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Autore: _Trixie_    02/07/2023    1 recensioni
[A league of their own]
[A League of Their Own, TV 2022]
"Carson non sapeva nemmeno perchè si fosse abbonata a quello stupido settimanale di bassa lega, davvero. Che cosa dannazione le era passato per la testa, a spendere soldi così, per due fogli di giornale buoni forse per metterci il pesce – non che mangiassero spesso pesce, lei e Charlie, non con i prezzi che giravano. Stupida Carson Shaw, ecco cosa era. Una stupida idiota, che attendeva ogni giovedì quel settimanale con il cuore in gola, seduta sugli scalini della veranda d’ingresso di casa sua – no, non casa sua, casa di Charlie, sì, lei era lì di passaggio, solo di passaggio, per qualche settimana ancora. Al massimo. Se ne sarebbe andata il prima possibile, ecco [...]"
Carson POV per la prima parte, Charlie POV per la seconda. Post S1.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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But I must admit, I miss you terribly



 
 
«I wakened with a revelation. Occasionally you do. I rearranged myself and listened to his breathing, and I thought – he’s in love with Caroline. I knew it. I knew it. I was trying not to know it, not just because it wasn’t encouraging but also because it didn’t seem decent, for me to know it. But once you know something like that you never can really stop. Everything seemed clear to me».
Alice Munro, “Hard-Luck Stories” da The moons of Jupiter


 
 
 
 
