Libri > Il Signore degli Anelli e altri
Ricorda la storia  |      
Autore: Losiliel    30/07/2023    1 recensioni
Circa mezzo secolo dopo il Risveglio degli Elfi presso Cuiviénen, i giovani Finwë ed Elwë partono con Ingwë al seguito di Oromë. Destinazione: Aman. Dopo aver affrontato con coraggio un lungo e pericolosissimo cammino attraverso la Terra di Mezzo, davanti all’ultimo e più grande ostacolo le certezze dei due amici rischiano di vacillare.
.
[ Finwë & Elwë | Terra di Mezzo | primo invito dei Valar ]
Genere: Avventura, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Finwë, Ingwë, Oromë, Thingol
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



A UN PASSO DALLA META

dedicato a chi ama gli Elfi che all’invito dei Valar hanno detto no

 


 

La terra tremava sotto i suoi piedi.

Schianti di rami che si spezzano, chiome di alberi che si piegano fin quasi a raggiungere il suolo.

Il bosco cedeva davanti al mostro che avanzava.

Era uno di quelli grossi.

– È uno di quelli grossi – disse al suo compagno, che nel loro collaudato schema di caccia gli proteggeva il fianco sinistro.

Non ricevendo risposta, azzardò un’occhiata di lato e scoprì che il suo compagno non gli stava affatto proteggendo il fianco sinistro.

Per essere più precisi, il suo compagno non era neppure in vista.

Dov’era andato a cacciarsi, questa volta?

Finwë si rassegnò ad affrontare la carica da solo. Rimise l’arco sulle spalle e afferrò la lancia, conficcata in terra accanto al fuoco ormai spento del loro ultimo accampamento. Le stelle illuminavano la radura in cui si erano fermati a riposare, ora tristemente vuota.

Gli schianti si fecero più vicini. I tonfi sordi che accompagnavano ogni sussulto del suolo non lasciavano dubbi: la belva era lanciata al galoppo. Un grosso ramo completo di foglie schizzò dalla sua parte.

Finwë lo schivò e si mise in guardia, tallone destro piantato nel terreno, presa salda sull’asta della lancia, braccio piegato all’indietro. Pronto ad affrontare qualsiasi cosa stesse per arrivargli addosso.

Un’ombra tra gli alberi fu sufficiente a mostrargli alcuni particolari dell’infuriato quadrupede per nulla rassicuranti: corte zampe spesse come tronchi e un corpo che in quanto a dimensioni avrebbe fatto vergognare il cavallo della loro divina guida. Che riuscisse a mantenere una velocità così sostenuta era un’offesa alle leggi che governavano il mondo.

Si chiese per l’ultima volta dove fosse il suo compagno, poi la belva irruppe nella radura e ogni suo pensiero evaporò come una goccia d’acqua davanti al sacro fuoco dell’istinto di sopravvivenza.

Il colosso ambulante che minacciava di farlo diventare un tutt’uno col terriccio del sottobosco era rivestito da una corazza scura come basalto e, a occhio, altrettanto dura. Finwë giudicò che non l’avrebbero trapassata nemmeno le frecce indistruttibili che il Grande Cavaliere aveva portato dalla sua terra – frecce che comunque avevano terminato durante l’ultimo attacco, quando un orso grosso come una capanna gli aveva quasi staccato la testa con un colpo di artiglio.

Doveva mirare agli occhi, non c’era altro modo.

Certo sarebbe stato di enorme aiuto capire dove fossero, gli occhi.

Il muso era tutto un susseguirsi di pieghe e di grinze in cui non si riusciva a distinguere altro. In più, aveva un corno che gli nascondeva parte della faccia e… una corda in bocca?

– Alla golaaaa!

Un urlo che era per metà un ordine e per metà una supplica sovrastò il frastuono della carica.

La belva alzò la testa di scatto, tirata indietro da colui che impugnava i due capi della corda e che sedeva a cavalcioni sul suo collo.

