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Autore: bluemmings    09/07/2023    1 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto Procuratore]
Quando Calogiuri ha scoperto che non sarebbe diventato padre, tutto è cambiato, lui è cambiato. Lo hanno investito mille dubbi e parole, fino a realizzare che la persona che più ammirava al mondo aveva contribuito al perpetrare di quella menzogna.
E questo nuovo Calogiuri una cosa simile non la può ignorare: nel buio di una fredda serata invernale di Matera, Ippazio raggiunge Imma Tataranni e le riversa addosso tutti i suoi sentimenti. Proprio tutti.
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«Calogiuri, che c'è di tanto urgente?» gli chiese quando gli si parò davanti, scrutando l'espressione del suo viso.
«Cosa c'è di tanto urgente?!» ripeté, col tono più alto di un'ottava, fallendo nel celare la sua cadenza dialettale. «C'è che non aspetto nessun figlio.»
Imma provò ad accarezzargli una spalla, ma il giovane si scansò con un movimento brusco.
«E tu... tu lo sapevi.» aggiunse Ippazio con delusione. Dai suoi occhi acquosi cadde una lacrima che gli rigò la guancia.
Genere: Erotico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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VISCERALE.


Uscì da quell'appartamento come una furia, la notte sembrava nera più del suo umore.

Ippazio non sapeva come sentirsi riguardo a quanto aveva appena scoperto, ma per un attimo si sentì confortato da quel buio che lo circondava, scuro e freddo come il suo cuore incrinato.

Non riusciva a percepire il silenzio delle viuzze di Matera, assordato com'era dalle mille voci nella sua testa: pareri discordanti, punti di vista opposti.

Per prima cosa, sentì una sensazione viscerale di leggerezza, di libertà, che non provava da un po'. Era uscito da quella casa lasciandosi alle spalle un peso enorme, anche se fino a quel momento non si era nemmeno accorto di averlo.

Aspettative, desideri, frustrazioni celate: tutto era rimasto dietro quella porta che non avrebbe varcato mai più. Ippazio era ben consapevole di non aver mai amato Jessica ed era proprio quella consapevolezza a giustificare la presenza di quella parte di sé che si sentiva sollevata. Così non avrebbe dovuto restare legato a qualcuno che, altrimenti, avrebbe già lasciato, non si sarebbe dovuto accontentare di volerle bene e magari addirittura fingere di farlo per anni solo per il bene di una creatura messa al mondo tra una notte e l'altra di “passione”.

Ma non riusciva a far prevalere quella parte del suo cuore finalmente in pace, leggero e libero: era troppo avvelenato dalla rabbia, nera più del cielo notturno. E non era da lui: lui era un ragazzo pacifico, buono, forse troppo. Ma quello che era successo era troppo. Ed era proprio quello il motivo per cui non poteva più sopportare di essere trattato così, di essere sempre prevaricato, di diventare la vittima dei sotterfugi di qualcuno.

Ippazio era arrabbiato con Jessica per avergli mentito, arrabbiato con il suo cuore per averle creduto, arrabbiato con la sua mente per aver riposto le sue speranze in quell'essere umano mai esistito, arrabbiato con sé stesso per aver creduto di star crescendo, diventando un uomo, ed invece era stato solo illuso come un ragazzino. Il solito ragazzino che, nonostante il suo mestiere, ancora non aveva capito niente di come funzionasse il mondo, di come funzionassero le persone.

Le gambe si muovevano veloci per le stradine illuminate dai lampioni e dalle poche luci accese dietro le tende di qualche finestra. Forse, dietro quelle finestre le persone non stavano così male come lui e, per un attimo, provò un po’ di invidia per loro. Che male c’era nel non voler soffrire? In fin dei conti, aveva solo provato a vivere una vita normale, dietro la finestra di quella che era stata casa sua per un po’.

I suoi pensieri correvano veloci, disordinati, sparsi nei meandri della sua mente. Ognuno rappresentava una possibilità, una frase detta o sentita, un’azione, una voce.

La voce di sua madre si insinuò tra le altre, udiva chiaramente tutta la sua indignazione mentre gli faceva una “cazziata” delle sue, rimproverandolo di essersi fatto abbindolare da una ragazzina qualunque, senza vergogna, senza il minimo pudore o almeno un briciolo di dignità verso sé stessa. Una che non si era neanche fermata davanti alle sue parole, alle parole di una donna che voleva accoglierla nella propria casa e nella propria famiglia, proprio come se ne fosse figlia.