 
Carson non sapeva nemmeno perchè si fosse abbonata a quello stupido settimanale di bassa lega, davvero. Che cosa dannazione le era passato per la testa, a spendere soldi così, per due fogli di giornale buoni forse per metterci il pesce – non che mangiassero spesso pesce, lei e Charlie, non con i prezzi che giravano. Stupida Carson Shaw, ecco cosa era. Una stupida idiota, che attendeva ogni giovedì quel settimanale con il cuore in gola, seduta sugli scalini della veranda d’ingresso di casa sua – no, non casa sua, casa di Charlie, sì, lei era lì di passaggio, solo di passaggio, per qualche settimana ancora. Al massimo. Se ne sarebbe andata il prima possibile, ecco, solo…
E quando il postino arrivava, buongiorno, signora Shaw, come va, signora Shaw?, Carson doveva trattenersi dallo strappargli quella sua ridicola borsa dalla spalla e mettersi lei stessa a cercare quel maledetto giornale. Si sforzava di sorridere e di parlare del più e del meno e nascondere la propria impazienza. Si chiamava Phil, il postino. Phil Johnson. Carson era convinta che da bambino dovesse essere caduto in una tinozza di candeggina e che per questo ora aveva un aspetto tanto sbiadito, con quei capelli che sembravano paglia e una carnagione così pallida da apparire innaturale. Se non lo avesse visto lì, sotto il sole, Carson si sarebbe persino convinta fosse un vampiro. Aveva letto Dracula di recente. Non che Carson fosse facilmente impressionabile, ma si era chiesta se ci fosse dell’argento in casa. Così, per ogni evenienza. Probabilmente no. Quasi sicuramente no. Di certo il servizio di piatti che sua sorella le aveva regalato per le nozze, spacciandolo per argento, era al massimo sterling e, con ogni probabilità, nemmeno quello. Comunque, altrettanto probabilmente, Phil non era un vampiro e, in ogni caso, non le importava nemmeno. Carson voleva solo il suo stupidissimo giornale. E quando finalmente lo aveva tra le mani il mondo intorno a Carson perdeva di importanza e lei si stringeva quelle poche pagine al petto, salutava Phil, un piede già oltre la soglia di casa. Alla prima consegna del settimanale, Carson non solo si era dimenticata di salutare il postino, ma anche dell’inutile tappeto d’ingresso, che l’aveva fatta inciampare, facendola finire faccia a terra. Non si era nemmeno rialzata. Aveva aperto il giornale e l’aveva trovata. Era certa che sarebbe stata lì e lì era, in tutta la sua gloria. Greta Gill. La prima foto di Greta che vide in quel giornale che si diceva sportivo e invece trattava solo di scandali dalla dubbia veridicità – lo sport, reso facile per le donne, recitava il sottotitolo della testata – la raffigurava di spalle, il volto rivolto all’indietro e la spalla lievemente sollevata, così che di lei si vedesse solo il profilo. L’angolo della bocca di Greta era tirato appena verso l’alto, ammiccante, ma gli occhi erano fissi, inespressivi, illeggibili. Nessuno avrebbe notato quell’ombra nello sguardo di Greta, Carson lo sapeva. A parte Jo. Sicuramente Jo lo avrebbe notato. E anche Maybelle. Dio, Maybelle. Cara, dolce Maybelle che tutto sapeva e nulla diceva. E Carson, sì. Carson lo aveva notato. Carson avrebbe sempre notato tutto, di Greta, come sempre aveva fatto, ancora prima di conoscerla. In fondo, al loro primo incontro, non era stata forse Carson a notare Greta nell’affollata Rockford, tra tutte quelle persone che correvano dietro alle loro faccende, senza accorgersi di quello che stava succedendo proprio lì, in mezzo a loro? Come avevano potuto ignorare l’istante in cui Carson aveva notato Greta e Greta aveva notato Carson? E certo doveva essere stato importante, quel momento, così importante da cambiare il destino, Carson ne era certa. Se solo il suo, o anche quello di Greta, di Jo, di tutte le Peaches, di Rockford, o persino dell’universo intero, Carson non lo sapeva, ma il destino era cambiato e da quel momento in poi Carson aveva smesso di vedere la vita come un’imposizione, qualcosa che le era toccato in sorte e di cui ora doveva reggere il fardello. Così, la vita era diventata per Carson una misteriosa grazia da accogliere a piene mani e cuore aperto.
In quella prima foto Greta non era però sola. C’era il braccio di un soldato a cingerle la vita. Pur ritratto di spalle, l’uomo doveva essere giovane, con i capelli scuri – da quel che i toni in bianco e nero della foto suggerivano – e di lui Carson non sapeva e non avrebbe mai saputo nulla, se non che Greta gli aveva permesso di starle accanto. E di lui, davvero, a Carson non poteva importare di meno. No. Era quello che non vedeva nella fotografia, che mai avrebbe potuto vedere in una fotografia, a tormentarla. L’ombra di una donna che, forse, era entrata nella vita di Greta. Che forse aveva preso il posto di Carson. O che magari era solo una distrazione, una giovane anonima di cui Greta in futuro avrebbe a malapena ricordato il nome. Forse somigliava persino a Carson. Forse Greta aveva scelto qualcuno che le somigliasse. D’accordo, Greta le aveva detto di non aver mai incontrato qualcuno come lei, ma ora che l’aveva incontrata, sapeva cosa cercare nelle altre. E forse Greta era andata a New York e si era messa a cercare versioni di Carson, simili anche se non perfettamente identiche, ed era pur sempre possibile che una di queste fosse persino migliore di Carson. Più bella. Più alta. Più sicura di sé. Capace di rendere Greta più felice di quanto Carson fosse riuscita a fare. Di tenerla al sicuro.
Carson non lo sapeva. Voleva saperlo? Forse? E che differenza avrebbe fatto? Se avesse saputo che Greta in quell’istante stava baciando un’altra donna, sarebbe cambiato qualcosa? I giorni e le notti avrebbe smesso di essere ricolmi dei pensieri e del ricordo di lei?
Si accorse, Carson, che quello che sentiva dentro, nel farsi quelle domande, era paura. Paura di quello che le sarebbe successo, se Greta… Se…
Ma Carson aveva continuato a tormentarsi, settimana dopo settimana, con immagini di Greta al braccio di uomini così anonimi da somigliarsi tutti, al punto che Carson si accorse che non si trattava sempre della stessa persona solo per i brevi articoli che accompagnavano le fotografie. Carson li leggeva con avida ansia, alla ricerca di un dettaglio, di un indizio, di non sapeva nemmeno lei cosa che le parlasse come le avrebbe parlato Greta, come se Greta avesse in qualche modo controllo su quello che si scriveva su di lei. Non che Carson pensasse che Greta fosse all’oscuro o contraria a quelli articoli, no. Conosceva Greta. E per quanto quelli scatti sembrassero rubati, Carson non era così ingenua da non notare il portamento di Greta, come le sue pose fossero studiate al punto tale da sembrare naturali, completamente prive di quell’artificiosità di cui invece erano il prodotto. Era un’immagine, quella che Greta presentava al mondo, che aveva tutto e al contempo nulla a che vedere con quello che Greta era quando nessuno la guardava – o quando c’era solo Carson con lei. Era sempre, sempre Greta – il cuore di Carson la riconosceva, eppure vi era una differenza abissale fra le due e Carson ama-
Ad ogni modo, Carson aveva raccolto ogni singolo articolo che riguardasse Greta. Li teneva nella copia di A tree grows in Brooklyn che aveva portato con sé da Rockford – presa in prestito, non rubata, sia chiaro. Talvolta si trattava solo di trafiletti senza fotografie ad accompagnarli, in cui si informavano i lettori che la «terribile femme fatale Greta Gill» si era presa una pausa dagli uomini per quella settimana, ma che di certo sarebbe presto tornata alla ribalta. Più frequentemente, era la fotografia a risaltare.
Quella mattina, però, seduta al tavolo della cucina, Carson faticò a non vomitare la colazione sul giornale aperto. Invece del solito, irrilevante soldato, nella fotografia comparivano quattro persone a braccetto, che camminavano per un’affollata via di New York. Al limite destro e sinistro, Carson notò a malapena due soldati, perché tutta la sua attenzione era stata catturata da Greta – come sempre – e dalla ragazza accanto a lei, che doveva avere i capelli chiari e, Carson si convinse senza alcuna apparente ragione, gli occhi verdi. E quella ragazza, chiunque fosse, non si meritava certo di guardare Greta in quel modo, come se-
Come se-
Come se le facesse mancare il fiato.
Greta guardava dritto l’obiettivo. Sorrideva. Sorrideva come quando entrava in campo e si offriva per un attimo agli spettatori sugli spalti, prima di dare loro le spalle – e allora il suo sorriso svaniva, sostituito da pura, ribollente determinazione. Lo stomaco di Carson si contrasse e, all’improvviso, le sembrò che un sottile strato di ghiaccio le ricoprisse la pelle, dalla punta delle dita, risalendo le braccia fino al petto, nel cuore. Al tempo stesso, era sicura che il suo viso avesse preso improvvisamente fuoco. Voleva correre. Voleva scappare. In quel momento, era sicura che sarebbe stata in grado di raggiungere Rockford a piedi, un miglio dopo l’altro, correndo correndo correndo con la certezza che se si fosse fermata, se avesse ricordato quell’immagine di Greta accanto a un’altra donna, avrebbe notato qualcosa, un dettaglio così insignificante che forse persino a Jo sarebbe sfuggito, ma che avrebbe invece dato a Carson la certezza che Greta l’aveva dimenticata, che non cercava nelle altre nemmeno il fantasma di lei, che lei era stata solo un breve sogno e, come ogni breve sogno, all’alba era svanito.