Finwë non ebbe il tempo di chiedersi come ci fosse arrivato, il suo compagno, a cavallo del mostro. Sulla gola della belva si scoprì una sottile striscia di pelle chiara che attirò tutta la sua attenzione.

Ecco il bersaglio. La sua unica possibilità di sopravvivere.

Finwë scagliò l’arma con tutta la forza e la precisione di cui era capace.

La punta della lancia si conficcò nel collo dell’animale, l’asta affondò fino a metà della sua lunghezza. La belva si ripiegò su sé stessa e terminò la sua corsa distruttrice stramazzando al suolo.

Il quendë che gli stava sulla groppa venne catapultato in avanti e atterrò poco distante da Finwë, rotolando elegantemente sulla schiena e rialzandosi con un agile scatto di cui – Finwë lo sapeva – si sarebbe vantato a lungo.

Fianco a fianco, guardarono la bestia esalare il suo ultimo, gorgogliante respiro.

A pericolo scampato, Finwë si voltò verso il compagno pronto a dirgli cosa pensava di lui con parole scelte con cura tra le peggiori di sua conoscenza.

L’altro gli restituì lo sguardo scuotendosi la terra di dosso. Aveva foglie impigliate tra i capelli chiari e un taglio sullo zigomo destro che faceva il paio con uno più vecchio, in via di guarigione, su quello sinistro. Il suo sorriso compiaciuto illuminava la radura.

Tra il sollievo di trovarselo davanti sano e salvo e quello, non meno intenso, di non essere stato ridotto a una poltiglia agonizzante sul terreno, Finwë scoprì che riuscire a rimanere in collera con l’amico era un’impresa che andava oltre le sue capacità.

Ci provò comunque.

– Elwë! – gridò, – si può sapere dov’eri?

Elwë allungò un braccio in direzione della carcassa. – A salvarti la vita.

– A me sembra esattamente il contrario.

– Ma che dici, Fin? – ribatté l’amico, tranquillo come se invece di aver appena rischiato la vita abbattendo un colosso di basalto fosse andato a caccia di lepri per cena, – l’ho sentito arrivare e l’ho preso di sorpresa.

– Di certo hai preso di sorpresa me – borbottò Finwë, che sentiva già gli angoli della bocca piegarsi verso l’alto.

Per non farsi vedere andò a recuperare la lancia. Afferrò la parte di asta che usciva dalla carcassa e, puntando un piede contro la sua pelle coriacea, tirò con entrambe le mani. L’arma non voleva saperne di uscire, era scesa così in profondità da essersi incastrata nell’osso. Quando riuscì a svellerla, venne fuori all’improvviso, seguita da un fiotto di sangue scuro.

La punta era piegata.

– Indovina a chi toccherà sistemarla? – brontolò Finwë, ma la sua lamentela fu coperta dal gracchiare sinistro che annunciava l’arrivo dei corvi.

– Forza, andiamocene – disse Elwë, – presto arriveranno cose peggiori.

Fece il giro della radura per recuperare le sue cose e solo in quel momento sembrò accorgersi dell’assenza dei loro compagni.

– Dove sono gli altri? – chiese.

Finwë indicò il profilo delle colline che si stagliava davanti a loro. Sul crinale, contro il cielo stellato, s’intravedevano due sagome, una più imponente, l’altra più bassa e sottile.

– Sono andati in avanscoperta – rispose. – A quanto pare, siamo a un passo dalla meta.

Nel dirlo, la sua voce tremò un poco, tanta era l’impazienza con cui aveva atteso quel momento.

Finwë non si era mai pentito di aver accettato l’invito del Grande Cavaliere, nemmeno una volta, nonostante i pericoli ai quali erano andati incontro.

