Anime & Manga > I cinque samurai
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Autore: PerseoeAndromeda    20/06/2023    0 recensioni
La guerra contro Arago è terminata e i cinque samurai sono tornati alle loro case, ma il loro legame è ormai saldato e stare separati, il tutto unito a ricordi dolorosi, rende Shin malinconico.
Il cuore di una madre sente che dietro quel sorriso si nascondono profondi tormenti.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cye Mouri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Fanfic scritta per l’event del gruppo facebook “Prompts are the way”
 
Fandom: Yoroiden Samurai Troopers
Titolo e prompt: “Non potrei avere amici migliori di loro”.
Personaggi: Shin Mori e la sua famiglia, la sorella Sayoko, la madre Minami e il cognato Ryuusuke
Rating: verde
Genere: introspettivo, slice of life, malinconico
Note: ambientato in qualche momento tra la fine dell’anime e il primo oav

 
“Non potrei avere amici migliori di loro.”

 
 
Il mare faceva sentire il proprio canto quando le strade di Hagi erano vuote e silenziose e la sera scendeva a stendere le sue ombre, cancellando il candore dei muretti di pietra e rendendo più misteriosi i giardini e gli universi al di là di essi.
Le famiglie si riunivano, i profumi della cena rallegravano le stanze delle case e ci si preparava per una notte tranquilla, in quel luogo di Giappone nel quale i ritmi erano rimasti lenti e le tradizioni dell’antico sussistevano tra templi, ceramiche e rigagnoli popolati da koi variopinte.
In casa Mori, gli abitanti si stavano preparando a cenare e il più giovane della famiglia aveva imposto alle sue donne e al futuro cognato di rilassarsi, perché lui avrebbe pensato a tutto.
Se Shin era a casa, non permetteva alla madre dalla salute fragile di compiere la minima fatica e anche Sayoko-Neesan veniva sommersa da attenzioni e premure.
Per quanto riguardava Ryuusuke-Niisan, Shin riteneva di avere molte cose da farsi perdonare e aveva tutte le intenzioni di dimostrargli quanto ogni rancore fosse ormai accantonato e quanto fosse convinto di essersi sbagliato sul suo conto.
Il fidanzato della sorella gli sorrise nel momento in cui Shin si avvicinò per posargli davanti un piatto di soba dall’aspetto delizioso.
“Shin-kun, vieni a sederti con noi, non è il caso che tu ci serva in tutto”.
Il ragazzino chinò il capo con gentilezza:
“Non mi costa nulla, poi ho voglia di muovermi”.
“Ora è tutto in tavola, Shin” intervenne la signora Mori, gli occhi amorevoli fissi su quel figlio affettuoso nei confronti del quale aveva tanti sensi di colpa.
Era stato lui, il piccolo della famiglia, a prendersi cura di loro dal momento in cui suo marito li aveva lasciati ed era stato da quel momento, al medesimo tempo, che Shin aveva cominciato a chiudersi in se stesso escludendo la famiglia dal suo mondo interiore.
Tutto questo senza mai mancare in nulla nei loro confronti, per loro avrebbe fatto qualunque cosa, tranne condividere le proprie emozioni.
Minami Mori sospirò quando il figlio, finalmente, si decise a sedersi accanto a lei, rivolgendole un sorriso talmente tenero che la donna avrebbe voluto abbracciarlo: ma erano riservati, temeva di metterlo in imbarazzo.
Lo avrebbe fatto, forse, più tardi, quando finalmente si sarebbero ritrovati soli, a darsi la buonanotte, nella stanza della donna.
Dopo un corale “Itadakimasu” i quattro commensali poterono finalmente godere delle prelibatezze preparate da mani desiderose solo di far felice chi gli stava intorno, perché il cuore di Shin si nutriva dell’amore che poteva dare.
Dopo qualche istante di silenzio, Ryuusuke sentì il bisogno di rendere noto il proprio apprezzamento:
“È tutto davvero delizioso”.
“Credo di essere un po’ gelosa” ridacchiò Sayoko. “Shin-kun è sempre stato molto più bravo di me, sia in cucina che nella gestione della casa”.
Tutti risero, tranne Shin, che sospirò e rintanò la testa tra le spalle. Si limitò a sorridere e ad arrossire un poco.
Minami aveva capito da tempo che il suo bambino era malinconico, persino sofferente e quella timidezza non gli apparteneva.
Al di sotto del tavolo allungò una mano a sfiorare quella del figlio: era il loro linguaggio discreto, per significare presenza e interesse, la rassicurazione di una madre a un figlio che voleva dire “Lo so che ti è difficile confidarti, ma io sono qui e ti amo, come sempre”.
 
