porta.
Una porta nera, a doppia mandata, adornata a sua volta di motivi eleganti realizzati nel legno, con le gigantesche maniglie dai pomelli dorati.
Quando superò la rampa scale e si ritrovò davanti, finalmente, uno spettacolo diverso, la figura incappucciata dovette sfoggiare tutto il proprio autocontrollo per non inginocchiarsi a terra e baciare il pavimento.
Vestiti con smoking e graziosi abiti neri, con le mani guantate appoggiate sotto al mento, intenti a sussurrare parole incomprensibili che sembravano sibilare lingue sconosciute e che non esistevano al mondo, sette infernali figure umanoidi, completamente plasmate in un miasma di ombra e oscurità, sedevano attorno ad una larga scrivania in legno di mogano lucida e brillante, disposta a ferro di cavallo. Con i gomiti appoggiati sul legno, tre erano sedute a sinistra, le altre a destra, una sola era al centro.
Discutevano tutte, immobili e con i volti privi di forma o espressione bloccati a fissare in avanti, con estensioni simili a filamenti di fumo nero che danzavano lievemente verso l’alto dalle loro teste calve. Sedevano su sedie sfarzose, orlate di legno dipinto d’oro e su sedili e schienali di gomma rossa, come i troni di un nobile. Le gambe dei seggi, a forma di zampa di leone, poggiate su di un largo pezzo di marmo scuro e lucido, spaccato sui bordi.
Alle spalle della figura centrale, appesi sull’immensa parete come trofei di caccia, enormi orologi neri dalla forma circolare, con le lancette e i numeri brillanti di bianco, ticchettavano rumorosamente sopra a lunghi cartelli bianchi che riportavano strani simboli e lettere incomprensibili. Ai lati dello stanzone, enormi finestre che davano sul bianco dell’esterno, coperte da drappi rossi orlati d’oro che danzavano come spettri. Sopra le loro teste fumanti, a disperdere il miasma nero, roteavano una decina di grosse ventole, raggelando ancora di più l’ambiente circostante.
Ancora sussurravano, le ombre, quando il portone che conduceva alla loro camera venne spalancato.
Non si mossero nemmeno dalle loro posizioni, quando le due mandate sbatterono con i pomelli sul muro, creando su di esso una ragnatela di crepe.
Semplicemente, smisero di sussurrare, facendo piombare tutto l’ambiente nel silenzio più completo.
La figura incappucciata abbassò il piede con il quale aveva calciato il portone, entrando con passo pesante mentre alle sue spalle le mandate tornavano al loro posto, sbattendo con un tonfo sordo. Affilò lo sguardo, mentre studiava l’incubo partorito da una mente priva di un buon sonno che si trovava di fronte a lei: il cerchio di marmo sulla quale si trovavano le sedie e la scrivania, era collegato ad un largo cono fatto di carne flaccida, disgustosa e pulsante, solcata da vene rosse e blu e da intestini larghi come tubature.
A sua volta, il cono era collegato all’immenso ed obeso corpo di una creatura umanoide, dalla pelle di un grigio sporco, che ricordava tanto quello di una scultura buddista. Seduto con le gambe incrociate, dai lati del corpo partivano due paia di enormi e lunghe braccia muscolose, terminanti in mani umane dalle lunghe dita disposte in segni di preghiera diversi. Quella in alto a destra, reggeva un grosso rosario formato da grani neri e lucidi, grossi dieci volte una palla da bowling.
Il corpo principale era ricoperto da strane escrescenze nere, simili a pustole, con un lungo e profondo solco che le attraversava perfettamente. Al centro della prominente pancia, s’estendeva in verticale una gigantesca bocca umana dalle labbra rotte e screpolate, dove riposava una dentatura marcia e disgustosa.
“… Mmmmhhhh…”
Il suono gutturale e che pareva formato da più voci all’unisono, simile ad un respiro infastidito, era stato emesso dalla bocca gigante, mentre il mostro piegava appena la schiena, come per vedere meglio ciò che si trovava innanzi a lui. D’improvviso, con cascate di liquido violaceo che attraversarono tutto il suo corpo, le ‘pustole’ si aprirono lentamente, all’unisono, rivelando grossi occhi dalla sclera nera, con iridi gialle imprigionate al loro interno.
Ogni pupilla, si puntò sull’intruso.
Emise un altro sospiro di fastidio, separando appena i denti gli uni dagli altri. Poi, le braccia inferiori abbandonarono la loro posizione di preghiera, avvicinandosi alle labbra e cominciando ad allargarle.
Per niente impressionata, la figura in nero si limitò a tirare fuori la mano destra dalla tasca, estraendone un piccolo accendino azzurro, adornato al centro dal minuscolo adesivo di un teschio avvolto dalle fiamme.
Lo fece scattare.
Una volta.
La bocca mostruosa cominciò ad aprirsi.
Due volte.
Si aprì ulteriormente, facendo uscire un miasma maleodorante di putrefazione e morte.
Tre volte.
La figura incappucciata ritirò l’accendino nella tasca, mentre le sue braccia e le sue gambe venivano avvolte da fiamme azzurre e spettrali, senza tuttavia che l’abbigliamento si rovinasse. La pelle delle mani nude si distrusse, consumata dalle fiamme, rivelando le ossa nere come l’ossidiana delle dita.
Portò le mani scheletriche ai lati del cappuccio, facendolo scendere verso il basso e liberando i fluenti capelli, che altro non erano che lingue di fuoco azzurre collegate ad un teschio nero come la pece, dalla dentatura affilata e terrificante come quella di un vampiro.
L’essere puntò gli occhi vuoti verso l’aberrazione, mentre due piccoli fari d’energia gialla s’accendevano in fondo alle cavità nere. Liberò le braccia dalle tasche, si posizionò in guardia coi pugni alzati e piegò appena le ginocchia.
L’entità rispose spalancando del tutto la bocca disgustosa, con un urlo stridente e disumano, vomitando contro di lei un esercito di esseri urlanti e piangenti che, molto alla lontana, potevano ricordare esseri umani, dai pallidi volti privi di lineamenti facciali fatta eccezione per una larga e lunga bocca irta di denti aguzzi, simili a quelli di uno squalo.
Nella mano sinistra, reggevano una ventiquattrore nera.
In quella destra, un machete.
Tutti indossavano una camicia bianca ed una cravatta sgualcite, ricoperte da macchie viola.
Si gettarono all’attacco della creatura infuocata, artigliandosi a vicenda e camminando gli uni sopra gli altri come formiche, stridendo e ruggendo in preda ad un’incomprensibile follia omicida.
Dal canto suo, quella piegò la schiena in avanti e, dopo un poderoso pestone al suolo, partì all’attacco a sua volta, lasciandosi dietro una doppia cresta di fiamme spettrali.
Si schiantò come una palla demolitrice contro al muro di corpi deformi, sollevandone in aria diversi ed incenerendone altri semplicemente con la potenza dell’impatto.
Le lame delle creature si rivelarono fin da subito inutili, poiché la sola vicinanza con le fiamme scaturite dal nemico bastarono a scioglierle come blocchi di ghiaccio lasciati al sole.
In un attimo, lo scheletro cominciò a menare le mani sul serio.
Braccia e gambe si mossero così veloci da sembrare vere e proprie spade infuocate, falciando con calci e pugni ogni singola cosa che si muoveva. Sangue viola e budella si mischiarono tra loro mentre i corpi delle formiche venivano mutilati e maciullati come fossero finiti all’interno di un frullatore.