Il lungo viaggio, che li aveva portati alla scoperta di creature sconosciute e di territori mai visti prima, aveva saziato la sua inesauribile curiosità molto meglio di quanto potessero fare le sponde del lago presso il quale era cresciuto, che ormai conosceva così bene da essergli venute a noia. E la compagnia era piacevole e stimolante. Lui e Elwë erano amici da sempre, al punto che non avevano bisogno di comunicazione per capirsi, né verbale, né mentale. Ingwë era meno impulsivo, rifletteva a lungo e parlava poco, ma quando lo faceva la profondità del suo pensiero si manifestava in conversazioni brillanti, spesso tinte di un’arguta ironia. Il Grande Cavaliere, infine, conosceva tante di quelle storie che si poteva stare ad ascoltarlo per molti giri del cielo senza annoiarsi mai.

E quando le condizioni lo permettevano, nei rari momenti di quiete, tramite la condivisione del pensiero mostrava loro scorci della meravigliosa terra verso la quale erano diretti: distese di verde che si perdevano all’orizzonte, punteggiate di fiori dai colori mai visti, sotto una luce così intensa da ferire gli occhi. E ruscelli trasparenti come l’aria, su cui quella luce giocava a rincorrersi, e alberi così alti che parevano innalzarsi fino al cielo.

E il cielo era azzurro.

Per i tre quendi, il desiderio di raggiungere quella terra si era fatto ogni tappa più acuto. Era quel desiderio che li aveva spinti avanti, contro ogni difficoltà, ogni scossa del terreno, ogni belva infuriata o infida creatura. Oltre ogni ostacolo.

Ma Elwë, ora, sembrava non condividere la sua impazienza.

– A un passo dalla meta? – disse, infatti. – Di già? Pensavo avessimo ancora un po’ di tempo per esplorare i dintorni. Laggiù c’è un bosco…

– Ma quale bosco, El! – esclamò Finwë, e questa volta non dovette sforzarsi di fingere un tono irritato, – abbiamo appena rischiato di essere schiacciati dalla carica di una montagna semovente!

Tu hai appena rischiato – precisò Elwë, – io avevo tutto sotto controllo.

Finwë scosse la testa, deciso a non farsi coinvolgere in un nuovo battibecco, e cominciò a risalire il pendio. Elwë non fece altre obiezioni, recuperò la sua sacca e le sue armi e lo seguì.

Finwë era più forte e più preciso quando si trattava di usare la lancia o le frecce, ma Elwë era più agile e più veloce e in breve tempo lo raggiunse e lo superò. Ma quando arrivò sulla sommità dell’altura, in un punto poco distante da quello dove sostavano i loro compagni, Finwë lo vide bloccarsi all’improvviso, il corpo leggermente sbilanciato all’indietro, le mani alzate davanti a sé, come se fosse andato a sbattere contro un muro invisibile.

Qualcosa l’aveva colto di sorpresa, ed Elwë non era uno che si impressionava facilmente. Forse si scorgeva davvero la meta dalla cima della collina!

Finwë fece l’ultimo tratto quasi di corsa, si fermò al suo fianco e guardò oltre il crinale.

E non capì ciò che vide.

Sulle prime pensò di essere arrivato alla fine del mondo. Una tavola nera come i più profondi abissi si estendeva fin dove l’occhio riusciva a vedere. Nero come il fondo dei crepacci delle più alte montagne che avevano attraversato per giungere fin lì, nero come le profondità dei baratri che tagliavano il suolo dopo un terremoto.

Finwë fu preso dalle vertigini e sentì le ginocchia cedergli. Si sarebbe appoggiato a Elwë per avere supporto, ma l’amico gli aveva già afferrato un polso, probabilmente per lo stesso motivo.

Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro, poi li riaprì tenendoli fissi sui suoi piedi.

Terra. Sotto i suoi piedi c’era ancora la solida terra.

Poco alla volta permise al suo sguardo di allontanarsi. Ecco il dirupo sotto di sé, i radi arbusti che si abbarbicavano al pendio, e più avanti il terreno bruno, con tutte le sue imperfezioni, i massi, i rovi, i fossi.

Poi, ad un tratto, tutto finiva, sostituito da una distesa di tenebra.