 
*
 
 
Carson aveva deciso di tornare nell’Idaho, con Charlie. No, così non era corretto. Carson era tornata nell’Idaho con Charlie, perché Carson non avrebbe potuto fare altrimenti.
Charlie non aveva parlato di tradimento.
Beh, Charlie non aveva proprio parlato per almeno una decina di minuti dopo aver sorpreso sua moglie baciare un’altra persona. Una donna. Si era lasciato guidare in quella che era stata la stanza di Carson per mesi e che ora era spoglia di tutto salvo una manciata di mobili. Charlie era rimasto in piedi, in mezzo alla stanza, i fiori destinati a Carson ancora stretti tra le dita. Lei gli stava davanti, le guance rosse per la foga – e parlava. Né Carson né Charlie ricordavano ormai che cosa avesse detto, ma entrambi erano certi di una cosa: Carson non si era scusata. Però Carson non avrebbe mai voluto che Charlie lo scoprisse così – avrebbe anzi preferito che non lo scoprisse mai. E Carson sapeva che non era facile da capire, non gli chiedeva di capire, era successo e basta e aveva una data di scadenza, lei lo sapeva e Greta lo sapeva, Greta, Greta, Greta – Charlie di’ qualcosa, ti prego, per favore, Charlie.
All’improvviso Charlie aveva lasciato cadere i fiori ed era stato come se si fosse appena accorto della presenza di Carson davanti a lui. Dal piano inferiore giungevano attraverso la porta chiusa i passi affrettati delle Peaches, il rumore di bagagli trascinati sul pavimento di legno, l’eco degli ultimi saluti che svaniva nell’aria.
«Dovremmo andare a casa. Ti porto a casa» aveva detto Charlie.
E Carson aveva annaspato alla ricerca d’aria all’assurdità di quelle parole.
Ma Greta, le era affiorato sulle labbra. Ma Greta, cosa? Carson non avrebbe saputo spiegarlo, eppure quel nome le era parso una protesta più che sufficiente a qualsiasi decisione presa arbitrariamente da Charlie.
Di fronte all’esitazione di Carson, Charlie, confuso, le aveva preso il gomito e l’aveva scossa. Non vi era stata violenza in quel gesto e il suo tocco era stato delicato. Era come se avesse voluto indagare su cosa si fosse rotto, dentro di lei, quale ingranaggio fosse necessario rimettere a posto per avere di nuovo la sua Carson tutta intera. Funzionante. Normale.
Istintivamente, Carson si era ritratta. Aveva fatto un passo indietro. Stava per dire a Charlie che lei, nell’Idaho, non ci voleva tornare. E di salutarle sua sorella. Ma non ne aveva avuto il tempo.
«Sono tuo marito» le aveva detto invece Charlie.
Era vero. Era suo marito. Che la stesse minacciando o supplicando, a Carson non era chiaro. Forse entrambi. Forse nessuno dei due. Forse Charlie le aveva solo ricordato la realtà delle cose. Lui era suo marito. Qualunque fossero state le intenzioni di Charlie, Carson non le aveva capite e quelle parole le erano sembrate false, fuori luogo, sbagliate. Pur, non aveva trovato modo di contraddirle.
Carson aveva raccolto i fiori. «Perderemo il treno, se non ci sbrighiamo» aveva detto a Charlie, dandogli le spalle per uscire dalla stanza.
 