Mentre osservava i suoi disgustosi servitori che venivano massacrati, la colossale aberrazione emise un possente grugnito di fastidio, stringendo i denti tra loro e facendo fuoriuscire una seconda cascata di viola dalla miriade occhi spalancati.
Abbassò la mano che reggeva il rosario.
Lo afferrò con l’altra mano, tirandolo da entrambe le estremità.
Di fronte, lo scheletro ancora falciava nemici, con le sfere brillanti degli occhi che si muovevano in tutte le direzioni come rapidissimi puntatori laser.
Rendendosi conto che quei bastardi erano ancora troppi, decise che era arrivato il momento di smettere di perdere tempo.
Si bloccò, al centro di un gruppo di corpi bruciati e mutilati, immersi nel sangue e nelle interiora, allargando le braccia ai lati del corpo e tendendo per bene le dita scheletriche. Tutt’intorno, i mostri stridenti l’assaltarono da ogni direzione, alcuni correndo concitatamente come drogati in preda ad un trip violento, altri a quattro zampe come animali feroci.
Come uno di quei machete sfiorò anche di poco un lembo della felpa, lo scheletro fece scattare le braccia, battendo poderosamente le mani tra loro.
Attorno al suo corpo, s’innalzò un’ondata di fiamme azzurre che s’espanse lungo tutta l’area della stanza, inghiottendo ogni nemico che aveva tentato di colpirla e riducendolo a poco più che una manciata di granelli neri e fumanti.
L’essere abbassò le braccia lungo i fianchi, come la testa, mentre le fiamme che avevano annientato i rimanenti nemici svanivano nel nulla, lasciandosi dietro solo una larghissima macchia nera che ricopriva buona parte del suolo.
Il teschio socchiuse la bocca, lasciandosi sfuggire un sospiro affaticato che rivelò una candida, anche se distorta da echi indecifrabili, voce femminile.
Due scie di vapore candido uscirono dai lati della mandibola.
Rialzò la testa fiammeggiante, puntando gli occhi luminosi sul bersaglio principale.
Quando scattò nella sua direzione, quello riuscì finalmente a distruggere il rosario nero con un poderoso strattone ed un secondo ruggito stridente, che fece fremere i vetri delle finestre.
Eppure, benché pesassero più di qualche tonnellata, le enormi sfere oscure non precipitarono a terra, rimanendo sospese a mezz’aria come legate da un filo invisibile. Il corpo del budda sollevò le braccia e tese indice e medio verso l’alto, mentre la bocca gigantesca si apriva e si chiudeva recitando un sutra perverso ed incomprensibile.
Ogni sfera fluttuante venne attraversata da grosse scosse d’energia violacea, per poi piombare come una meteora verso lo scheletro lasciandosi dietro una scia d’energia nera. Quello, guardandosi attorno concitatamente, eseguì rapidi scatti ai lati; giri della morte in avanti ed intercettò alcuni di quei proiettili elettrici prima che potessero andargli addosso, distruggendoli con un pugno oppure un calcio.
Alcuni grani, che le tagliarono la strada, vennero rispediti al mittente, dove esplosero con una fiammata fragorosa dopo essere stati colpiti portentosamente dalle braccia infuocate. Al quinto proiettile scagliato contro di lui, il gigante emise un lamento furioso e parve ritrarsi su se stesso, incrociando tutte le braccia tra loro come per coprirsi.
Dal canto suo, la ragazza-teschio si bloccò a qualche metro di distanza.
Menò un potentissimo pestone in avanti e si separò dal suolo, partendo verso l’alto come un siluro rotante. Fermatasi a mezz’aria, rivolta verso il nemico, alzò il braccio destro verso l’alto e chiuse le dita a pugno, con le fiamme che l’avvolgevano che divenivano via via più intense.
Si lasciò cadere verso il gigante, piombando su di lui.
Tuttavia, il pugno non lo raggiunse.
Senza che se ne potesse rendere conto, le figure sedute sulla scrivania erano mutate all’improvviso stracciando i vestiti che indossavano, diventando enormi braccia fatte di oscurità, ognuna delle quali terminanti in una mano composta da quattro gigantesche dita artigliate fatte d’ombra.
Queste ultime si chiusero sullo scheletro, facendolo esclamare di sorpresa.
Il suo corpo cominciò ad essere sbattuto ovunque con estrema violenza, tenuto bloccato dalle dita nere. Gli impatti furono tanto violenti e brutali da far crepare il suolo e il pavimento. Un paio di volte, fu sbattuta contro al soffitto, e alcune ventole caddero a terra sfracellandosi violentemente al suolo.
Sul teschio avvolto dalle fiamme, si formarono un paio di crepe.
Con gli occhi che lacrimavano sangue viola e con la bocca che strideva concitatamente, il colosso prese a sbattere violentemente al suolo le braccia d’ombra, cominciando a creare un grosso cratere innanzi a sé.
Ma poi, proprio pochi secondi prima che il corpo scheletrico venisse schiantato a terra un’altra volta, un’esplosione di scintille s’accese all’improvviso tra il pavimento e il teschio infuocato.
Scintille che si propagarono all’improvviso, divorando nelle fiamme i sette tentacoli d’ombra fino alla piattaforma di marmo che ospitava la scrivania. L’incubo emise uno stridio di dolore ancora più forte rispetto ai primi, lo stanzone venne avvolto da scariche d’energia violacea e i vetri degli orologi s’infransero uno dopo l’altro. Un paio di questi caddero a terra con un tonfo sordo.
La creatura mollò la presa, lasciando che la nemica roteasse a mezz’aria, per poi schiantarsi al suolo violentemente di schiena.
Quella stessa, sospirando affannata, si rialzò da terra su gambe malferme, con le fiamme che si erano fatte più deboli e meno luminose. Puntò nuovamente gli occhi dorati sul nemico, che inutilmente tentava di spegnere le fiamme, ormai completamente avvolte attorno alla sua ‘testa’.
Emise un ruggito terribile, dilaniato dal dolore, poi afferrò la piattaforma fiammeggiante e cominciò a tirare verso l’alto. Vedendo le budella e la carne che venivano strappate, facendo uscire un’intensa quantità di sangue, la ragazza-teschio piegò le gambe in avanti, pronta a reagire.
E proprio come aveva previsto, l’essere strappò la parte superiore dal resto del proprio corpo, emettendo uno stridio acuto, mentre una fontana di sangue sporcava pareti e terreno.
Quindi, rivolgendo gli occhi piangenti alla nemica, emise un altro stridio e scagliò il pezzo di pietra contro di lei. Quella fece uno scatto avanti e, dandosi una spinta poderosa, superò il gigantesco proiettile infuocato con un giro della morte in avanti.
Atterrò sulle gambe piegate, a testa bassa, mentre alle sue spalle il portone veniva sfondato e l’ultimo proiettile improvvisato esplodeva. Macerie e nuvole di fumo la superarono, mentre lei risollevava la testa, vedendo il nemico che si graffiava la pelle grigia con le unghie scure mentre piangeva e faceva scattare le pupille verso ogni direzione. Il moncone del collo, nel frattempo, aveva smesso di sbrattare sangue, rigenerandosi e stringendosi come un’anemone infastidita.
D’improvviso, ogni occhio si rivolse verso lo scheletro infuocato.
E i lamenti di dolore si trasformarono in grida di rabbia.
