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Autore: Afaneia    20/07/2023    5 recensioni
[Storia partecipante agli Oscar della Penna sul forum Ferisce la Penna.]
Dopo i combattimenti navali del primo libro, i sogni di Stephen sono pieni di sangue.
Jack se ne accorge.
(Ambientato all'inizio di Costa Sottovento)
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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(In)somnia


Lasciami solo gettare un grido abbastanza alto perché lo possano sentire!

André Gide, Diario, 9 maggio 1889.



Una fatica pesante. Pesante. E all’improvviso Stephen notò che anche gli ufficiali remavano. Si diresse verso uno dei pochi posti rimasti liberi e, dopo quaranta minuti, i palmi delle sue mani sanguinavano.


Si sveglia talora di notte con le mani che gli prudono e gli dolgono come se sanguinassero ancora.

Non urla neppure. Si sveglia di soprassalto senza urlare, con le pulsazioni accelerate che paiono percuotergli direttamente la gola, e affannosamente si gira gli occhi attorno alla luce scarsa della luna: ma non c’è sangue sulle lenzuola. Non ce n’è neppure sulle sue mani: sono asciutte, pulite, e sui suoi palmi spiccano soltanto pallide cicatrici sottili come filo da cucito.

Non sempre si ricorda dov’è o riconosce dove si trova. L’angolazione del suo letto, al buio, lo confonde; a poco a poco, quando i suoi occhi si abituano all’oscurità, Stephen inizia a riconoscere il profilo dei mobili. Allora si ricorda di essere nella sua stanza a Rainsford, che Jack Aubrey dorme due stanze più in là, e che non sono in guerra. Non in questo momento. Non lì. Non c’è sangue né rombo di cannoni: c’è lui soltanto, solo nella notte sconfinata che sembra non trovar fine nel tempo né nello spazio.

La solitudine, forse paradossalmente, lo tranquillizza: non vuole che nessuno lo veda così. Che annaspa nel buio in cerca di sangue che non è davvero sulle sue mani e che sente nelle orecchie il boato di cannoni lontani.

Si alza dal letto nel cuore della notte e si getta sulle spalle una vecchia vestaglia lisa e macchiata dal tempo. Sullo scrittoio, nella luce livida della luna, c’è il suo diario ancora aperto. Stephen ne scorre le pagine con la punta delle dita: l’ultimo disegno è quello di un piccolo fungo bianco ripreso in sezione, con scritto sotto Agaricus Georgii. Gli sembra d’averlo disegnato una vita fa; eppure è stato poco prima di dormire. Forse gli farebbe bene scrivere dei suoi sogni; ma se ne scrivesse allora diventerebbero reali e resterebbero reali per sempre.

Stephen richiude di scatto il diario e scende al piano di sotto.

Nel camino le braci del fuoco rosseggiano ancora. Stephen le smuove appena con l’attizzatoio, ma non perché senta freddo – il suo è bisogno di luce, anche se non lo direbbe mai ad alta voce.

Appoggia la fronte contro la pietra tiepida sopra il camino. Il suo petto si gonfia e si sgonfia nell’odore del fumo e della fuliggine, lentamente, e Stephen chiude gli occhi e ascolta il ritmo del suo respiro farsi più regolare. È sveglio. Non ci sono incubi, adesso – non c’è sangue. A poco a poco andrà meglio. È quello che si ripete tutte le notti.

«Fame anche tu, eh?»

Stephen grida. È ignominioso, avvilente: un grido solo, di pura sorpresa, che gli viene strappato dal petto. Quando si volta di soprassalto dopo aver gridato, ansimando, Stephen si trova davanti Jack Aubrey che lo fissa attonito.

È in vestaglia anche lui, in piedi con un piatto in mano. È stupefatto, stranamente imbarazzato come se fosse lui a esser stato sorpreso nell’atto infamante di urlare per la sorpresa. Stephen si porta una mano al petto perché ha il cuore che minaccia di sfondargli la cassa toracica; vorrebbe dire qualcosa, tentare di giustificarsi per quella che gli pare un’imperdonabile debolezza davanti alla presenza maschia, inflessibile di Jack; ma non ha voce né parole.

Vorrebbe soltanto che non lo vedesse così com’è ora. Che ha paura delle voci e delle ombre e si sveglia vedendo sulle proprie mani sangue che non c’è.

«Stai… ehm» inizia Jack, tentando di darsi un contegno. «Va tutto bene, Stephen?»

Sarebbe così risibilmente semplice dire di no. Che non sta bene lui e non va bene niente e che le sue notti sono popolate da cannoni e sangue; ma occorre un certo coraggio per dirle, quelle parole. Stephen questo coraggio non ce l’ha.

