Questa fanfiction
partecipa all’iniziativa Christmas of Secrets
indetta dal gruppo Non solo Sherlock.
Autrice: Aivy Demi
Ad Arianna Caruso
Fandom: RPF Kpop - Stray Kids
Personaggi: 3Racha sub unit-
Bang Chan, Changbin, Han
Tw: attacco di panico
Prompt: X ha un attacco di panico poco prima di un concerto o
cerimonia di premiazione e cercano di fare del loro meglio per
prendersi cura di lui.
Quanto è
facile sorridere, vero Han?
Oh sì, circondato dalle persone che ti amano.
Lo è così tanto che pare assurdo cedere.
Eppure succede ancora.
Stava
tremando.
E stentava a nasconderlo.
Certo, ultimamente il disturbo si era presentato in modo meno evidente, eppure…
eppure quella sera non ce la stava facendo.
Non era in grado di controllarsi, di regolarizzare il respiro, di dare un
taglio al fremito che lo stava scuotendo da capo a piedi.
Calma, non è niente. Vai lì, fai quello che sai fare, sorridi e poi scendi
dal palco.
Cosa vuoi che sia, si ripeteva mentalmente Han, davanti allo specchio del
camerino.
Non è nulla, è solo una esibizione.
Ma più stringeva la superficie del ripiano della specchiera, più si pentiva
di trovarsi lì in quel momento.
Cosa vuoi che sia.
Dover controllare che ogni cosa fosse al suo posto era una prerogativa del
leader del gruppo: Bang Chan voleva fosse tutto perfetto non certo per piacere
personale, ma soprattutto per regalare delle emozioni a coloro che si erano
presentati al concerto appositamente per gli Stray Kids. Riprendere a esibirsi
davanti a un pubblico, dopo mesi interi di ristrettezze date dalla
regolamentazione dell’emergenza pandemica, era una gran cosa; sentire però il
peso di trovarsi nuovamente di fronte a migliaia di persone era…
esaltante.
Intrigante.
Terrorizzante.
Bellissimo.
Era bellissimo.
Se lo ripeteva in testa come un mantra per poter mantenere la concentrazione.
Doveva avere tutto sotto controllo, così come era sempre stato. Doveva essere
il punto di riferimento di tutti e di ogni cosa.
Certo, come se fosse stato facile.
Eppure riuscirci era uno dei suoi obiettivi più importanti, così come gestire emergenze
in cui avrebbe potuto rischiare di fare più danni che altro.
Che emergenze sarebbero potute esserci, in fondo, proprio quel giorno?
Changbin sistemò a fatica la chiusura laterale della casacca facente parte
dell’outfit scelto per la serata: l’aver messo su massa muscolare non lo stava
aiutando considerando quanto fosse attillato – scomodo, assolutamente scomodo –
il tessuto sulla pelle chiara. Inoltre il freddo pungente non avrebbe aiutato
granché, né prima né dopo la loro esibizione. Il grande palco che li avrebbe
ospitati all’aperto era già gremito di gente con relative sciarpe, cappotti, guanti.
E io? Un cazzo, non ho un cazzo. Se non un buono sconto per una bronchite.
Rabbrividì al pensiero di dover imprecare contro le basse temperature e le
discutibili scelte di stile di cui era succube per contratto, sbuffò e si
rovesciò in bocca ciò che era rimasto di un pacchetto di caramelline dolci e
asprigne. Succhiò chiedendosi se i suoi colleghi l’avessero preso in giro
consigliandogli di mangiare cosine del genere prima delle esibizioni, ma che
poteva farci… ormai ci aveva preso l’abitudine, e perché no, anche gusto.
Sentì bussare alla porta, ecco il segnale: pronti a dare il cento per cento per
il tempo là fuori che per lui – e non solo – contava davvero molto. Inspirò ed
espirò saltellando sul posto, gli anfibi neri a battere sul pavimento di
linoleum, scosse i capelli scuri modellati dalla lacca, scrocchiò un paio di
volte il collo e dondolò la testa con gli occhi chiusi: una serie di piccoli
gesti abituali che l’aiutavano a concentrarsi prima di ogni apparizione.
Il rumore di nocche sulla porta Han non l’aveva nemmeno sentito, impegnato a
cercare di inspirare più aria possibile con il naso con scarso successo. Non
aveva ancora abbandonato la sua posizione, preferendo scaricare il peso del
corpo sull’arredo piuttosto che macinare metri su metri in quello stanzino
adibito a spogliatoio e sala make up. Il piede destro strascicava malamente
seguendo in modo sbagliato il ritmo del sinistro.
Lo sapevo.
Era pronto a salire già da un po’, ma avrebbe volentieri lasciato tutto,
scappando e rannicchiandosi da solo in un angolino buio. Con nessuno accanto a
rompere le scatole.
A ordinare.
A pretendere tutto da lui, e anche più di quello che sarebbe mai stato in grado
di dare a chiunque.
I denti battevano leggermente tra loro, ricreando una sinistra colonna sonora a
una situazione che cresceva in drammaticità di minuto in minuto, per lui
soltanto. Tanto gli altri erano abituati a gestire l’ansia da palcoscenico, le
sensazioni negative che mangiavano lo stomaco prima delle esibizioni; gli altri
sapevano scaricare la tensione accumulata, la paura di fallire davanti ai fan,
davanti agli amici, alla loro seconda famiglia.
Io no. Io non so fare un cazzo, se non starmene qui a…
a…
A
stringersi la testa tra le mani, aggrappandosi ai capelli tentando di
mantenersi presente con piccole scariche di dolore.