Abbandonò la sua posizione seduta, allargando le gambe lunghe e possenti, poi appoggiò i palmi di ogni mano al suolo, assieme alla pianta dei piedi giganteschi, assumendo una forma che ricordava un grottesco e gigantesco scarafaggio.
Ruggì, facendo tremare le pareti, poi scattò scompostamente verso di lei, sbattendo ogni arto al suolo con violenza e sollevando spesse coltri di polvere.
L’altra non fu da meno.
Quando i contendenti si scambiarono il primo colpo, l’onda d’urto che ne scaturì fu atroce, facendo cadere gli ultimi orologi appesi al muro e svolazzare i drappi rossi come posseduti.
Dopodiché, i due mostri presero a destreggiarsi in una feroce danza di pugni rabbiosi. Le enormi mani del budda colpivano violentemente e incrinavano le ossa, ma l’avversaria non fu da meno, menando dritti e montanti tanto possenti da deformare il corpo del nemico e lasciare orribili bruciature.
Andarono avanti ancora per diversi minuti.
Poi, all’improvviso, un pugno portentoso del gigante distrusse la guardia di braccia incrociate dell’avversaria, lasciandola completamente indifesa. Ne approfittò con un potentissimo montante, che la fece volare verso l’alto, facendole sfondare il soffitto con una brutale schienata.
Diversi altri ventilatori caddero attorno al colosso, che si piegò all’indietro a ponte.
Da sopra, la ragazza-teschio vide il nemico che spalancava lentamente la bocca, aprendosela di più con il paio di mani centrali. Una sfera d’energia oscura sfrigolante cominciò a concentrarsi sul fondo della gola, emettendo un inquietante suono simile ad un risucchio emesso da più e sinistre voci maschili.
Rapida, si liberò dal buco nel soffitto che aveva assunto la forma del proprio corpo, precipitando verso il basso roteando su se stessa un paio di volte. Arrivata a mezz’aria, piegò la schiena all’indietro, spalancando le fauci scheletriche ed inspirando a fondo.
Come il corpo del budda vomitò un raggio d’energia oscura in sua direzione, quella tornò a puntarlo, rigettando un getto di fuoco azzurro dalla bocca, simile al respiro di un drago. Le due onde d’energia si scontrarono tra loro, cominciando a far tremare tutta la struttura. Al di fuori, alcune finestre del palazzo si ruppero fragorosamente e miriadi di crepe profonde attraversarono il cemento.
Lo stallo durò ancora per pochi secondi.
D’improvviso, le fiamme attorno al teschio si fecero spaventosamente più intense e, con tutta la potenza che aveva, il soffio infuocato inghiottì l’energia del nemico, espandendosi in un mare di fiamme azzurre che nascose il corpo del colosso piegato.
Della sua presenza, si udì solamente uno stridio di dolore e sconfitta.
La ragazza-teschio chiuse le fauci e, puntando la testa verso il basso, si buttò nel mare di fuoco.
Mare di fuoco che si diradò in pochissimo tempo, mostrando il corpo ricoperto di bruciature e sanguinante del mostro che, ancora, tentava di reggersi sulle zampe tremanti.
Poco dopo, l’avversaria sfondò il muro di denti marci con un doppio calcio, scomparendo nella sua gola.
L’entità si alzò all’improvviso sulle altissime gambe, artigliandosi il corpo con violenza e facendo sgorgare nuove perdite di sangue. Camminò maldestramente all’indietro, rischiando di cadere più di una volta, mentre continuava a deturparsi il corpo.
Ed ecco che un’esplosione di fiamme azzurre lo colse all’improvviso dall’interno, facendo saltare un pezzo della sua pelle. Barcollò debolmente, prima che un altro brutale colpo lo facesse sussultare, schizzando via un paio di enormi occhi neri.
Ne arrivò un’altra.
Un’altra ancora.
I fori salirono a cinque.
Poi, in un trionfo di violenza e luce azzurra, il moncone rigenerato del collo esplose fragorosamente in una colonna di fuoco altissima, che avvolse come un affresco il soffitto, sciogliendo gli ultimi ventilatori sopravvissuti alla violenza dello scontro. E dopo le fiamme, arrivò un secondo diluvio di sangue, che si riversò al suolo come una pioggia torrenziale.
Il corpo del budda emise un debole sospiro, per poi crollare a terra seduto ed esausto con un rumore fragoroso, sollevando un nuvolone di polvere. Sporco di sangue e budella, il corpo della ragazza-teschio si trovava in piedi sopra la parte superiore del mostro, che lentamente si stava sciogliendo come la cera di una candela.
Nella mano destra, reggeva uno strano artefatto, simile ad un cuore pulsante grande quanto un pallone da calcio, dentro il quale erano conficcati orologi circolari, matite, compassi e fermacarte a forma di piramide.
La ragazza-teschio osservò l’artefatto con disgusto, per poi guardarsi intorno e rendersi conto che le braccia del suo nemico, tremando come canne al vento, stavano tentando di afferrarla.
Rapida, strinse il cuore nella mano fiammeggiante, facendo sussultare il mostro con uno stridio.
Quindi, si portò il cuore ancora pompante di sangue davanti al petto, afferrandolo anche con l’altra mano, cominciando a schiacciare con tutte le forze che aveva.
In un ultimo disperato tentativo, le braccia del budda tentarono di ghermirla.
Ma fu tutto inutile.
Il cuore venne avvolto dalle fiamme azzurre ed esplose fragorosamente, generando una potentissima onda d’urto a cupola che si propagò per tutto il grattacielo, facendo esplodere ogni singolo vetro ancora in piedi. Si poté dire lo stesso anche di ogni singolo altro grattacielo presente all’esterno.
I vetri dei palazzi che spuntavano dal ‘cielo’ piovvero a terra come un mortale acquazzone.
La ragazza-teschio abbassò le braccia.
Il corpo del budda, invece, chiuse l’enorme bocca e prese a gonfiarsi, come per trattenere il fiato.
Vomitò poi un guazzabuglio di sangue, budella e organi, misti a pezzi di scrivania, case di computer rotti e sedie girevoli da ufficio. Quindi, dopo un ultimo sofferente sospiro, abbassò le braccia di scatto, che sbatterono il dorso al suolo fragorosamente, per poi girare i pochi occhi rimasti verso l’alto e, finalmente, rimanere immobile.
“Mpf.” La carnefice si permise solo quel commento, per poi eseguire un salto della morte all’indietro e scendere dal colossale cadavere.
Alzò lo sguardo e, mentre vedeva il gigante che si riempiva di crepe e cominciava a sgretolarsi come un castello di sabbia sospinto dal vento, le fiamme che avvolgevano il suo corpo andarono pian piano ad estinguersi. La pelle ritornò sulle mani, e ritornò sul bellissimo viso da ragazza, ancora corrucciato in un’espressione seriosa.
Chiuse gli occhi, mentre raccoglieva i candidi e lunghi capelli bianchi dietro la nuca, coprendosela poi con il cappuccio.
Ebbe un paio di dolorosi colpi di tosse, ed un rivolo di sangue uscì dalla narice destra e da un lato della bocca. Strinse i denti: odiava quando i danni si facevano effettivamente sentire solo dopo lo scontro.
E mentre ogni singolo resto del nemico andava sbriciolandosi, posò lo sguardo sulle finestre distrutte.
Vide come la nebbia al di fuori dell’edificio si stava diradando.
Vide come ogni singola luce veniva assorbita dalla più totale e opprimente oscurità.