 
*
 

Carson era rimasta poi nell’Idaho, con Charlie, perché non sapeva cosa altro avrebbe potuto fare. Non per sé stessa, no. Il problema era Charlie.
Non era l’unico soldato tornato dal fronte e, come per molti di loro, la guerra non si era conclusa solo perché così era stato deciso. Charlie si svegliava ancora terrorizzato, di notte. Si calmava solo quando Carson lo raggiungeva dalla stanza accanto – quella che Charlie aveva pensato sarebbe servita ad accogliere i loro figli e nella quale invece Carson dormiva da quando era tornata da Rockford.
E poi Charlie non riusciva a trovare lavoro. Usciva ogni mattina presto e ritornava la sera tardi, sconsolato, dicendo che no, nessuno assumeva, nessuno voleva assumere lui. Le voci giravano veloci, nelle cittadine. Lo sapevano tutti che c’era qualcosa che non andava, con la testa di Charlie. E poi sua moglie. Probabilmente era contagioso, qualsiasi cosa avessero gli Shaw. Sì. Meglio non averci nulla a che fare.
Nel frattempo, si arrangiavano con i guadagni della stagione di Carson.
Di Greta, poi, non avevano più parlato.
Come per la lettera, Charlie preferiva fingere che nulla fosse successo.
E Carson ne era nauseata.
Possibile che Charlie non avesse nulla da dirle? Da chiederle? Da rinfacciarle? E ogni volta che Carson provava a parlare del loro matrimonio o del suo futuro con le Peaches, Charlie lasciava la stanza o si allontanava da lei, farfugliando qualcosa circa un improvviso mal di testa.
E Carson aveva semplicemente smesso di provarci.
Charlie non voleva parlare del loro matrimonio? Non voleva parlare della profonda infelicità di Carson tra quelle quattro mura, in quella vita confortevole, ma priva di tutto ciò per cui vale la pena vivere? Voleva ignorare il fatto che sua moglie aveva baciato un’altra? D’accordo. Fantastico. Meraviglioso. Allora nemmeno Carson avrebbe parlato della sua decisione di lasciare l’Idaho non appena Charlie avesse trovato un lavoro. E sperava solo che Charlie avrebbe chiesto il divorzio. Carson si era informata in biblioteca e sapeva che l’abbandono del tetto coniugale era una delle poche ragioni per cui l’Idaho lo concedeva.
Solo…
Solo che Charlie sapeva di lei e Greta. E Carson credeva di conoscere Charlie, ma… Insomma. Non voleva nemmeno pensarci, Carson, a cosa avrebbe fatto se Charlie l’avesse minacciata di… Se avesse minacciato di denunciarla per…
Così Carson era rimasta. Ma rimanere era diventato per lei logorante. Si alzava quando il sole era ormai alto, cercando di recuperare le ore di sonno che perdeva la notte a causa degli incubi di Charlie. Poi Carson puliva e cucinava e usciva a fare la spesa e si preoccupava di evitare sua sorella o chiunque altro la conoscesse. Un’impresa impossibile, naturalmente, ma generalmente riusciva a cavarsela con qualche scambio di convenevoli e la scusa di avere molto da fare. Si addormentava, la sera, pensando a Greta. Si chiedeva dove fosse. Cosa facesse. Se fosse felice. Se le mancasse. Se pensasse a lei. Se ricordasse i suoi baci. O la loro prima volta. A volte Carson, prima di addormentarsi, faceva scivolare la mano sotto le lenzuola, tra le gambe. Soffocava i gemiti nel cuscino. E detestava l’idea che Greta non fosse lì a sentire il suo nome che le scivolava prepotente tra le labbra.
 