Ecco perché quel giorno Jessica aveva pianto, realizzò Ippazio. Non era commozione, non erano gli ormoni: era la vergogna, il rimorso di aver compiuto un'azione insulsa nei confronti di una donna più grande di lei che veramente poteva essere sua madre e che, senza alcuna remora, la stava accogliendo nella propria vita e nella propria famiglia senza neanche conoscerla di persona, solo per il bene del sangue del proprio sangue.

Per un attimo, si chiese perfino se, nel momento in cui fosse venuta a conoscenza della realtà dei fatti, per sua madre avrebbe prevalso la voglia di insultarlo per la sua eccessiva bontà o rassicurarlo dicendogli qualcosa del tipo: “Ti sei scansato un fosso”. Il pensiero del commento in dialetto della madre gli fece sollevare gli angoli della bocca in un breve sorriso.

Ma più che di domande, in quel momento aveva bisogno di risposte.

 

Col passare dei minuti, frasi, sguardi, tutto in quella confusione mentale sembrava mettersi a posto, ricostruendo il puzzle di tutta quella storia. Mille cose avrebbero potuto farlo insospettire, mille. E perché lui non aveva dubitato? Perché non aveva fatto il suo lavoro, cercando di mettere insieme le prove, i fatti?

Forse perché si era stancato di essere per tutti solo un carabiniere, ligio al dovere, senza uscire mai dai confini delle sue competenze. Per una volta voleva essere un semplice ragazzo della sua età, con un bel lavoro e una bella famiglia, o almeno sperava che lo diventasse.

Ma adesso le prove ritornavano a galla senza che potesse controllarle, spontanee come erbe selvatiche. E infatti, proprio in quel momento, gli riaffiorò alla memoria quella frase della signora Diana di pochi giorni prima, quando ci sarebbe dovuta essere la prima ecografia: “Chissà se è vero che il medico ha avuto un contrattempo”.

I suoi piedi si arrestarono e quasi non se ne accorse, rischiando di cadere. Gli mancò il fiato e si piegò in due per provare a respirare. La mano sul petto, gli occhi spalancati, pieni di lacrime. La realtà nuda e cruda si fece chiara davanti ai suoi occhi, investendolo come un secchio di acqua gelida.

La dottoressa lo sapeva.

 

Ippazio ricordò il momento in cui la dottoressa era intervenuta prima che la signora Diana potesse rispondere sul suo “Perché Jessica dovrebbe dire una bugia?”.

La signora Diana era amica di Jessica, ricordava che le era stata accanto e poteva starci che volesse coprire la sua amica, si disse. Ma perché era stata fermata dal dire la verità? Perché colei che aveva sempre odiato e, per questo, smascherato i bugiardi, adesso ne era diventata complice? Perché non aveva provato a frenarlo, ad insinuargli almeno un minimo dubbio pur di evitare che venisse fregato ancora?

Pensava che dopo averlo visto star male per Lolita, avrebbe almeno cercato di evitargli una nuova sofferenza. Ma probabilmente sarebbe stato chiedere troppo, in fondo perché mai avrebbe dovuto proteggerlo?

Senza rendersene conto, era arrivato proprio sotto casa della dottoressa. Nel corso degli ultimi anni era diventata un'abitudine fare quel percorso, che fosse partendo dalla procura, dalla caserma, da casa, sempre lì finiva. Anche se si fosse trovato in capo al mondo, ad occhi chiusi, sarebbe comunque riuscito ad arrivare lì prima o poi. E anche quella volta ci era finito. Perché anche la testa ha le sue strade del cuore.

 

Si attaccò al citofono, facendolo suonare per dei secondi interminabili finché non udì un: «Ma chi è che rompe le scatole a quest'ora?!».

«Scenda subito, dottoressa, altrimenti sveglio tutto il vicinato.» le intimò, animato dalla rabbia che non gli apparteneva, o quantomeno non apparteneva al maresciallo Calogiuri. Ma in quel momento lui non era un maresciallo dei carabinieri, era semplicemente una persona qualunque, delusa e, per questo, arrabbiata.