Girò i tacchi e, così come era arrivata, si levò di torno.
Quando si ritrovò nel piazzale della Sakadawa Tower, sotto ad un cielo notturno naturale e non più circondata da spettacoli architettonici che sfondavano ogni singola legge della realtà, tirò un respiro di sollievo.
Come tutte le volte che abbandonava il Non-Luogo, le ferite si rimarginavano e le ossa tornavano al loro posto. Se prima, lievemente, zoppicava, adesso era tornata a camminare normalmente. Tuttavia, l’eco del dolore era ancora presente, costringendola a massaggiarsi la nuca digrignando i denti con fastidio.
Si guardò attorno.
Avventori e avventrici di poco prima erano tutti scomparsi.
Non aveva idea di quanto tempo fosse rimasta dall’altra parte, ma sicuramente anche gli ultimi nottambuli dovevano essersene andati a letto.
Si stiracchiò per bene, tendendo le braccia verso l’alto, abbandonandosi ad un sonoro sbadiglio.
Quindi si avviò verso una delle panchine, dove si sedette ed estrasse il proprio cellulare.
Si piegò in avanti e, con una mano sotto al mento ed un’espressione stanca, digitò rapida sullo schermo.
[…]
[Oi. Sto cazzo di Idolo. Livello Inferiore un paio di cazzi]
[…]
[Oh andiamo. Non era sicuramente superiore ad un Intermedio…]
[…]
[Non dovresti, quantomeno come mia responsabile]
[Essere un po’ più precisa sugli stronzi che devo massacrare?]
[…]
[Come la fai lunga]
[Non ti avrei mandata a crepare contro un mostro troppo potente]
[Sapevo che ce l’avresti comunque fatta]
[Forse]
[…]
[Fanculo]
[…]
[Che permalosa!]
[Suvvia. Sei ancora viva, no?]
[^^]
[…]
[…]
[Ehi]
[Sei ancora lì?]
[…]
[Non grazie a te -.-]
[…]
[<3]
[Meno male, mi hai fatto prendere un colpo…]
[Se tuo padre avesse scoperto che eri morta per un incarico affidatoti da me… rabbrividisco solo a pensarci]
[…]
[Bah, sti cazzi… non sono così disposta a morire, prima di ricevere sta cazzo di licenza]
[Ora me ne vado a dormire. Domani devo aiutare il vecchio con i preparativi per il trasloco]
[Suppongo ci rivedremo nella nuova scuola, uh?]
[…]
[AAAWW… allora ti manco? <3]
[Scherzi a parte, stai facendo un ottimo lavoro, Katsuki Amano. Presto quella licenza sarà tua]
Me lo auguro.
Sospirò, stanca.
Salutò l’interlocutrice, ritirando il cellulare. Quindi, issatasi in piedi, si avviò nella notte.
Le risate sguaiate e le chiacchierate vivaci formavano un gran baccano.
Insomma, tutto ciò che ci si poteva aspettare da una vivace notte di fine settimana all’interno di una delle tante città del Giappone, dove il sonno giungeva soltanto in rarissimi casi.
Eppure, tra tutta quella spensieratezza, qualcosa stonava.
In mezzo alla calca di gente che camminava sui larghi marciapiedi, mani nelle tasche dei pantaloni blu scuro e col cappuccio della felpa nera calato sulla testa, avanzava una figura. Una figura che, solo dalla flemma, si poteva ben intuire non condividesse lo stesso umore di chi la circondava.
Ma dopo tutto, chi poteva biasimarla?
In fin dei conti, non era lì per divertirsi.
Era lì per lavoro.
Camminò per diversi minuti, schivando i passanti che nemmeno la consideravano a testa bassa, ben conscia di quale fosse la strada da fare per raggiungere il suo obbiettivo. In tutta onestà, non poteva dire certo che quella situazione le piacesse particolarmente. Lavorare durante il weekend non era mai piaciuto a nessuno. Non fosse stato per quella stramaledetta licenza, sarebbe rimasta a casa a guardarsi qualche anime.
Strinse il labbro inferiore tra i denti.
Strinse i pugni dentro alle tasche.
Il lato positivo di tutto questo, era che sfruttando quell’incazzatura repressa avrebbe sicuramente portato a termine l’incarico in meno tempo del previsto.
Continuò a camminare, fino a quando la calca di persone non cominciò a scemare sempre di più.
Quando raggiunse un largo spiazzo a cerchio, dalle grosse mattonelle incurvate su loro stesse che, a causa della luce dei lampioni tutt’intorno, assumevano un colorito giallognolo, sulle larghe panchine che costeggiavano l’aria, affiancate ad enormi vasi di siepe, vi erano si è no ancora una decina di persone, perlopiù coppiette troppo impegnate a scambiarsi effusioni romantiche per darle una qualsivoglia attenzione.
Non che le importasse.
Superata l’enorme fontana composta da poliedri ed enormi kainji al centro esatto dello spiazzo, la figura incappucciata si fermò, a pochi passi da un’ampia scalinata di marmo candido, puntando poi gli occhi dall’iride dorata verso l’alto, la bocca ancora bloccata nella linea dura di prima: alla fine della sfarzosa scalinata, s’estendeva l’altissimo edificio commerciale conosciuto come ‘Sakadawa Tower’, con le sue vetrate nere che riflettevano la luce dei lampioni e che si mimetizzavano nell’abisso della notte, come un faro oscuro. Ai piedi del grattacielo, sopra una tettoia di neon rossi e blu da dove partivano delle aste da cui svolazzavano alcune bandiere, svettavano le lettere cubitali che riportavano il nome dell’edificio, illuminate da coni di luce provenienti dal basso.
Un vero e proprio monumento di opulenza e avidità, che ostentava ricchezza e pote- non era qui per fare la filosofa. Era qui perché, all’interno di quel grattacielo, erano scomparsi almeno venticinque impiegati. Svaniti nel nulla, senza lasciare alcuna traccia della loro esistenza.
Si trovava lì per quel motivo.
E per quella stramaledettissima licenza.
Mosse un passo in avanti.
Tirò fuori una mano dalla tasca, e tese il braccio.
Ormai abituata e quasi annoiata dallo spettacolo, osservò l’arto che cominciava lentamente a vibrare, per poi farlo sempre di più e sempre più incontrollatamente. Il movimento si fece tanto veloce che, per un secondo, parve che il braccio si stesse disintegrando sul posto.
Sbuffò.
E mosse un altro passo.
Nessuno si accorse nemmeno che la figura incappucciata era sparita nel nulla.
[…]
Abbassò il braccio.
Infilò la mano in tasca.
Tornò nuovamente a posare lo sguardo sulla ‘Sakadawa Tower’, che ora aveva assunto un nuovo volto. Le immacolate vetrate scure avevano perso tutta la loro lucidità, diventando opache come se strati e strati di polvere vi si fossero adagiati sopra. Alcuni vetri erano spaccati.
Il pianerottolo, superando le scale spaccate in più punti e invase da erbacce, presentava un trio di larghe porte automatiche socchiuse e inclinate leggermente verso destra e sinistra. Dalla tettoia, distrutta in più punti con i neon spenti ben visibili, svettavano le aste arrugginite che, adesso, facevano sventolare bandiere prive di simboli o colori, stracciate e disgustosamente sporche di nero.
Tower of Misery
Questo era ciò che adesso le enormi lettere nere riportavano, senza che alcun fare più le illuminasse.