 
*

 
Gli incubi di Charlie stavano peggiorando. O almeno così pareva a Carson. Charlie, ovviamente, non le parlava nemmeno di quello. Era frustrante non poter fare nulla per aiutare Charlie. Era furiosa con lui, certo. E anche spaventata da quello che avrebbe potuto farle, se… Ma era Charlie. Condividevano un passato, una vita intera, e gli voleva bene. Seduta al tavolo della cucina con un bicchiere d’acqua che ancora non aveva bevuto di fronte a lei, Carson si massaggiava il polso, dove poco prima Charlie l’aveva stretta tanto da lasciare il segno quando l’aveva afferrata mentre lei lo scuoteva per svegliarlo. A Charlie erano occorsi interminabili, dolorosi secondi prima di riconoscerla ed allentare la presa, ma anche così Charlie lasciò andare lentamente, come se non fosse sicuro di non voler fare del male a Carson ora che aveva capito chi fosse.
Carson si passò una mano tra i capelli e guardò fuori dalla finestra. Era una notte tranquilla, dal cielo limpido. Sapeva che avrebbe fatto meglio a tornare a letto. Ma sapeva anche che non sarebbe mai riuscita a dormire. Non a causa di Charlie, anche se, doveva ammetterlo, per un istante aveva avuto paura di lui. No.
Il giornale che era arrivato quella mattina era ancora sul tavolo. Era chiuso. E Carson non aveva più avuto il coraggio di aprirlo. Non aveva ancora trovato il coraggio di ritagliare la foto di Greta – quella con l’altra donna. Ghiaccio le corse lungo la schiena, fermandosi alla base e all’improvviso respirare divenne difficile, per Carson. Non difficile, esattamente. Meccanico. Consapevole. Doveva concentrarsi, e imporsi di respirare. Come se una parte di lei fosse stanca anche di quello.
Non aveva diritto di…
Greta le aveva chiesto di andare con lei.
Carson si concesse di immaginare, per un istante soltanto, di essere lei la donna al braccio di Greta. Immaginò New York. Marciapiedi larghi quanto certe strade di provincia. Grattacieli tanto alti da far venire le vertigini solo a guardarli dal basso. E rumore tutt’intorno. Ma Carson non avrebbe notato nulla, di New York. Così come non aveva notato nulla di Rockford, se non come lo sfondo necessario, a malapena adeguato, della sua vita accanto a Greta. Non era colpa di Rockford – e non sarebbe stata colpa di New York, né di qualsiasi altro posto al mondo. È che era Greta. E Greta catalizzava l’anima di Carson, tutta quanta.
Carson prese il bicchiere d’acqua e la rovesciò a terra, lentamente e deliberatamente. Inclinò il bicchiere a poco a poco perché il rivolo d’acqua fosse costante, un rumore sordo, quasi osceno nel silenzio della casa. Forse Charlie era ancora sveglio. Forse si era addormentato e Carson lo aveva svegliato. Importava qualcosa? No. Le ultime gocce d’acqua raggiunsero la pozzanghera sul pavimento accanto ai piedi di Carson, che si alzò dalla sedia strisciandone le gambe sul pavimento. Sua sorella le avrebbe detto che una signora non striscia la sedia sul pavimento. Non è educato. Non è garbato. Non è femminile. Bla bla bla. Scavalcando l’acqua, Carson si diresse verso la credenza accanto alla porta della cucina e si alzò sulla punta dei piedi per raggiungere l’anta più alta e aprirla. Prese la bottiglia di Whisky che vi era riposta, lasciando così il ripiano vuoto. Né lei né Charlie erano mai stati dei grandi bevitori. Carson nemmeno ricordava quando avessero acquistato quella bottiglia e per quale occasione. Era già stata aperta, ma dal peso Carson era sicura non ne mancasse poi molto. Tornò al tavolo, sempre scavalcando l’acqua, e si versò un generoso bicchiere di Whisky.
«A Greta» sussurrò alla notte, prima di bere.