Ma sul confine tra il mondo come loro lo conoscevano e quell’immensa superficie buia, Finwë riuscì a distinguere una linea sottile che rifletteva la luce delle stelle. Una linea discontinua, tremolante, che pareva avanzare e ritirarsi, avanzare e ritirarsi.

Non poteva che essere…

– È acqua? – mormorò Elwë, che aveva allentato la presa sul polso di Finwë quel tanto che bastava per scendere a prendergli la mano.

Finwë annuì. – Ma come può essercene tanta? Un lago di quelle dimensioni… quante sorgenti servirebbero per alimentarlo?

– Abbiamo sbagliato strada – decretò Elwë.

Finwë non poté che trovarsi d’accordo. Per quanto sembrasse impossibile che l’essere divino che faceva loro da guida avesse smarrito la strada di casa, l’ipotesi era di gran lunga più affrontabile del pensiero di dover oltrepassare ciò che avevano davanti.

L’essere divino in questione si materializzò a pochi passi da loro – come potesse muoversi così silenziosamente una creatura tanto imponente era uno dei misteri che Finwë non era ancora riuscito a risolvere – seguito altrettanto silenziosamente da un quendë dai capelli biondi e dai luminosi occhi celesti, ora completamente catturati dal panorama sottostante.

– Quello è il mare – dichiarò il Grande Cavaliere, e inspirò profondamente. Il suo ampio torace si gonfiò, mettendo in evidenza i muscoli possenti e facendo fare strani giochi ai disegni che li ricoprivano. – Udite il canto delle onde, la carezza della spuma sulle rocce, la voce acuta del gabbiano. Sentite l’odore della brezza salmastra.

La loro guida inclinò la testa all’indietro, come per godere meglio di suoni e di profumi che sentiva solo lui, e le mille trecce che gli imbrigliavano i capelli gli scivolarono sulle spalle.

La vicinanza alla sua terra, evidentemente, lo metteva di buon umore. Finwë non l’aveva mai visto così eccitato, sempre teso com’era alla loro protezione. Già il fatto che si fosse allontanato senza di loro per andare in avanscoperta era un segnale di quanto fosse impaziente di tornare a casa.

– La nostra meta ci attende, amici! – esclamò il Cavaliere, e così dicendo cominciò a scendere il declivio in direzione della tavola nera, con balzi poderosi e incredibilmente silenziosi.

Ingwë lo seguì con agili volteggi, senza la minima esitazione.

Finwë cercò di farsi contagiare dal suo entusiasmo e di muoversi a sua volta, ma le gambe non ne vollero sapere.

– El, secondo te ci possiamo fidare? – chiese, con lo sguardo fisso sui due compagni che si facevano sempre più piccoli via via che scendevano.

L’amico restò in silenzio per qualche istante.

– Ci ha fatti arrivare fin qui – disse, alla fine, – ci ha insegnato come sopravvivere da soli… perché avrebbe dovuto disturbarsi tanto se il suo scopo era farci morire annegati?

Parole che avevano un senso, ma intanto Elwë non si era mosso di un passo. E non aveva nemmeno lasciato andare la sua mano.

Finwë si voltò a guardarlo in viso, per cercare una conferma nel suo sguardo.

Avevano gli occhi dello stesso colore, loro due. Se n’erano accorti da piccoli, quando eludevano la sorveglianza degli adulti e andavano in cerca di avventure sulle sponde del lago. Una volta, specchiandosi nelle sue acque sotto un cielo affollato di stelle, avevano notato che entrambi avevano le iridi grigie che sfumavano nell’azzurro vicino al bordo. “Potremmo essere fratelli” aveva detto Elwë col suo sorriso sincero, e Finwë era scoppiato a ridere perché lui aveva i capelli neri come l’ombra mentre il suo amico, invece, li aveva grigi chiari come i ciottoli in riva a quello stesso lago. Però nel profondo si era commosso, perché lui un fratello non ce l’aveva, né mai l’avrebbe avuto, perché i suoi genitori erano scomparsi poco dopo la sua nascita.