La figura incappucciata si guardò intorno, circospetta.
L’aspetto della torre non era stata l’unica cosa ad essere cambiata: se prima era notte, ora non lo era più.
Una spessa e fitta candida nebbia avvolgeva ogni cosa con tentacoli spettrali, nascondendo l’ambiente circostante alla sua vista. I suoi piedi poggiavano su di una versione praticamente identica della piazza dove si trovava prima, ma rovinata in più angoli da crepe immense, macchie nere e grossi pezzi di ciottoli.
I lampioni erano avvolti dai rampicanti talmente tanto da trasformarli in strani alberi che parevano appartenere ad un pianeta alieno.
E benché la nebbia avvolgesse tutto con le sue dita invisibili, si potevano intravedere a spuntare come palafitte nel centro di un mare in tempesta copie perfettamente identiche del grattacielo, a distanza di centinaia di metri l’una dall’altra, che si estendevano allineate tra loro come lugubri monoliti fin verso orizzonti dove lo sguardo umano non riusciva ad arrivare.
Alzò la testa verso l’alto, scoprendo che il cielo stesso era stato sostituito da un’immagine specchiata di quel mare di grattacieli che si trovava a terra.
Una scena da capogiro.
Alla quale, ormai, si era abituata.
Quasi del tutto.
Abbassò lo sguardo, passandosi una mano sulla fronte e sospirando pesantemente.
Conscia del fatto che, se non si fosse sbrigata, sarebbe uscita da quel posto con un terribile mal di testa.
Tornata a fissare le scalinate, con lo stesso sguardo che una belva feroce punta sulla preda, mosse i suoi passi verso la Torre della Miseria, sperando che l’incarico non le avrebbe portato via più del tempo necessario.
Ticchettio di orologi.
Rumori di tasti che venivano premuti.
Computer più vecchi di lei che si avviavano come cadaveri in un film sui morti viventi.
Telefoni che squillavano senza che nessuno rispondesse e, alle volte, anche il lieve ma incomprensibile rumore di voci umane che si perdevano nell’innaturale silenzio circostante.
Questi erano i suoni che circondavano la figura incappucciata.
Ripetuti all’infinito, come provenienti da un disco di dubbio gusto infilato in un jukebox che estendeva il proprio suono in ogni angolo dell’edificio.
E tuttavia… in quel posto ogni cosa era immobile.
Imprigionata come in un ghiacciaio bloccato nel tempo e nello spazio.
Piano dopo piano, ognuno separato da una larga rampa di scale a chiocciola, la figura si trovava sempre il solito ed espansivo spettacolo di decadenza ed abbandono davanti: uffici ed uffici vuoti, con poche scrivanie impolverate ancora in piedi, mentre tutte le altre si ritrovavano riverse a terra come relitti. Alcuni monitor che erano abissi senza fondo, molti che parevano essere stati distrutti come da un violento colpo di martello, la puntavano come occhi spenti e vuoti, assieme ad alcune sedie girevoli su ruote nere, con la tappezzeria blu deturpata da tagli che vomitavano la spugna gialla.
Il pavimento era tappezzato da taccuini, matite, biro, fogli di carta e cornette del telefono, abbandonate come carogne ai lati di una statale. Contro alle pareti, tappezzate da poster o calendari sbiaditi ed illeggibili, o tra le varie scrivanie e tra le vetrate spaccate, riposavano piccoli vasi circolari, le cui piante erano scheletri secchi e privi di colore.
Piano dopo piano, quei reparti la salutavano mutamente ogni volta, estendendosi così tanto in avanti e ai lati da farle credere che l’interno della torre non rispettasse alcuna legge della fisica. Cosa irritante, visto che più di una volta aveva addirittura dovuto sorbirsi la tediosa attraversata di uno di quei luoghi, per trovare le scale che l’avrebbero portata al prossimo piano.
E non c’era nemmeno un ascensore.
E bastardi tutti i Kami questo avrebbe grandemente influito sulla violenza che avrebbe sfogato sul proprietario di quel posto.
Non seppe nemmeno per quanto tempo salì ancora.
Farsi le rampe di scale di un grattacielo sperduto nel nulla avrebbe rovinato la cognizione del tempo e dello spazio a chiunque.
Eppure, quando raggiunse l’ultimo piano, non le fu difficile capire di averlo fatto, visto che ogni singolo suono ammutolì all’improvviso.
Sotto ad un soffitto altissimo, adornato da motivi floreali di marmo brillante e borioso e dal cui centro scendeva un largo lampadario di ferro nero dai lumini di vetro spenti legato da una catena, affacciata su di uno spiazzale candido e lucido attorniato da finestroni di vetrate altissime, c’era una porta.
Una porta nera, a doppia mandata, adornata a sua volta di motivi eleganti realizzati nel legno, con le gigantesche maniglie dai pomelli dorati.
Quando superò la rampa scale e si ritrovò davanti, finalmente, uno spettacolo diverso, la figura incappucciata dovette sfoggiare tutto il proprio autocontrollo per non inginocchiarsi a terra e baciare il pavimento.
Vestiti con smoking e graziosi abiti neri, con le mani guantate appoggiate sotto al mento, intenti a sussurrare parole incomprensibili che sembravano sibilare lingue sconosciute e che non esistevano al mondo, sette infernali figure umanoidi, completamente plasmate in un miasma di ombra e oscurità, sedevano attorno ad una larga scrivania in legno di mogano lucida e brillante, disposta a ferro di cavallo. Con i gomiti appoggiati sul legno, tre erano sedute a sinistra, le altre a destra, una sola era al centro.
Discutevano tutte, immobili e con i volti privi di forma o espressione bloccati a fissare in avanti, con estensioni simili a filamenti di fumo nero che danzavano lievemente verso l’alto dalle loro teste calve. Sedevano su sedie sfarzose, orlate di legno dipinto d’oro e su sedili e schienali di gomma rossa, come i troni di un nobile. Le gambe dei seggi, a forma di zampa di leone, poggiate su di un largo pezzo di marmo scuro e lucido, spaccato sui bordi.
Alle spalle della figura centrale, appesi sull’immensa parete come trofei di caccia, enormi orologi neri dalla forma circolare, con le lancette e i numeri brillanti di bianco, ticchettavano rumorosamente sopra a lunghi cartelli bianchi che riportavano strani simboli e lettere incomprensibili. Ai lati dello stanzone, enormi finestre che davano sul bianco dell’esterno, coperte da drappi rossi orlati d’oro che danzavano come spettri. Sopra le loro teste fumanti, a disperdere il miasma nero, roteavano una decina di grosse ventole, raggelando ancora di più l’ambiente circostante.
Ancora sussurravano, le ombre, quando il portone che conduceva alla loro camera venne spalancato.
Non si mossero nemmeno dalle loro posizioni, quando le due mandate sbatterono con i pomelli sul muro, creando su di esso una ragnatela di crepe.
Semplicemente, smisero di sussurrare, facendo piombare tutto l’ambiente nel silenzio più completo.
La figura incappucciata abbassò il piede con il quale aveva calciato il portone, entrando con passo pesante mentre alle sue spalle le mandate tornavano al loro posto, sbattendo con un tonfo sordo. Affilò lo sguardo, mentre studiava l’incubo partorito da una mente priva di un buon sonno che si trovava di fronte a lei: il cerchio di marmo sulla quale si trovavano le sedie e la scrivania, era collegato ad un largo cono fatto di carne flaccida, disgustosa e pulsante, solcata da vene rosse e blu e da intestini larghi come tubature.