Dopo pochi istanti, vide Imma comparire sulle scale, con la felpona di pile, i leggings e il mollettone tra i capelli, le sopracciglia aggrottate man mano che gli si avvicinava.

«Calogiuri, che c'è di tanto urgente?» gli chiese quando gli si parò davanti, scrutando l'espressione del suo viso.

«Cosa c'è di tanto urgente?!» le fece eco, col tono più alto di un'ottava, fallendo nel celare la cadenza dialettale di Grottaminarda. «C'è che non aspetto nessun figlio.»

Imma provò ad accarezzargli una spalla, ma il giovane si scansò con un movimento brusco.

«E tu... tu lo sapevi.» aggiunse Ippazio con delusione. Dai suoi occhi acquosi cadde una lacrima che gli rigò la guancia.

La mano di Imma rimase a mezz'aria, mentre provava a formulare qualcosa da dirgli.

«Calogiuri, io...» provò a dire, ma le parole le morirono in gola.

«Io mi fidavo di te. Pensavo che almeno tu mi avresti detto la verità, invece mi hai mentito come tutti.» le disse con voce rotta, asciugandosi le lacrime col dorso della mano. L’aria fredda della sera si fece gelida sulla sua pelle umida.

«Non spettava a me dirti una cosa simile, perdonami, eh.» constatò Imma, ruvida.

«No, certo, ma potevi almeno farmi insospettire. Potevi far parlare la signora Diana quel giorno e invece no, l’hai interrotta, hai preferito che venissi ancora preso per il culo. Tanto che soffrissi un altro po', che differenza faceva per te?!» esclamò Ippazio, aprendo le braccia e scuotendo il capo.

«Ma che ne sai tu, ah?!» reagì Imma, afferrandolo per il maglione. «Come se mi avesse fatto piacere sentir dire che 'lo facevate tanto', perché miss Sicilia voleva restare incinta per davvero.» aggiunse, il sarcasmo che mascherava un fastidio più profondo e viscerale.

 

Ippazio rimase colpito, la guardò con sorpresa. Ma la rabbia era ancora troppa per poter metabolizzare e reagire razionalmente alle sue parole, finendo per non cogliere cosa gli stesse dicendo davvero. Anziché riconoscere la gelosia nelle frasi della dottoressa, ora la rabbia stava scavando un po' più indietro nella sua memoria, fino alle settimane precedenti, pronta a recriminare tutto quello che aveva finto di sopportare, ma che in quel momento rappresentava un groppo in gola, impossibile da buttar giù ancora una volta.

«Ti rendi conto che sei arrivata a dirmi che non ti sembrava una buona idea che restassi qua a Matera, accanto a te?»

Imma spalancò gli occhi, ricordando le parole che gli aveva detto nel suo ufficio poche settimane prima. Di tutte le cose che potesse dirle, Imma non immaginava sarebbe andato a ripescare proprio quella frase. Ma non poteva sapere che quella era la cosa che più gli aveva fatto male nell'ultimo periodo. Perché era stato da quel momento che Ippazio aveva iniziato a vedere suo figlio come l'unica speranza per andare avanti con la sua vita, per togliersela definitivamente dalla testa, per dimenticare quella donna che gli aveva insegnato tanto, ma che era riuscita pure a fargli provare tutto il dolore di un amore che non inizia né finisce, che si nasconde tra un sorriso e un silenzio, che fa sognare e dannare. Perché ci aveva provato, mille volte, e mai ci era riuscito. E Dio solo sapeva quanto avesse sperato che quella creatura fosse un segno del destino, una pedina nel piano di Dio per donargli la felicità che meritava. Perché, in fondo, che aveva fatto di male per non meritarsi di essere felice, qualunque fosse esso il modo?