***
 
“Buonanotte, okaasan”.
Minami, seduta sul futon, lo sguardo che vagava al di là della finestra, nella notte impenetrabile di Hagi, sorrise.
Prima di mettersi a dormire aspettava proprio quello: che il figlio si affacciasse sulla soglia della sua stanza, con la delicatezza che lo contraddistingueva, prima di ritirarsi nel silenzio della sua solitudine.
Gli occhi della donna abbandonarono la notte e cercarono quelli del ragazzo, nei quali invece non cessava mai di splendere il sole.
Ma forse anche in quello si sbagliava: quel sole sembrava un po’ meno luminoso, le tinte di mare delle sue iridi un po’ più opache, un po’ più simili a quei fondali muti e tenebrosi, troppo immobili, persino un po’ spaventosi, anche per lei che il mare lo amava con tutte le sue contraddizioni.
Quella malinconia che aveva cominciato ad impossessarsi del suo bambino anni prima, quando aveva perso il padre, si alimentava in un’esistenza dalla quale lei era esclusa, suo malgrado.
Cos’era andato a fare Shin a Tokyo, proprio in quel momento in cui strani accadimenti sconvolgevano la capitale e si riversavano su tutto il Giappone?
Perché quella yoroi legata alle leggende di famiglia era diventata così importante?
E chi era quell’uomo che era venuto a prenderlo, quello strano sacerdote che la rassicurava e, al tempo stesso, le faceva capire che Shin doveva andare incontro al proprio destino?
Destino che il suo bambino aveva accettato, con l’espressione tormentata che a lei non sfuggiva, decisioni prese con il cipiglio di un adulto alle quali lei non aveva potuto opporsi, consapevole che eventi troppo più grandi di lei erano in moto e che in essi Shin era coinvolto.
Il piccolo Shin era cresciuto troppo in fretta e in lei vi era un misto di senso di colpa, perché non era in grado di capire e confortare e rassegnazione, perché qualcosa le suggeriva che non avrebbe potuto fare di più.
“È solo un alibi con il quale giustifico la mia assenza?” si chiedeva spesso.
E se lo stava chiedendo anche in quel momento, mentre tendeva la mano verso il figlio, in un cenno d’invito:
“Shin-kun, non te ne andare subito, parliamo un po’”.
Percepì il leggero sussulto del ragazzo e il sentore di allarme che passò nel suo sguardo limpido. La donna sospirò: il suo piccolo sembrava aver paura di quel che aveva dentro.
Tuttavia, non poté rifiutare la richiesta della madre e fece qualche passo all’interno della stanza, chiudendo il fusuma dietro di sé.
Rimase lì, fermo, in attesa e Minami seppe di dover essere lei a condurre quello che sperava potesse diventare un dialogo proficuo.
Gli sorrise e posò la mano sul tatami accanto al suo futon:
“Vieni a sederti un po’ qui?”.
Shin percorse la distanza che li separava ed andò a sedersi a gambe incrociate, un po’ rigido, troppo formale pensò la donna.
“Non riesci proprio più a rilassarti con me?”.
Il ragazzo ebbe un nuovo sussulto, scosse il capo:
“Non è così, scusami, okaasan”.
La donna allungò una mano e la posò su quella del figlio.
A quel tocco il ragazzo sembrò sciogliersi, staccò la mano dal proprio ginocchio e chiuse, con dolcezza, le proprie dita intorno a quelle della madre.
Minami si sentì un po’ rincuorata: il suo Shin era ancora propenso alle tenerezze, come quel bambino che, anni prima, si sarebbe venduto per ricevere coccole, ma anche per darle, sempre, anzi, forse anche di più.
Tuttavia…
Quell’ombra nei suoi occhi…
Quella timidezza che non gli apparteneva…
E quel sorriso che rivolgeva sempre a tutti loro, ma che sembrava sempre più fragile…
“Come stai, Shin-Kun?”.
Lui la guardò con gli occhi che si fecero grandi, aprì la bocca, la richiuse subito, distolse lo sguardo.
“Perché? Sto bene, come sempre…”.
Minami sorrise, con un po’ di rassegnazione, tanta malinconia, infinita tenerezza.
“Come sempre” pensò. “E come non sei mai stato davvero”.
Sospirò:
“Sento il bisogno di chiedertelo, perché te lo abbiamo chiesto sempre troppo poco… io soprattutto ed è mio dovere. Tu ce lo chiedi sempre, ti assicuri della nostra salute, del nostro benessere…”.
“Okaasan…” cercò di interromperla il ragazzo, ma la donna fece un cenno imperioso, quello di una madre autoritaria alla quale un figlio non può disobbedire.
Era una donna tranquilla, ma era una madre…
Una madre anziana per quel ragazzo nato quando lei era in età avanzata, ma una madre che il ragazzino aveva sempre rispettato come una dea.
Anche questa volta le obbedì e tacque, lasciando che fosse lei a continuare quella conversazione che voleva condurre a qualcosa di intimo, di confidenziale.