Il ricordo di quel lontano giorno sul lago non mancava mai di rincuorare Finwë, perché gli assicurava che poteva anche non aver più una famiglia, ma non sarebbe mai stato solo.

Eppure in quel momento, davanti al limite del mondo, il dubbio lo avvinse e gli sembrò che un’ombra fosse calata a velare gli occhi chiari dell’amico.

Doveva essere il riflesso di quella tavola nera, nient’altro.

– Insieme? – chiese, tanto per essere sicuro.

– Sempre – confermò Elwë stringendo la mano che li univa.

L’ombra nel suo sguardo indugiò ancora qualche istante, poi Elwë la scacciò con un sogghigno.

– Sempre che tu riesca a starmi dietro! – precisò. E si lanciò giù per la scarpata.

Finwë si gettò all’inseguimento; la sgradevole sensazione di un infausto presagio del tutto dimenticata.

Erano a un passo dalla meta.

Erano insieme.

E per quanto fosse impaziente di raggiungere la loro destinazione, Finwë non aveva dubbi su quale delle due cose fosse la più importante.




 

 


Note

Grazie per aver letto!

1.
Due parole sul perché non è inverosimile che i genitori di Finwë fossero scomparsi.
Dice il Silmarillion che, alla comparsa degli Elfi nella Terra di Mezzo, Melkor “inviò ombre e spiriti malvagi a spiarli e irretirli. E così accadde, alcuni anni prima che giungesse Oromë, che se qualcuno degli Elfi si allontanava di molto, solo o con pochi altri, sovente scomparisse, senza fare più ritorno”. (Silmarillion, cap. III - L’avvento degli Elfi e la cattività di Melkor)

2.
“Grande Cavaliere” (Great Rider), è uno dei primi nomi che gli Elfi hanno dato a Oromë, perché si aggirava per la Terra di Mezzo sul suo cavallo Nahar.

3.
La grande amicizia tra Finwë ed Elwë è citata da Tolkien in numerosi passaggi. Nell’improbabilissima ipotesi che non li ricordiate, eccone alcuni.
Durante la Grande Marcia, i Teleri sostarono a lungo sulle rive dell’Anduin, non essendo troppo entusiasti di oltrepassare le Montagne Nebbiose, e arrivarono nel Beleriand con qualche anno di ritardo rispetto ai Vanyar e ai Noldor. Quando si decisero a lasciare il Grande Fiume, lo fecero solo perché incalzati dal loro re Elwë, il quale “wished not to be sundered from the Noldor, for he had great friendship with Finwë their lord” (HoME vol. 10, The Annals of Aman)
Arrivati nel Beleriand, i Teleri si assestarono presso il fiume Gelion, mentre i Noldor dimoravano più vicino alla costa. In questo periodo,“Elwë, signore dei Teleri, spesso andava al di là dei grandi boschi a cercare Finwë, l’amico suo, nelle sedi dei Noldor” (Silmarillion, cap. IV - Thingol e Melian)
A Valinor, dopo l’arrivo di Vanyar e Noldor, “Ulmo prestò orecchio alle preghiere dei Noldor e di Finwë loro re, che soffrivano per la lunga separazione dei Teleri,” e si mosse per far sì che anche i Teleri raggiungessero Aman. E quando finalmente anche i Teleri arrivarono a Valinor, “Finwë si addolorò […] quando seppe che Elwë era stato abbandonato rendendosi conto che non l’avrebbe rivisto se non nelle aule di Mandos”. (Silmarillion, cap. V - Eldamar e i Principi degli Eldalie)

4.
Non mi sembra ci sia un punto in cui viene precisato come Ingwë, Finwë e Elwë raggiunsero Valinor per la prima volta (ma se invece c’è, vi prego di farmelo sapere). Io scommetterei che hanno attraversato il mare dorso di un’aquila gigante, così, tanto per dire.

E questo è tutto.
Herenya-coi, dear readers, e… buona estate!


 

  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Il Signore degli Anelli e altri / Vai alla pagina dell'autore: Losiliel