A sua volta, il cono era collegato all’immenso ed obeso corpo di una creatura umanoide, dalla pelle di un grigio sporco, che ricordava tanto quello di una scultura buddista. Seduto con le gambe incrociate, dai lati del corpo partivano due paia di enormi e lunghe braccia muscolose, terminanti in mani umane dalle lunghe dita disposte in segni di preghiera diversi. Quella in alto a destra, reggeva un grosso rosario formato da grani neri e lucidi, grossi dieci volte una palla da bowling.
Il corpo principale era ricoperto da strane escrescenze nere, simili a pustole, con un lungo e profondo solco che le attraversava perfettamente. Al centro della prominente pancia, s’estendeva in verticale una gigantesca bocca umana dalle labbra rotte e screpolate, dove riposava una dentatura marcia e disgustosa.
“… Mmmmhhhh…”
Il suono gutturale e che pareva formato da più voci all’unisono, simile ad un respiro infastidito, era stato emesso dalla bocca gigante, mentre il mostro piegava appena la schiena, come per vedere meglio ciò che si trovava innanzi a lui. D’improvviso, con cascate di liquido violaceo che attraversarono tutto il suo corpo, le ‘pustole’ si aprirono lentamente, all’unisono, rivelando grossi occhi dalla sclera nera, con iridi gialle imprigionate al loro interno.
Ogni pupilla, si puntò sull’intruso.
Emise un altro sospiro di fastidio, separando appena i denti gli uni dagli altri. Poi, le braccia inferiori abbandonarono la loro posizione di preghiera, avvicinandosi alle labbra e cominciando ad allargarle.
Per niente impressionata, la figura in nero si limitò a tirare fuori la mano destra dalla tasca, estraendone un piccolo accendino azzurro, adornato al centro dal minuscolo adesivo di un teschio avvolto dalle fiamme.
Lo fece scattare.
Una volta.
La bocca mostruosa cominciò ad aprirsi.
Due volte.
Si aprì ulteriormente, facendo uscire un miasma maleodorante di putrefazione e morte.
Tre volte.
La figura incappucciata ritirò l’accendino nella tasca, mentre le sue braccia e le sue gambe venivano avvolte da fiamme azzurre e spettrali, senza tuttavia che l’abbigliamento si rovinasse. La pelle delle mani nude si distrusse, consumata dalle fiamme, rivelando le ossa nere come l’ossidiana delle dita.
Portò le mani scheletriche ai lati del cappuccio, facendolo scendere verso il basso e liberando i fluenti capelli, che altro non erano che lingue di fuoco azzurre collegate ad un teschio nero come la pece, dalla dentatura affilata e terrificante come quella di un vampiro.
L’essere puntò gli occhi vuoti verso l’aberrazione, mentre due piccoli fari d’energia gialla s’accendevano in fondo alle cavità nere. Liberò le braccia dalle tasche, si posizionò in guardia coi pugni alzati e piegò appena le ginocchia.
L’entità rispose spalancando del tutto la bocca disgustosa, con un urlo stridente e disumano, vomitando contro di lei un esercito di esseri urlanti e piangenti che, molto alla lontana, potevano ricordare esseri umani, dai pallidi volti privi di lineamenti facciali fatta eccezione per una larga e lunga bocca irta di denti aguzzi, simili a quelli di uno squalo.
Nella mano sinistra, reggevano una ventiquattrore nera.
In quella destra, un machete.
Tutti indossavano una camicia bianca ed una cravatta sgualcite, ricoperte da macchie viola.
Si gettarono all’attacco della creatura infuocata, artigliandosi a vicenda e camminando gli uni sopra gli altri come formiche, stridendo e ruggendo in preda ad un’incomprensibile follia omicida.
Dal canto suo, quella piegò la schiena in avanti e, dopo un poderoso pestone al suolo, partì all’attacco a sua volta, lasciandosi dietro una doppia cresta di fiamme spettrali.
Si schiantò come una palla demolitrice contro al muro di corpi deformi, sollevandone in aria diversi ed incenerendone altri semplicemente con la potenza dell’impatto.
Le lame delle creature si rivelarono fin da subito inutili, poiché la sola vicinanza con le fiamme scaturite dal nemico bastarono a scioglierle come blocchi di ghiaccio lasciati al sole.
In un attimo, lo scheletro cominciò a menare le mani sul serio.
Braccia e gambe si mossero così veloci da sembrare vere e proprie spade infuocate, falciando con calci e pugni ogni singola cosa che si muoveva. Sangue viola e budella si mischiarono tra loro mentre i corpi delle formiche venivano mutilati e maciullati come fossero finiti all’interno di un frullatore.
Mentre osservava i suoi disgustosi servitori che venivano massacrati, la colossale aberrazione emise un possente grugnito di fastidio, stringendo i denti tra loro e facendo fuoriuscire una seconda cascata di viola dalla miriade occhi spalancati.
Abbassò la mano che reggeva il rosario.
Lo afferrò con l’altra mano, tirandolo da entrambe le estremità.
Di fronte, lo scheletro ancora falciava nemici, con le sfere brillanti degli occhi che si muovevano in tutte le direzioni come rapidissimi puntatori laser.
Rendendosi conto che quei bastardi erano ancora troppi, decise che era arrivato il momento di smettere di perdere tempo.
Si bloccò, al centro di un gruppo di corpi bruciati e mutilati, immersi nel sangue e nelle interiora, allargando le braccia ai lati del corpo e tendendo per bene le dita scheletriche. Tutt’intorno, i mostri stridenti l’assaltarono da ogni direzione, alcuni correndo concitatamente come drogati in preda ad un trip violento, altri a quattro zampe come animali feroci.
Come uno di quei machete sfiorò anche di poco un lembo della felpa, lo scheletro fece scattare le braccia, battendo poderosamente le mani tra loro.
Attorno al suo corpo, s’innalzò un’ondata di fiamme azzurre che s’espanse lungo tutta l’area della stanza, inghiottendo ogni nemico che aveva tentato di colpirla e riducendolo a poco più che una manciata di granelli neri e fumanti.
L’essere abbassò le braccia lungo i fianchi, come la testa, mentre le fiamme che avevano annientato i rimanenti nemici svanivano nel nulla, lasciandosi dietro solo una larghissima macchia nera che ricopriva buona parte del suolo.
Il teschio socchiuse la bocca, lasciandosi sfuggire un sospiro affaticato che rivelò una candida, anche se distorta da echi indecifrabili, voce femminile.
Due scie di vapore candido uscirono dai lati della mandibola.
Rialzò la testa fiammeggiante, puntando gli occhi luminosi sul bersaglio principale.
Quando scattò nella sua direzione, quello riuscì finalmente a distruggere il rosario nero con un poderoso strattone ed un secondo ruggito stridente, che fece fremere i vetri delle finestre.
Eppure, benché pesassero più di qualche tonnellata, le enormi sfere oscure non precipitarono a terra, rimanendo sospese a mezz’aria come legate da un filo invisibile. Il corpo del budda sollevò le braccia e tese indice e medio verso l’alto, mentre la bocca gigantesca si apriva e si chiudeva recitando un sutra perverso ed incomprensibile.