 
*
 
 
Charlie quella mattina si svegliò con un gran mal di testa. Non era una novità e, anzi, si sarebbe stupito del contrario. Tuttavia, non si era ancora abituato al dolore e, sospettava, non si sarebbe mai abituato. Era certo, anche, che non avrebbe mai smesso. Così come era certo di aver perso Carson, la sua Carson, sua moglie, per sempre, anche se non riusciva a comprendere quella nuova realtà.
Perché non poteva essere reale.
L’idea che lui potesse esistere senza l’amore di Carson gli era inconcepibile. E il suo, di amore? Tutto quell’amore che aveva per sua moglie, che aveva sempre avuto per sua moglie, cosa avrebbe dovuto farne? Non sapeva come smettere di amarla. Non sapeva vivere diversamente se non amandola. Non voleva.
Ma ciò che davvero terrorizzava Charlie, e che faceva montare in lui la rabbia, era la possibilità che Carson, in realtà, non lo avesse mai amato. Possibile che lo avesse ingannato per tutto quel tempo? Possibile che ciò che lo aveva sostenuto in Europa, in guerra, ciò che gli aveva impedito di farla finita ogni volta che aveva pensato che continuare a respirare non valeva in fondo tutta la sofferenza che subiva – e causava, possibile che l’amore che lo univa a Carson, fosse una presa in giro? Carson non lo aveva mai baciato come l’aveva vista baciare-
Che Carson…
Che Carson lo avesse usato, per tutto quel tempo? Per nascondere quel… quello che era davvero?
Charlie non lo sapeva. E non voleva saperlo. Per questo non chiedeva. Né parlava a Carson di…
Non era il fatto che si trattasse di una donna, non di per sé. Capitava. Succedeva. Charlie sapeva che alcune donne erano lesbiche. Non voleva averci nulla a che fare e non sapeva nemmeno come potesse succedere. Ma sapeva che poteva succedere. Qualcuno parlava di malattia. O di devianza. Charlie non vi aveva mai pensato in quei termini, perché in fondo non aveva mai dovuto pensarci, non davvero. Ma ora che aveva visto…
Carson non gli sembrava malata. O deviata. E probabilmente, si era detto Charlie sul treno che da Rockford lo aveva riportato nell’Idaho con sua moglie accanto, probabilmente era solo una cosa temporanea. No? D’altronde lui non era dottore e chissà cosa succedeva, a chiudere tante donne insieme, in una casa, senza uomini.
Confusione.
Sì, ecco, probabilmente Carson era solo confusa.
Nemmeno lui, in fondo, si sentiva lo stesso. Non avrebbe detto che la guerra lo aveva cambiato, no, Charlie avrebbe detto che la guerra aveva fatto con lui ciò che si fa con una noce per aprirla. Lo aveva privato delle studiate illusioni che si era costruito intorno per stare al mondo, costringendolo a guardare nell’abisso della natura umana e ciò che vi aveva scorto e le voci che vi aveva udito, sussurri che sembravano affiorare dall’inferno stesso, lo avevano lasciato tremante e nudo e spaventato.
Non ci pensi, dimentichi, gli avevano detto i dottori. Sarebbe passato, tutto quanto, ogni cosa sarebbe tornata normale.
Normale.
Come prima.
Sarebbe stato così anche per Carson, si era detto Charlie.
Carson avrebbe dimenticato.
Lui avrebbe dimenticato.
E in quell’oblio si sarebbero scoperti di nuovo innamorati.
Ma i giorni passavano.
E Charlie non dimenticava.
C’erano gli incubi, certo, ma nemmeno il giorno gli dava tregua. Charlie era tornato a casa, ma aveva portato la guerra con sé. Era in ogni ronzio che udiva, in ogni scintilla che vedeva, in ogni ruvida stoffa che sfiorava.
E non aveva bisogno di chiedere a Carson se stesse dimenticando.
Se la stesse dimenticando.
Charlie sapeva che Carson l’aveva portata con sé. Forse sua moglie nemmeno se ne accorgeva, di come lei fosse in ogni parola e in ogni sospiro e nel suo profumo, anche. Quando Charlie era arrivato a Rockford la prima volta e aveva abbracciato Carson, aveva sentito qualcosa di diverso – il profumo di sua moglie era diverso – non sgradevole, no, ma diverso, sì. Irriconoscibile. Alieno. Aveva pensato fosse l’aria di città o magari l’acqua – sapeva che l’acqua non era uguale in tutti gli Stati Uniti. E poi aveva sentito qualcosa di molto simile, una scia di lei lo aveva investito accidentalmente. Useranno tutte quante lo stesso sapone, aveva pensato. Ma ora Carson era a casa, era con lui. E quel profumo non l’aveva lasciata.
Forse era quello a dargli mal di testa.
Con un grugnito di fastidio e dolore, Charlie si alzò dal letto con l’intenzione di raggiungere la cucina e mangiare qualcosa per colazione. Carson non si sarebbe svegliata per almeno un paio d’ore, perciò si mosse per la casa il più silenziosamente possibile, evitando quelle assi del pavimento che sapeva avrebbero scricchiolato più di altre. Si stava strofinando gli occhi, la memoria di mille altri risvegli in quella casa a guidare i suoi passi, quando i suoi piedi nudi si bagnarono –
«Larry! Larry!»
«Shaw, torni alla sua postazione!»
«Larry!»
Confusione e polvere e il sangue di Larry sulle mani di Charlie.
«Ti prego!».
Caldo. Il sangue che sgorga da una ferita aperta – Larry era stato colpito a un occhio, probabilmente un colpo dovuto più alla fortuna che alla mira del soldato nemico – e il sangue è caldo sulla mano di Charlie. Quasi confortante.