«Sì... scusa, Jack. Ero sovrappensiero.»

La sua bugia rimane sospesa tra di loro in un limbo di tempo. Prigioniera del suo orgoglio e della sua umiliazione e della pretesa di virilità che a ogni costo devono mantenere.

Stephen guarda la sua menzogna farsi strada poco alla volta attraverso gli occhi di Jack, ed entrambi sanno che Jack sa che lui ha mentito – ma anche quella consapevolezza è prigioniera delle loro aspettative, come la bugia, e non può districarsene.

«Giusto» risponde Jack. Guarda il piatto che ha in mano, ci pensa un momento e riprende: «Ehm. Vuoi mangiare qualcosa?»

Stephen si sforza di sorridere, scuote la testa e gli dà la buonanotte prima di risalire. Sa che non dormirà, ma non se la sente di restare lì. A parlare con Jack a voce troppo alta per farsi sentire attraverso le proprie bugie, come al di sopra di un tavolo troppo largo che li separa.


La volpe è sgusciante.

L’ultima volta che ha partecipato a una caccia alla volpe, Stephen è stato rimproverato per qualcosa – non che abbia ancora ben capito di cosa si trattasse. Comunque, per sicurezza, questa volta ha deciso di rimanersene un po’ a distanza, su una collinetta sopraelevata dalla quale ha un’ottima visuale sull’affannarsi dei partecipanti. L’aria è particolarmente gradevole, stamattina. È rassicurante. Per la prima volta da molti giorni, Stephen si sofferma a osservare una cincia particolarmente grossa che lo osserva a sua volta dal ramo di un albero con occhi vivaci.

Trema l’aria del boato di uno sparo.

D’un tratto il terreno è stranamente vicino. Non si rende conto all’istante di essere scivolato giù da cavallo: prova la sensazione dell’erba contro le ginocchia, sotto il palmo delle mani, e d’un tratto si sente in gola un respiro affannoso e raschiante e il petto privo di aria. Tutto risuona lontano, ovattato: il gracchiare dei corvi e le grida dei cacciatori e il latrato dei cani – tutto proviene da un altro mondo, da un’altra vita a cui lui non appartiene più. Si solleva sulle ginocchia come se potesse cercare con lo sguardo quell’aria che i suoi polmoni non trovano – ma l’aria non c’è. C’è solo lui, solo, nella campagna che appare sconfinata.

Sente una voce che grida dottore!, ma non si volta. Tutto proviene da una distanza così grande che, se si voltasse, non troverebbe nessuno a chiamarlo.

«Dottore!» Sente le mani del dottor Vining sulle sue spalle che cercano di trascinarlo in piedi e riportarlo al mondo e alle voci ovattate. Sta chiamando lui. Deve rispondere, parlare, ma i suoi polmoni non contengono aria a sufficienza e la sua bocca si dilata senza che riesca a ingerirne. Fissa in faccia il dottor Vining senza riconoscerlo davvero. «Dottore, si sente bene? Riesce a sentirmi? Ehi, laggiù, qualcuno può venire a…»

Stephen vede la propria mano come se fosse quella di un altro che appare dal niente nel suo campo visivo e si aggrappa alla marsina del dottore.

«Non chiami.»

Ha sussurrato senza pensare, ma non a caso: non vuole che nessuno lo veda così. No – non è esatto – non vuole che Jack lo veda così. Il dottor Vining ammutolisce all’istante.

«La prego, mi aiuti soltanto a risalire.»

Il collega lo aiuta a issarsi di nuovo in sella senza un commento. Stephen dubita che abbia capito cos’è successo, ma gli è grato della sua gentilezza. Si issa in sella goffamente, addossandosi al collo del cavallo, e gli rivolge un cenno di ringraziamento col capo. Più di questo non è in grado di fare. Si guarda le mani, aggrappate alle redini in un gesto spasmodico: sono contratte ma tremano. Gli viene quasi da ridere perché per un attimo, prima di guardarle, s’era immaginato di trovarle insanguinate.

«Dottor Maturin, se posso…» Il dottor Vining si schiarisce la gola: è evidente che non sa neanche lui come dirlo. «Se vuol passare a trovarmi nel mio studio, potrei avere un preparato che fa proprio al caso suo. Se vuole…”

Stephen sorride senza amarezza, scuote la testa. Non gli serve nessun preparato. Non vuole rendere le cose più reali e umilianti di quanto già non siano. Gli passerà. È già abbastanza fortunato da essere lì, tutto intero, ed essere vivo. Non ha bisogno di compassione né di aiuto.

«La ringrazio, dottore, ma non credo che ne avrò bisogno. È solo un po’ di stanchezza. Mi farebbe un gran piacere se non ne parlasse con nessuno.»