Questa volta, Minami non voleva permettere al figlio di rifugiarsi in se stesso, voleva che si confidasse, almeno un po’, che esprimesse quello che aveva dentro, quello tsunami di emozioni che si agitava sotto la sua espressione gentile, dietro quel sorriso che sembrava fatto solo per riscaldare i cuori.
La mano della donna salì verso il viso del ragazzo, spostò la ciocca più lunga di capelli e con il dorso delle dita gli carezzò la gota:
“Lascia che siano gli altri a prendersi cura di te, ogni tanto”.
“Ma… io…” balbettò Shin. Quell’atteggiamento lo destabilizzava, lo metteva sulla difensiva, ma Minami non si lasciò spaventare, questa volta, dalla sua reticenza.
Scosse il capo, il sorriso scomparve e l’espressione si fece triste mentre abbassava il viso a fissare le mani tornate entrambe in grembo:
“Non ho il diritto di dirti tutto questo, lo so, io che ti ho lasciato solo per tanto tempo, ad affrontare tutto quello che ti pioveva addosso”.
“Ma no… io…”.
“Lasciami finire, Shin. Lasciami fare la madre, per una volta”. Riportò gli occhi su di lui e ora la tristezza era mista ad una rinnovata autorità.
Il ragazzo arrossì, chinò il capo e stropicciò nervosamente le dita intrecciate tra loro.
“Io non parlo molto, ma sei mio figlio, ti conosco e, anche se ho voluto negarlo a me stessa per anni, ho sempre saputo che la tua tenerezza, la tua forza, il tuo orgoglio di ometto di casa, erano una maschera con la quale imponevi ai tuoi tormenti di non salire in superficie. E lo facevi per non turbare noi…”.
Shin scosse il capo, avrebbe voluto negare ma, prima che potesse dire qualcosa, fu Minami a proseguire, decisa.
“Poi è arrivata la yoroi… e quella tua misteriosa missione… e anche lì non ho avuto il coraggio per dimostrarti quanto fossi preoccupata per te… ti ho lasciato di nuovo solo, ad affrontare quella cosa tanto più immensa delle tue piccole spalle…”.
“Okaasan!” questa volta Shin si erse con orgoglio, la sua interruzione fu decisa. “Io ce l’ho fatta, sai?! Non devi preoccuparti per questo, io… io non sono debole!”.
Minami lo scrutò e lo stupore si trasferì da lui alla donna.
Il suo Shin…
Com’era cresciuto!
Stava diventando alto, le sue spalle si irrobustivano, ma i suoi lineamenti restavano quelli di un ragazzino troppo buono, troppo gentile…
La gentile forza dell’acqua…
Gentile come l’onda delicata che lambiva la spiaggia…
Forte come uno tsunami in grado di spazzare via ogni cosa.
Ma proprio per questo il suo Shin, temeva, avrebbe potuto distruggere anche se stesso se avesse lasciato libero quello tsunami che aveva nell’anima.
“Non ho mai pensato che tu fossi debole, mio Shin. Sono sempre stata tanto orgogliosa di te, lo ero allora e lo sono tutt’ora”.
Le labbra del ragazzo si arricciarono: cercava di trattenere la commozione e Minami non poté non rivedere il bambino di qualche anno prima, che era sempre lì e, lo sapeva, non se ne sarebbe mai andato. Shin sarebbe rimasto innocente e incorrotto, nonostante tutto e anche questo la spaventava: significava solo che era destinato a soffrire di più, la sua gentilezza era destinata a venire ferita, senza pietà, da eventi terribili che lei non avrebbe mai potuto conoscere fino in fondo.
“Ma non posso evitare di temere che tu ti senta solo e non so come fare per evitarlo”.
Nell’espressione di Shin qualcosa cambiò, il sorriso tornò sulle sue labbra e a Minami non era mai sembrato così bello, così sicuro, così sincero mentre rispondeva, deciso, con la sua voce morbida:
“Di questo non devi aver paura, okaasan… io la solitudine non la conosco”.
Lo interrogò con gli occhi: era l’ora di lasciar parlare lui, perché aveva qualcosa di importante da dire, era chiaro.
“È una delle poche certezze che ho nella vita, ma è quella più preziosa: i miei nakama non mi lasceranno mai solo”.
Minami spalancò gli occhi, sorrise di riflesso, quell’espressione, quelle parole, le fecero scendere nel cuore una felicità e una sicurezza che stupirono lei stessa:
“Già… i tuoi nakama… il caro Shu, che è venuto qui con te qualche mese fa…”.
“Lui… e tutti gli altri…”.
La mano di Minami tornò su quella del figlio, la strinse:
“E dimmi, sono dei buoni nakama? Io lo so che è così, te lo leggo in volto e mi piacerebbe rivedere Shu e conoscere anche gli altri. Mi parleresti un po’ di loro?”.
Lo voleva davvero: una voce dentro di lei le suggeriva che quei nakama, ormai, erano diventati il porto sicuro del suo Shin, forse più di Hagi, forse più della famiglia stessa…
No…
Erano loro stessi famiglia…
Lo leggeva negli occhi del figlio, che erano lo specchio del suo cuore, anche in quel momento, quando si fecero lucidi e il ragazzo non si vergognò della lacrima che attraversò la sua guancia, mentre cominciava a raccontare:
“Non potrei avere amici migliori di loro…”.
 
   
 
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