Un conato di vomito ha la meglio su Charlie.
«Torni alla sua postazione, Shaw!» urla di nuovo il capitano.
Ma Charlie non può fare altro che vomitare. Non è paralizzato dalla paura o dal dolore, no. Si sente più lucido di quanto non lo sia mai stato in tutta la sua vita – la vacuità dell’esistere gli è all’improvviso così chiara da essere insopportabile e Charlie desidera solo liberarsene. Vomita e vomita e così facendo spera anche di rigettare quella nuova consapevolezza e tutto sé stesso.
Ma poi pensa a Carson –
Charlie inspirò a fondo.
Acqua.
Quella che aveva pestato era acqua.
Non sangue, acqua.
E non era più in Europa, no, era a casa.
E Carson non era una speranza lontana, ma era lì.
Una nuova preoccupazione colse Charlie nel vedere la moglie riversa sul tavolo della cucina, ancora in pigiama, un leggero russare dalle sue labbra, la bottiglia di Whiskey aperta – e quasi finita. Il pungente odore di alcol lo colpì in pieno, all’improvviso. Sotto le braccia di Carson, su cui la donna appoggiava la testa, Charlie notò decine di carte da lettera, scribacchiate per una o due frasi e poi apparentemente abbandonate, e quel giornaletto settimanale che Carson leggeva sempre. Charlie non vi aveva mai prestato particolare attenzione. Sua moglie voleva tenersi aggiornata sulle vicende sportive femminili. Comprensibile. Il baseball le era sempre piaciuto. Almeno quello, di Carson, non era cambiato.
Charlie si avvicinò al tavolo, con l’intenzione di svegliare Carson – almeno il tanto che bastava per trascinarla a letto. Ricordava una sola altra volta in cui Carson aveva bevuto tanto. Erano insieme, poco più che bambini, non molto tempo dopo la fine del proibizionismo. Nessuno di loro aveva ancora idea di come funzionasse, esattamente, l’alcol. Avevano però trovato una bottiglia di scotch – all’epoca non sapevano nemmeno si chiamasse scotch – sotto il letto della sorella di Carson. Meg la teneva nascosta per quello che sarebbe poi diventato suo marito, ma per quanto facile fosse nascondere le cose al padre, soprattutto da quando la mamma se ne era andata, nulla di quello che succedeva in quella casa era un segreto per Carson. Il fatto era che nessuno le prestava attenzione né la prendeva sul serio. La piccola Carson con il naso tra i libri e una palla da baseball sempre in mano. Così silenziosa che dimenticavi perfino che fosse nella stanza. E per quanto gli occhi fossero sempre puntati sul libro che aveva in grembo, quando la conversazione delle persone intorno a lei si faceva interessante, Carson smetteva di voltare le pagine e, invece, ascoltava. E le conversazioni più interessanti coinvolgevano sempre sua sorella. Era così che lei e Charlie erano venuti a sapere della bottiglia che nascondeva sotto il letto e avevano deciso di assaggiarne il contenuto. Si erano aspettati di sentirsi diversi all’istante, ma il primo sorso di scotch non fece loro alcun effetto, se non bruciargli la gola. Charlie ne era rimasto deluso ed era deciso a lasciar perdere, ma Carson non aveva voluto darsi per vinta. Aveva bevuto ancora. E ancora. E alla fine Charlie aveva dovuto chiedere aiuto alla sorella di Carson, che li aveva coperti controvoglia e solo per egoismo. Se suo padre avesse scoperto da dove proveniva la bottiglia, ci sarebbe andata di mezzo anche lei. Stupida Carson, aveva commentato Meg,  
«Carson. Tesoro. Carson?» bisbigliò Charlie, scuotendo gentilmente la moglie.
Carson mugugnò, senza svegliarsi davvero. Charlie considerò l’idea di lasciare che continuasse a dormire lì, sul tavolo, ma si disse che il divano sarebbe stato un’opzione migliore. Era certo che sarebbe riuscito a costringere sua moglie a fare qualche passo, almeno fino al soggiorno. Farle raggiungere il letto al piano superiore, invece, era una prospettiva da escludere a priori. Charlie afferrò le braccia di Carson, continuando a chiamarla, e provò a farla alzare, ma tutto quello che ottenne fu di sollevarle il busto dal tavolo e farglielo appoggiare allo schienale della sedia, così che la testa finì con il ciondolare di lato, in precario equilibrio. Il sollievo che Charlie provò nel non vedere sua moglie ruzzolare a terra a causa sua ebbe però breve durata, perché il suo sguardo venne catturato dalla parte di giornale che era rimasta nascosta sotto Carson. Era la foto di quattro persone, tra cui Charlie ne riconobbe una soltanto – e come mai avrebbe potuto dimenticarla? L’aveva vista baciare sua moglie.
Charlie resistette all’impulso di prendere il giornale e stracciarlo. Intuiva, vagamente, che Carson non ne sarebbe stata contenta. Affatto.
Era per lei che Carson aveva bevuto tanto? Quei fogli con la familiare grafia di Carson erano per lei?
Charlie ne prese uno. Vi erano state scritte solo poche righe, con tratto frettoloso ma pesante. Una leggera increspatura del foglio, piccola e circolare, gli bastò per capire che vi era caduta una lacrima. Piangeva per lei? Charlie si chiese se avesse pianto anche per lui. Forse sì. Probabilmente sì. Ma era diverso. Lo sapeva che era diverso.
Charlie si mise a leggere.