Il dottor Vining lo fissa con preoccupazione: Stephen è certo che non gli abbia creduto. D’altronde chi gli crederebbe? «Come vuole lei, dottore.»

Stephen è troppo occupato per rispondergli adesso. Il suo sguardo è rivolto in basso, al di sotto della collina, perché Jack è immobile a cavallo e lo sta fissando, e dall’espressione dei suoi occhi Stephen sa che ha visto tutto e che è spaventato.


Jack lo raggiunge inseguendolo su per le scale a grandi falcate. Stephen aveva quasi sperato di sfuggirgli: è venuto via prima, di nascosto, dalla battuta di caccia, pregando il dottor Vining di porgere le sue scuse, se necessario. Ma in fin dei conti lo sapeva che Jack l’avrebbe seguito.

«Stephen…»

Stephen si arresta sulle scale chiudendo gli occhi.

«Scusami, Jack. Non mi sento tanto bene.»

«Lo so questo. Parliamone. Stephen, l’ho visto accadere altre volte.»

Ma certo che l’ha già visto accadere, Stephen non ha dubbi su questo. Che abbia visto marinai e ufficiali e chirurghi della Marina deboli e fragili perdere i nervi e forse la testa al minimo rumore, abbandonare il servizio, lasciare il mare: certo che l’ha visto accadere.

Il problema è che Stephen non vuole che Jack pensi questo di lui.

«Va tutto bene, Jack.»

Jack lo afferra per le spalle per costringerlo a guardarlo. A quel gesto brusco Stephen sobbalza, non grida solo perché trattiene il respiro; anche di questo Jack si accorge e Stephen vorrebbe non averlo fatto. Jack ha la faccia arrossata e congestionata dalla caccia e dall’agitazione.

«Stephen.» La sua voce è stranamente calma in contrasto col suo viso. In lui non c’è traccia dell’incertezza della terraferma adesso – è risoluto e padrone della situazione come quando è in mare. «Ci siamo passati tutti. A volte le battaglie sono… non importa. Sono quello che sono. Ma ti prego, lascia che ti aiuti.»

Una parte di lui vorrebbe dire di sì perché è così stanco di non dormire più. Forse se accettasse di parlarne il sangue dai suoi incubi se ne andrebbe e lui potrebbe dormire ancora – ma Stephen è troppo ferito dalla vita per non sapere cosa si cela dietro quella debolezza. Jack lo ascolterebbe e forse neppure lo giudicherebbe, ma intanto lo vedrebbe come nudo per quello che è – debole – e Stephen non può spogliarsi così dell’ultimo velo che lo nasconde ai suoi occhi.

Sfila le spalle dalla presa delle sue mani senza bisogno di strattonare. Jack lo lascia andare come in una resa.

«Jack, davvero, non importa» risponde sforzandosi di sorridere. «Ho solo bisogno di una nottata di sonno.»


Il sonno non viene, ovviamente. È stato sciocco da parte sua sfidarlo apertamente, ad alta voce, davanti a Jack; ma in fondo è meglio così. Dormire non ha senso se la prospettiva è quella di sognare del sangue. C'è sempre la boccetta di laudano invitante sul comodino, ma stavolta non ha alcuna attrattiva: è bene non provocare gli incubi.

Stephen si distende sul letto ancora vestito e aspetta. A tratti ha quasi paura di rischiare di addormentarsi: in fondo è stanco dopo la giornata, il suo corpo vorrebbe dormire. È lui che non vuole. Il pensiero di dormire lo spaventa più del ricordo dei cannoni, adesso. Tiene gli occhi fissi sulla lampada accesa: magari la luce lo terrà sveglio.

Non saprebbe dire dopo quanto tempo inizia a sentire il violino. All’inizio non lo distingue subito con chiarezza dai rumori della notte: la musica è sottile come un rivolo d’acqua, cristallina come una sorgente. A poco a poco Stephen si ritrova perfettamente sveglio, attento, seduto sul letto ad ascoltare il violino di Jack che suona nella notte per continuare a farsi ascoltare attraverso la porta che lui gli ha chiuso in faccia.

Alle parole con cui Jack ha scelto di parlargli Stephen non ha bisogno di rispondere: in quella conversazione a un solo senso non è costretto a mostrarsi debole. Può limitarsi ad ascoltare.

Stephen torna a distendersi al buio sul letto, ancora vigile ma solo un po' più rilassato, per ascoltare. Al suono di questa musica potrebbe anche correre il rischio di dormire, e forse persino quello di svegliarsi nel buio - ha la sensazione che Jack continuerà a suonare ancora per un bel po'.

   
 
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