«Quando eri stata sempre tu a dirmi che sarebbe bastato che "a trasferirsi sia lei e non te“.» citò testualmente, facendo il segno delle virgolette con le dita. «Mi hai detto che dovevo dimenticarmi di quello che era successo tra noi e me ne sono andato dall’altra parte del mondo per provare a riuscirci. Sono tornato e ho provato a rifarmi una vita, è successo tutto quel casino delle foto e mi sono pure dovuto sentir dire di averti baciata mentre dormivi. Ma ti senti quando parli? Pensavo mi conoscessi meglio di chiunque altro e invece hai addirittura pensato che potessi farti una violenza. Io che restavo ad ammirare pure la tua ombra, a distanza, senza sfiorarla. Mi hai deluso e umiliato e ti ho comunque parlato con sincerità, senza recriminare niente, e mi sono comunque dovuto sentir dire che non ti sembrava una buona idea che restassi qua. Mi mette i brividi anche solo ripensarci.» e infatti il suo corpo e la sua voce tremarono. «Quindi, esattamente, che cazzo te ne frega di quello che faccio, anzi facevo, fuori dall'orario di lavoro, eh?» le urlò. La mano di Imma, ancora sul suo petto, tremò e mollò la presa.

«Ma vaffanculo.» commentò Imma. Le uscì proprio dal cuore, per quanto sapesse che lui non aveva tutti i torti, anzi. Le sue parole erano state uno schiaffo in pieno viso, ma non poteva mostrargli quanto l’avessero colpita. Fece per girarsi e risalire verso casa, quando Ippazio le afferrò la mano e la tirò verso di sé.

«Non hai alcun diritto di farmi una scenata di gelosia, dottoressa.» le fece presente con tono nuovamente calmo, da maresciallo Calogiuri. Come fosse riuscito ad arginare la rabbia in pochi attimi fu un mistero per entrambi.

«Come siamo passati dalla tua sofferenza alla mia gelosia?» gli chiese Imma con la verve da magistrato in tribunale. Peccato che fossero per strada, da soli, senza nessuno che ne dovesse giudicare fatti o parole.

«Allora ammetti di essere gelosa.» constatò, alzando un sopracciglio.

Imma, ancora una volta, rimase senza parole, distogliendo lo sguardo da quegli occhi azzurri che tanto la rassicuravano.

Perché era vero, e forse in quel momento lo stava ammettendo anche a sé stessa per la prima volta, era gelosa. Era gelosa di Jessica, quella ragazza tanto più giovane di lei che aveva conquistato Calogiuri con la sua sensualità e glielo aveva quasi portato via con la menzogna di quel bambino, era gelosa di Lolita Tiger, quell'altra ragazzina che era riuscita a non farlo sentire solo in assenza di lei. Era gelosa perfino di quell'ignorante di Maria Luisa, che non aveva mai creduto in lui e che stava pure per sposarselo.

Era gelosa di ogni donna che riuscisse ad imporsi nella sua vita tranquilla e potesse allontanarlo da lei, perché lei lo voleva tutto per sé. Quella era la verità. Imma voleva la sicurezza di trovarselo accanto ogni singolo giorno, almeno per un po' di tempo, di poter vedere i suoi occhi limpidi, il suo sorriso accogliente e sentirsi al sicuro, rifugiandosi in lui dalla sua stessa vita. Sentendosi libera dalle paure, dai pregiudizi, dalle insicurezze che pure una donna felina, apparentemente aggressiva come lei, sentiva.

Forse non era giusto che Imma provasse quelle cose, ma dentro di sé la realtà era quella e non poteva cambiarla.

«Dimmi che non sei gelosa, dimmi che non te ne frega niente di me e me ne vado, me ne vado davvero. Dimmi che non ho nessuna ragione per restare a Matera e chiedo il trasferimento, me ne vado il più lontano possibile da qui una volta per tutte e qui non ci torno più, non mi vedrai mai più. Come se non fossi mai esistito.»

Gli occhi di Imma tornarono a guardare i suoi. Cercò di studiarli, di capire se fosse un bluff o se stesse davvero pensando di andar via. E non riuscì a leggerci niente, troppo intenta a impedire ai propri occhi di piangere. Non sarebbe stata la prima volta senza di lui in procura: lo aveva visto andare a Roma, dall'altra parte del mondo, perfino, e ogni volta si era sentita sventrata. E non ne poteva più, non poteva sopportare una nuova separazione, soprattutto se definitiva. Non poteva accettare l'idea che dalla porta del suo ufficio lui sarebbe potuto non entrarci più. E le sarebbe mancato il suo modo di bussare, il sorriso soddisfatto con cui rispondeva al suo “Calogiuri!”, il suo modo di rassicurarla e proteggerla quando si metteva nei guai, il suo sguardo vispo quando recepiva le sue intuizioni e le assecondava, gli spostamenti in auto, a volte anche in silenzio, mentre sorrideva nel guardare quel ragazzo sbocciare come un fiore, imbarazzarsi per i suoi sguardi e sorridere timidamente insieme.