 
Greta,
non so nemmeno da dove iniziare. Ho visto la tua foto. Molte foto, a dire il vero. Ho visto molte tue foto. Sembri felice. No, non è vero. Però sorridi. Spero tu sia felice. Le ho tenute tutto, le tue foto. Sei molto bella. Ma io sto facendo confusione, forse dovrei ricominciare
 
Charlie mise da parte un foglio e ne prese un altro.
 
Cara Greta,
come è New York? Ho visto la tua ultima foto, quella con i due soldati e un’altra donna. Non un’altra. Voglio dire, sì, un’altra donna, ma non altra rispetto a me. Intendo, con due soldati e una donna. Oltre a te. Inso

Anche questa seconda lettera si interrompeva, Charlie ne prese una terza, sul cui intero contenuto erano state tracciate un paio di linee nere.
 
Cara Greta,
posso sopportare di vederti al braccio di un altro uomo, ma non di una donna, Greta, non riesco a

Ma Carson non aveva concluso la frase. Il foglio successivo era completamente bianco, se non per il nome di lei, Greta, che campeggiava in alto a sinistra. Carson doveva averlo scritto più e più volte, ripassando le lettere, ma non era riuscita ad andare avanti.
Un altro foglio.
           
Greta,
non so come dirti

E ancora.
           
Cara Greta,
quella sera in cucina, mi hai detto di credere nella zoologia, nell’astrologia e nei cubetti di ghiaccio. Credi anche nella reincarnazione? Credi che ci sia una possibilità, per noi, in futuro, in un’altra vita? O magari credi, non so, che ci sia già stata per noi una possibilità, in una vita passata? Credi che le cose siano andate male allora? Perché, quando ti ho conosciuta, non mi è sembrato di conoscerti, non davvero, mi è sembrato di riconoscerti. Come se avessi trascorso la mia vita a cercarti. Ma non deve essere la reincarnazione per forza. Mi va bene anche l’aldilà, uno qualsiasi, purché non vi sia paura

Anche questa lettera si interrompeva.

Greta,
ciao, non so se ti ricordi di me, sono io, Carson.

Il resto del foglio era occupato da cerchi concentrici e linee tracciate senza alcuna logica. Frustrazione.
Uno degli ultimi due fogli, di nuovo, riportava solo il nome di Greta, a malapena riconoscibile a causa dell’inchiostro sbavato. Doveva esservi caduto del whiskey. O delle lacrime. L’ultimo, invece, non aveva nome.

È che mi manchi. Ed ero pronta alla tua mancanza, alla tua assenza, al vuoto dopo di te. Ma non c’è stato vuoto, dopo di te. Invece, è dolore pieno, colmo, traboccante. Pesa sul mio petto e lo schiaccia. Riempie tutto lo spazio che avevo fatto nel mio cuore perché potessi starci tu. Ogni antro. Ogni interstizio. Ogni attimo. Greta, io

Charlie smise di leggere. Meticolosamente, raccolse i fogli con le lettere mai finite di Carson e li appoggiò sul tavolo. L’aveva capito. Charlie si avvicinò al fornello del gas e lo accese, come ogni mattina da quando era tornato dalla guerra, per prepararsi una tazza di tè. Un’abitudine che aveva preso in Europa. L’aveva capito, lo sapeva. Avrebbe preferito non capire, non sapere. Aveva provato ad ignorarlo. Ma lo sapeva. Lo aveva capito a Rockford. E ora non riusciva più a ignorarlo.
Prima di mettere il bollitore pieno d’acqua a scaldare sul fuoco, Charlie prese i fogli sul tavolo, le lettere di sua moglie per un’altra donna. E mentre le bruciava, ad una ad una, guardando la cenere cadere e spegnendo le ultime fiamme sotto l’acqua corrente del lavandino, ebbe la consapevolezza che non sarebbe più riuscito ad ignorare il fatto che Carson, la sua Carson, si fosse innamorata di Greta Gills.
 
 




 
NdA
Grazie per aver letto questa piccola OS, scritta ormai mesi e mesi fa, che inizialmente doveva essere la prima parte di tre (e che invece, temo, rimarrà così). La citazione che apre la OS è stata, ovviamente, di grande ispirazione.
T. <3


 
 
   
 
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