Ogni sfera fluttuante venne attraversata da grosse scosse d’energia violacea, per poi piombare come una meteora verso lo scheletro lasciandosi dietro una scia d’energia nera. Quello, guardandosi attorno concitatamente, eseguì rapidi scatti ai lati; giri della morte in avanti ed intercettò alcuni di quei proiettili elettrici prima che potessero andargli addosso, distruggendoli con un pugno oppure un calcio.
Alcuni grani, che le tagliarono la strada, vennero rispediti al mittente, dove esplosero con una fiammata fragorosa dopo essere stati colpiti portentosamente dalle braccia infuocate. Al quinto proiettile scagliato contro di lui, il gigante emise un lamento furioso e parve ritrarsi su se stesso, incrociando tutte le braccia tra loro come per coprirsi.
Dal canto suo, la ragazza-teschio si bloccò a qualche metro di distanza.
Menò un potentissimo pestone in avanti e si separò dal suolo, partendo verso l’alto come un siluro rotante. Fermatasi a mezz’aria, rivolta verso il nemico, alzò il braccio destro verso l’alto e chiuse le dita a pugno, con le fiamme che l’avvolgevano che divenivano via via più intense.
Si lasciò cadere verso il gigante, piombando su di lui.
Tuttavia, il pugno non lo raggiunse.
Senza che se ne potesse rendere conto, le figure sedute sulla scrivania erano mutate all’improvviso stracciando i vestiti che indossavano, diventando enormi braccia fatte di oscurità, ognuna delle quali terminanti in una mano composta da quattro gigantesche dita artigliate fatte d’ombra.
Queste ultime si chiusero sullo scheletro, facendolo esclamare di sorpresa.
Il suo corpo cominciò ad essere sbattuto ovunque con estrema violenza, tenuto bloccato dalle dita nere. Gli impatti furono tanto violenti e brutali da far crepare il suolo e il pavimento. Un paio di volte, fu sbattuta contro al soffitto, e alcune ventole caddero a terra sfracellandosi violentemente al suolo.
Sul teschio avvolto dalle fiamme, si formarono un paio di crepe.
Con gli occhi che lacrimavano sangue viola e con la bocca che strideva concitatamente, il colosso prese a sbattere violentemente al suolo le braccia d’ombra, cominciando a creare un grosso cratere innanzi a sé.
Ma poi, proprio pochi secondi prima che il corpo scheletrico venisse schiantato a terra un’altra volta, un’esplosione di scintille s’accese all’improvviso tra il pavimento e il teschio infuocato.
Scintille che si propagarono all’improvviso, divorando nelle fiamme i sette tentacoli d’ombra fino alla piattaforma di marmo che ospitava la scrivania. L’incubo emise uno stridio di dolore ancora più forte rispetto ai primi, lo stanzone venne avvolto da scariche d’energia violacea e i vetri degli orologi s’infransero uno dopo l’altro. Un paio di questi caddero a terra con un tonfo sordo.
La creatura mollò la presa, lasciando che la nemica roteasse a mezz’aria, per poi schiantarsi al suolo violentemente di schiena.
Quella stessa, sospirando affannata, si rialzò da terra su gambe malferme, con le fiamme che si erano fatte più deboli e meno luminose. Puntò nuovamente gli occhi dorati sul nemico, che inutilmente tentava di spegnere le fiamme, ormai completamente avvolte attorno alla sua ‘testa’.
Emise un ruggito terribile, dilaniato dal dolore, poi afferrò la piattaforma fiammeggiante e cominciò a tirare verso l’alto. Vedendo le budella e la carne che venivano strappate, facendo uscire un’intensa quantità di sangue, la ragazza-teschio piegò le gambe in avanti, pronta a reagire.
E proprio come aveva previsto, l’essere strappò la parte superiore dal resto del proprio corpo, emettendo uno stridio acuto, mentre una fontana di sangue sporcava pareti e terreno.
Quindi, rivolgendo gli occhi piangenti alla nemica, emise un altro stridio e scagliò il pezzo di pietra contro di lei. Quella fece uno scatto avanti e, dandosi una spinta poderosa, superò il gigantesco proiettile infuocato con un giro della morte in avanti.
Atterrò sulle gambe piegate, a testa bassa, mentre alle sue spalle il portone veniva sfondato e l’ultimo proiettile improvvisato esplodeva. Macerie e nuvole di fumo la superarono, mentre lei risollevava la testa, vedendo il nemico che si graffiava la pelle grigia con le unghie scure mentre piangeva e faceva scattare le pupille verso ogni direzione. Il moncone del collo, nel frattempo, aveva smesso di sbrattare sangue, rigenerandosi e stringendosi come un’anemone infastidita.
D’improvviso, ogni occhio si rivolse verso lo scheletro infuocato.
E i lamenti di dolore si trasformarono in grida di rabbia.
Abbandonò la sua posizione seduta, allargando le gambe lunghe e possenti, poi appoggiò i palmi di ogni mano al suolo, assieme alla pianta dei piedi giganteschi, assumendo una forma che ricordava un grottesco e gigantesco scarafaggio.
Ruggì, facendo tremare le pareti, poi scattò scompostamente verso di lei, sbattendo ogni arto al suolo con violenza e sollevando spesse coltri di polvere.
L’altra non fu da meno.
Quando i contendenti si scambiarono il primo colpo, l’onda d’urto che ne scaturì fu atroce, facendo cadere gli ultimi orologi appesi al muro e svolazzare i drappi rossi come posseduti.
Dopodiché, i due mostri presero a destreggiarsi in una feroce danza di pugni rabbiosi. Le enormi mani del budda colpivano violentemente e incrinavano le ossa, ma l’avversaria non fu da meno, menando dritti e montanti tanto possenti da deformare il corpo del nemico e lasciare orribili bruciature.
Andarono avanti ancora per diversi minuti.
Poi, all’improvviso, un pugno portentoso del gigante distrusse la guardia di braccia incrociate dell’avversaria, lasciandola completamente indifesa. Ne approfittò con un potentissimo montante, che la fece volare verso l’alto, facendole sfondare il soffitto con una brutale schienata.
Diversi altri ventilatori caddero attorno al colosso, che si piegò all’indietro a ponte.
Da sopra, la ragazza-teschio vide il nemico che spalancava lentamente la bocca, aprendosela di più con il paio di mani centrali. Una sfera d’energia oscura sfrigolante cominciò a concentrarsi sul fondo della gola, emettendo un inquietante suono simile ad un risucchio emesso da più e sinistre voci maschili.
Rapida, si liberò dal buco nel soffitto che aveva assunto la forma del proprio corpo, precipitando verso il basso roteando su se stessa un paio di volte. Arrivata a mezz’aria, piegò la schiena all’indietro, spalancando le fauci scheletriche ed inspirando a fondo.
Come il corpo del budda vomitò un raggio d’energia oscura in sua direzione, quella tornò a puntarlo, rigettando un getto di fuoco azzurro dalla bocca, simile al respiro di un drago. Le due onde d’energia si scontrarono tra loro, cominciando a far tremare tutta la struttura. Al di fuori, alcune finestre del palazzo si ruppero fragorosamente e miriadi di crepe profonde attraversarono il cemento.
Lo stallo durò ancora per pochi secondi.
D’improvviso, le fiamme attorno al teschio si fecero spaventosamente più intense e, con tutta la potenza che aveva, il soffio infuocato inghiottì l’energia del nemico, espandendosi in un mare di fiamme azzurre che nascose il corpo del colosso piegato.
Della sua presenza, si udì solamente uno stridio di dolore e sconfitta.