Niente. Lui se ne sarebbe andato e di tutto quello non sarebbe rimasta altra traccia che il suo ricordo. Sarebbero rimaste le indagini con la Bartolini e il suo buffo accento, le guide folli con la Matarazzo a cui avrebbe sempre recriminato la dipartita del (suo) maresciallo e si sarebbe spenta un po', non riuscendo a godersi i piccoli momenti belli del suo lavoro, i momenti da “overdose di endorfine”, come diceva Calogiuri.

I brevi istanti in cui osò immaginare la sua “vita” senza di lui le sembrarono un incubo, tristi, bui, inutili. Come se calasse l’inverno su una vita che volesse fosse sempre estate. Scosse la testa, provando a scrollarsi via quei brutti pensieri.

«Non farmi questo.» esclamò Imma strizzando gli occhi e posando i palmi delle mani sulle proprie tempie per trattenere le ipotesi nei confini della mente.

«Cosa?» le chiese Ippazio.

«Privarmi di te.» rispose dopo secondi interminabili alzando nuovamente lo sguardo verso di lui.

Ippazio si illuminò, i suoi occhi divennero due fari azzurri. Posò le sue mani sui polsi di lei e glieli strinse. Con una mano le imprigionò i polsi dietro la schiena, con l'altra le afferrò il mento. E poi, senza che Imma riuscisse a prevederlo, le si fiondò sulle labbra, stringendola tra il suo corpo e il muro dell'edificio.

Dopo la sorpresa iniziale del bacio, Imma aprì le labbra e prese a baciare il suo maresciallo come aveva sognato di fare fin dalla sua prima assenza, quando aveva sperato che tornasse da lei per dimostrarle il suo amore e la sua gratitudine. Nella mente di entrambi, il ricordo sovvenuto spontaneamente della Festa della Bruna venne sostituito di secondo in secondo da quello che stavano vivendo. Sapevano benissimo tutti e due che avrebbe avuto un significato diverso, maggiore, più intenso. Imma si ritrovò senza fiato, collocata a metà tra il calore del corpo dell'uomo misto al freddo dell'intonaco.

«Non ti azzardare, hai capito?!» lo minacciò, senza lasciargli possibilità di risposta.

Stavolta fu lei a fiondarsi con voracità sulle labbra morbide del giovane, approfittando del suo momento di sorpresa per liberarsi le mani e piazzargliele tra i capelli corvini. Gli strinse i capelli tra le dita e si spalmò contro il muro per guadagnare qualche centimetro d'altezza che le permettesse di dominare un po' la situazione.

Imma gli accarezzò la schiena, le dita che scorrevano lungo il maglione, tra le scapole, sui fianchi, fino alla cintura. Mentre Ippazio le baciava languidamente il collo, le sue mani afferrarono la fibbia della cintura, slacciandola. Il solo sentire le mani di Imma in quella zona fece ansimare l'uomo. Sentirlo avere quella reazione al suo tocco fu la cosa più eccitante che Imma avesse provato negli ultimi anni.

Con l'ultimo briciolo di forza di volontà, Ippazio si staccò dal suo collo per chiederle: «Sei sicura di quello che fai? Siamo per strada.»

Due pubblici ufficiali intenti a commettere atti osceni in luogo pubblico, ecco come li avrebbero denunciati se li avessero visti lì in quel momento. Per non parlare poi di tutto quello che le avrebbero detto per corredare l’oggettività dei fatti con una bella dose di pregiudizi coloriti. “Potrebbe essere sua madre”, “Il maresciallo aspira alla scalata sociale”, “Il toyboy e la milf”. Per entrambi, quelle erano solo cazzate.

Imma non era interessata a quelle parole: si sentiva forte, di una forza incanalata negli anni di repressione dei sentimenti per quell’uomo che le stava davanti, che la faceva sentire invincibile. Si sentiva esplodere dall’amore, dalla passione, dalla felicità. Nessuno avrebbe potuto farla sentire sporca o sbagliata per quello che stava succedendo. Magari per la sua tanto amata legge non era corretto, per il suo matrimonio tanto meno, ma per la sua anima, diventare tutt’uno con l’uomo dei suoi sogni era la cosa più giusta che potesse fare in vita sua. Perché Ippazio era davvero l’uomo che aveva sognato, desiderato, aspettato e amato per anni. Che gli altri non lo sapessero o non lo capissero, non cambiava la sua realtà.

«Qui ed ora, Calogiù.» affermò Imma e lo baciò con passione. Gli infilò la mano nei jeans e si godette quei gemiti soffocati nella sua bocca.

Ippazio stava già impazzendo, non era neanche lontanamente paragonabile ai suoi sogni il modo in cui ogni tocco della sua Dottoressa mandasse in tilt ogni sua terminazione nervosa. Gli tremavano le mani, eppure riuscì ad infilarle con sicurezza sotto la felpona di pile. Ricambiò i tocchi della dottoressa, accarezzandole la sua intimità grondante, e ricevendo in cambio i suoi stessi gemiti soffocati tra i baci e i morsi.

Si sentiva già quasi al culmine della propria felicità e della propria eccitazione, quando Imma, dopo alcuni baci sul collo, risalì fino all'orecchio e gli sussurrò, con voce più roca del solito: «Fai la cosa bella.»

Ippazio sentì come una vampata dentro di sé, un moto di fuoco animò le sue azioni più delle endorfine del loro primo bacio. Era cambiato da allora, cresciuto. Non era più il ragazzino che aveva appena preso coscienza dei suoi sentimenti, era un uomo che aveva già pure ammesso la sua colpevolezza e che non vedeva l’ora di commettere tutti gli sbagli bellissimi che la sua Dottoressa volesse concedergli.

Le infilò le mani sotto la felpa gigante, la prese per i fianchi e la sollevò come fosse stata una piuma tra le sue dita affusolate.

E poi, senza preavviso, compì l'atto che gli fece guadagnare un segno profondo nell'incavo del collo. Infatti, per non urlare, la sua dottoressa lo aveva morso. E sulla sua pelle continuava ad ansimare ad ogni affondo, graffiandogli la pelle della schiena con le unghie.

Entrambi ben lontani dalla loro prima volta, si sentirono come due adolescenti alla prima esperienza. Un’eruzione di sentimenti che fece dimenticare loro il mondo che li circondava, rendendo pure un muro di strada un angolo di paradiso. Con le scintille negli occhi, l’aria fredda contro i centimetri di pelle ancora nuda, si unirono indissolubilmente.


La stanza della caserma era fredda, ma Ippazio non se ne accorse. Il sangue gli ribolliva in corpo dopo i momenti di passione con la sua dottoressa. Girava per la stanza con un sorriso a 32 denti, ricordando ogni istante di quella felicità nuova.

Non si era mai sentito in quel modo, forse perché non si era reso conto prima di quel momento cosa volesse dire “fare l’amore”. E ora lo capiva. Capiva cosa volesse dire sentirsi una cosa sola, perdere la concezione dello spazio e del tempo, essere al centro dell’universo. Non sentiva più che qualcun altro, in qualche altro posto, stava vivendo un’emozione più forte della sua, non si sentiva in debito con la vita per non star provando un’emozione per cui valesse la pena vivere.

No, anzi, in quel momento si sentiva grato di essere vivo, di aver compiuto ogni singola scelta e ogni singolo sbaglio che lo aveva portato a quella emozione. Era una felicità incontenibile, minimamente tradotta della potenza degli orgasmi, perché non si trattava affatto una cosa solo fisica, nonostante fosse ancora visibilmente eccitato, ma era qualcosa di molto più profondo.

Ogni singola parte del suo corpo e della sua anima era coinvolta da quel sentimento viscerale.

Adesso non lo credeva più, lo sapeva con certezza: era innamorato della sua dottoressa.

La sua dottoressa, con quei capelli ricci ribelli e gli occhioni giganti.

Si spogliò e si infilò sotto la doccia. Avrebbe potuto dormire qualche ora prima di andare al lavoro, ma l’adrenalina era troppa e non glielo avrebbe concesso. Il getto d’acqua calda rassicurante non fece che prolungare le emozioni del suo corpo, ancora così ricettivo al solo pensiero di quanto successo poco prima.