La ragazza-teschio chiuse le fauci e, puntando la testa verso il basso, si buttò nel mare di fuoco.
Mare di fuoco che si diradò in pochissimo tempo, mostrando il corpo ricoperto di bruciature e sanguinante del mostro che, ancora, tentava di reggersi sulle zampe tremanti.
Poco dopo, l’avversaria sfondò il muro di denti marci con un doppio calcio, scomparendo nella sua gola.
L’entità si alzò all’improvviso sulle altissime gambe, artigliandosi il corpo con violenza e facendo sgorgare nuove perdite di sangue. Camminò maldestramente all’indietro, rischiando di cadere più di una volta, mentre continuava a deturparsi il corpo.
Ed ecco che un’esplosione di fiamme azzurre lo colse all’improvviso dall’interno, facendo saltare un pezzo della sua pelle. Barcollò debolmente, prima che un altro brutale colpo lo facesse sussultare, schizzando via un paio di enormi occhi neri.
Ne arrivò un’altra.
Un’altra ancora.
I fori salirono a cinque.
Poi, in un trionfo di violenza e luce azzurra, il moncone rigenerato del collo esplose fragorosamente in una colonna di fuoco altissima, che avvolse come un affresco il soffitto, sciogliendo gli ultimi ventilatori sopravvissuti alla violenza dello scontro. E dopo le fiamme, arrivò un secondo diluvio di sangue, che si riversò al suolo come una pioggia torrenziale.
Il corpo del budda emise un debole sospiro, per poi crollare a terra seduto ed esausto con un rumore fragoroso, sollevando un nuvolone di polvere. Sporco di sangue e budella, il corpo della ragazza-teschio si trovava in piedi sopra la parte superiore del mostro, che lentamente si stava sciogliendo come la cera di una candela.
Nella mano destra, reggeva uno strano artefatto, simile ad un cuore pulsante grande quanto un pallone da calcio, dentro il quale erano conficcati orologi circolari, matite, compassi e fermacarte a forma di piramide.
La ragazza-teschio osservò l’artefatto con disgusto, per poi guardarsi intorno e rendersi conto che le braccia del suo nemico, tremando come canne al vento, stavano tentando di afferrarla.
Rapida, strinse il cuore nella mano fiammeggiante, facendo sussultare il mostro con uno stridio.
Quindi, si portò il cuore ancora pompante di sangue davanti al petto, afferrandolo anche con l’altra mano, cominciando a schiacciare con tutte le forze che aveva.
In un ultimo disperato tentativo, le braccia del budda tentarono di ghermirla.
Ma fu tutto inutile.
Il cuore venne avvolto dalle fiamme azzurre ed esplose fragorosamente, generando una potentissima onda d’urto a cupola che si propagò per tutto il grattacielo, facendo esplodere ogni singolo vetro ancora in piedi. Si poté dire lo stesso anche di ogni singolo altro grattacielo presente all’esterno.
I vetri dei palazzi che spuntavano dal ‘cielo’ piovvero a terra come un mortale acquazzone.
La ragazza-teschio abbassò le braccia.
Il corpo del budda, invece, chiuse l’enorme bocca e prese a gonfiarsi, come per trattenere il fiato.
Vomitò poi un guazzabuglio di sangue, budella e organi, misti a pezzi di scrivania, case di computer rotti e sedie girevoli da ufficio. Quindi, dopo un ultimo sofferente sospiro, abbassò le braccia di scatto, che sbatterono il dorso al suolo fragorosamente, per poi girare i pochi occhi rimasti verso l’alto e, finalmente, rimanere immobile.
“Mpf.” La carnefice si permise solo quel commento, per poi eseguire un salto della morte all’indietro e scendere dal colossale cadavere.
Alzò lo sguardo e, mentre vedeva il gigante che si riempiva di crepe e cominciava a sgretolarsi come un castello di sabbia sospinto dal vento, le fiamme che avvolgevano il suo corpo andarono pian piano ad estinguersi. La pelle ritornò sulle mani, e ritornò sul bellissimo viso da ragazza, ancora corrucciato in un’espressione seriosa.
Chiuse gli occhi, mentre raccoglieva i candidi e lunghi capelli bianchi dietro la nuca, coprendosela poi con il cappuccio.
Ebbe un paio di dolorosi colpi di tosse, ed un rivolo di sangue uscì dalla narice destra e da un lato della bocca. Strinse i denti: odiava quando i danni si facevano effettivamente sentire solo dopo lo scontro.
E mentre ogni singolo resto del nemico andava sbriciolandosi, posò lo sguardo sulle finestre distrutte.
Vide come la nebbia al di fuori dell’edificio si stava diradando.
Vide come ogni singola luce veniva assorbita dalla più totale e opprimente oscurità.
Girò i tacchi e, così come era arrivata, si levò di torno.
Quando si ritrovò nel piazzale della Sakadawa Tower, sotto ad un cielo notturno naturale e non più circondata da spettacoli architettonici che sfondavano ogni singola legge della realtà, tirò un respiro di sollievo.
Come tutte le volte che abbandonava il Non-Luogo, le ferite si rimarginavano e le ossa tornavano al loro posto. Se prima, lievemente, zoppicava, adesso era tornata a camminare normalmente. Tuttavia, l’eco del dolore era ancora presente, costringendola a massaggiarsi la nuca digrignando i denti con fastidio.
Si guardò attorno.
Avventori e avventrici di poco prima erano tutti scomparsi.
Non aveva idea di quanto tempo fosse rimasta dall’altra parte, ma sicuramente anche gli ultimi nottambuli dovevano essersene andati a letto.
Si stiracchiò per bene, tendendo le braccia verso l’alto, abbandonandosi ad un sonoro sbadiglio.
Quindi si avviò verso una delle panchine, dove si sedette ed estrasse il proprio cellulare.
Si piegò in avanti e, con una mano sotto al mento ed un’espressione stanca, digitò rapida sullo schermo.
[…]
[Oi. Sto cazzo di Idolo. Livello Inferiore un paio di cazzi]
[…]
[Oh andiamo. Non era sicuramente superiore ad un Intermedio…]
[…]
[Non dovresti, quantomeno come mia responsabile]
[Essere un po’ più precisa sugli stronzi che devo massacrare?]
[…]
[Come la fai lunga]
[Non ti avrei mandata a crepare contro un mostro troppo potente]
[Sapevo che ce l’avresti comunque fatta]
[Forse]
[…]
[Fanculo]
[…]
[Che permalosa!]
[Suvvia. Sei ancora viva, no?]
[^^]
[…]
[…]
[Ehi]
[Sei ancora lì?]
[…]
[Non grazie a te -.-]
[…]
[<3]
[Meno male, mi hai fatto prendere un colpo…]
[Se tuo padre avesse scoperto che eri morta per un incarico affidatoti da me… rabbrividisco solo a pensarci]
[…]
[Bah, sti cazzi… non sono così disposta a morire, prima di ricevere sta cazzo di licenza]
[Ora me ne vado a dormire. Domani devo aiutare il vecchio con i preparativi per il trasloco]
[Suppongo ci rivedremo nella nuova scuola, uh?]
[…]
[AAAWW… allora ti manco? <3]
[Scherzi a parte, stai facendo un ottimo lavoro, Katsuki Amano. Presto quella licenza sarà tua]
Me lo auguro.
Sospirò, stanca.
Salutò l’interlocutrice, ritirando il cellulare. Quindi, issatasi in piedi, si avviò nella notte.