Nudo, davanti allo specchio, ancora bagnato, si sentì forte, potente, sicuro di sé. La sua postura non era più chiusa, curva, in attesa, anzi. Era finalmente accogliente, distesa: la testa alta, le spalle dritte, il petto in fuori. I graffi, i morsi, tutti quei segni rossi sulla pelle erano come medaglie sulla divisa. Ne era orgoglioso, rappresentavano un sogno diventato realtà, una realtà migliore di qualsiasi sogno, di qualsiasi fantasia.

Tra i pochi abiti che aveva lasciato nella sua vecchia stanza in caserma, c’era un maglione a girocollo nero. Si asciugò e lo indossò, rendendosi conto di quanto precisamente lasciasse in bella vista quei segni.


«Buongiorno, dottoressa.» la accolse una voce familiare nell'auto di servizio, pronta per il sopralluogo sulla scena del crimine poco fuori città. Imma si accomodò sul sedile del passeggero, si aggiustò la sciarpa con cui si era protetta dal vento e richiuse la portiera dietro di sé.

«Buongiorno, Ca-» fece per rispondergli, ma si interruppe. «Che cos'hai lì?» chiese indicando il segno largo e rossastro sull’incavo del collo del maresciallo.

Ippazio scostò un po’ il maglione girocollo, per mostrarlo meglio, con uno sguardo e un sorriso fieri come mai li aveva visti. Il sorriso innocente e timido di Calogiuri era illuminato da una luce maliziosa che non gli aveva mai visto. E che a Imma fece subito arrossire.

«Una cosa bella.» rispose soddisfatto, mostrandole sulla pelle con orgoglio il segno della sua felicità. «Te l'hanno mai detto che sei pericolosa, dottoressa?»

«No, ma c’è sempre una prima volta.» gli sorrise, sfilandosi la sciarpa dal collo. «Però facciamo che lo sappiamo solo noi.» gli disse avvicinandosi per appoggiandogliela sul collo, coprendolo minuziosamente con la stoffa.

«Sarà un onore avere il tuo profumo addosso tutto il tempo.» rispose Ippazio, approfittando della vicinanza per darle un bacio veloce. Altro che sciarpa della Bartolini per il torcicollo, questa non gliel’avrebbe restituita facilmente.

«Se non ti muovi a partire e, soprattutto, a stare fermo, a lavoro non ci arriveremo mai.» commentò rimettendosi dritta sul suo sedile, reprimendo a forza ogni istinto di rispondere a quel bacio e non solo.

«Va bene, va bene.» accettò Ippazio, ma il suo sguardo malizioso non prometteva niente di buono.




L'ANGOLO DELL'AUTRICE.

Cosa non si fa per i Calaranni: i primi a farmi viddare da un programma professionale, i primi a farmi (ri)tornare su EFP per pubblicare una one shot.
Questa storia era nelle note del mio telefono da quasi un anno, da quando è andata in onda la 2B e abbiamo visto la trama della finta gravidanza di Jessica. Non avere un vero confronto sulla questione della paternità è stato uno spreco, gli spettatori lo meritavano. Nel mio piccolo, però, non ho voluto sostituirmi agli autori in questo compito, quanto più focalizzare l'attenzione sul comportamento di Imma, che sapeva la verità e non ha detto nulla a Calogiuri.
Come detto, è vero che non spettava a lei confessare la cosa, ma volevo che Calogiuri se ne ricordasse. Purtroppo in questa parte della stagione Ippazio non è stato trattato come meritava da Imma, anche il fatto che lei pensasse che lui l'avesse baciata di nascosto mentre dormiva è stato davvero un grosso errore. E un Calogiuri più "cazzimmoso" le avrebbe recriminato quest'ingiustizia.
Ed ecco che, dopo la notizia della sua non paternità, Calogiuri si "spoglia" della sua bontà e apre gli occhi su tante parti della realtà che lo circonda.
Che i litigi con Imma si trasformino in momenti di passione, è solo una normale conseguenza, che spero di vedere realizzata nella serie il prossimo settembre.
Nell'attesa, ci consoliamo così.

Se vi va, qui trovate i miei video Calaranni su Youtube:
Guilty.
Godsend.

Alla prossima,
Alessia.
  
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