Stavolta però non bastava.
E il petto faceva male, il cuore rimbalzava fino ai timpani correndo veloce,
troppo veloce. Han lo sentiva, l’aritmia batteva e batteva contro le costole.
Si accasciò sul pavimento incurante di sgualcire o sporcare quei maledetti
vestiti che lo fasciavano scomodi, stringendo il tessuto troppo leggero tra le
dita e le nocche sbiancate. Allontanava il cotone nella speranza di fare spazio
al proprio corpo, alla pelle ricoperta di brividi: avesse potuto, si sarebbe
spogliato, levandosi tutto di dosso e scaraventandolo da parte, fregandosene e
lasciandosi andare proprio lì.
Però non poteva.
Ricorda cosa ti hanno insegnato. Respira.
E lui lo faceva, ma la morsa invisibile alla trachea era ben più salda.
Inspira, espira.
Inspirava, e il fiato si spezzava a metà.
Cazzo… cazzo…!
Il conteggio delle presenze prima dell’entrata in scena era una abitudine che
rincuorava Bang Chan: un appello a raccogliere il nervosismo e scaricarlo prima
di muoversi era doveroso, quella volta come le precedenti. Notò Changbin
muoversi in sua direzione, condividendo con lui una espressione tesa e
insicura.
Non siamo tutti.
Certo, mancava ancora qualcuno e non era mai un buon segno.
Gli altri si scambiarono sguardi preoccupati, consci di avere già tra i denti
la risposta.
Han.
Han stava male, se lo sentivano. Non volevano ammetterlo, ma i presentimenti
erano comuni: tendenzialmente il collega non tardava, se non per motivi
importanti.
Il gruppo abbozzò un paio di teorie ironiche, leggere, ma Bang Chan sapeva,
aveva intuito e chiese, anzi, pregò loro di aspettarlo un attimo, di tardare di
poco l’ingresso. Fece cenno a Changbin di seguirlo e si diresse verso il lungo
corridoio dei camerini. Correva, e come lui anche l’amico: il rimbombo dei loro
passi trafelati tamburellava dentro alla testa, e si fermarono a riprendere
fiato soltanto dopo aver raggiunto l’obiettivo della ricerca. Bang Chan
inghiottì l’eccesso di saliva sperando con tutto se stesso di star sbagliando,
e di scoprire Han in bagno o sul punto di rifinire gli ultimi ritocchi.
Ci sperò davvero, ma alla prima chiamata a gran voce non rispose nessuno.
Changbin provò a bussare con energia.
Nulla.
I due si sentirono impotenti davanti alla porta anonima, e passarono non più di
un paio di secondi prima che Changbin la spalancasse ritrovandosi a maledirsi
di non essere passato prima a controllare.
Han era inginocchiato a terra, tremava vistosamente, una mano stretta al petto
e l’altra premuta contro al pavimento; annaspava, ingoiava rumorosamente,
arraffava la poca aria che riusciva a incamerare non avendone abbastanza. Si
voltò terrorizzato verso i compagni, ancor prima di riconoscerli aveva
arretrato di un metro cadendo all’indietro, allarmato e con gli occhi
spalancati verso di loro. Bang Chan entrò e corse verso di lui,
inginocchiandoglisi davanti e stringendogli il viso rigato dalle lacrime tra le
mani, incurante di sbavare il make up di scena.
A quello avrebbero pensato dopo.
Anzi, non era nemmeno presente tra i suoi pensieri come priorità.
Le pupille dilatate del ragazzo lo osservavano stupite, instabili.
Sono arrivati.
Han cercò di mettersi in piedi incespicando sui propri passi ma cadde di
nuovo, imprecando tra i denti e mordendosi la lingua. Si sentì sfiorare di
nuovo e scattò nervoso, scacciando le dita gentili di Bang Chan che lo aveva
raggiunto soltanto per assicurarsi del suo stato di salute. Non si offese lui,
no, anche se un rapido picco di rabbia aveva dato vita a una scossa alla nuca
prima di riequilibrare il controllo.
Lo sai. Non reagire.
Changbin richiuse la porta dietro di sé, recuperò lo smartphone di Han
dalla specchiera e digitò rapido qualche carattere sulla tastiera, doveva
avvertire gli altri e fargli guadagnare tempo. Forse non tutto il necessario,
ma almeno qualcosa. Irritato soppesò il cellulare tra le mani, notando pareri
discordanti nella chat comune: esattamente come aveva predetto. Non giustificò
né giudicò.
Aveva qualcosa di più importante a cui dare peso, più importante di tutto,
anche dell’esibizione.
Han.
Che stava soffrendo.
Han, che aveva bisogno di loro.
Lo raggiunse, sedendosi accanto a Bang Chan, a una distanza minima dall’amico
in un tentativo studiato di rispettare il suo spazio vitale, ma lui rigettava
la loro presenza.
Perché si stava vergognando.
Han si sentiva soffocare da un sottofondo lontano che stava immaginando (le
ipotetiche voci contrariate dei loro fan che non lo avrebbero visto arrivare).
Sentiva gli organi contorcersi, lo stomaco chiudersi e contrarsi.
Sentiva di stare sbagliando. Anzi, di essere sbagliato.
Io sono sbagliato… non è come volevo, non è come volevo!
E la stanza si stava oscurando, il
cerchio nero sulla visuale si stava restringendo.
Soltanto i volti dei suoi amici più cari riusciva ancora a distinguere.
Le loro voci ovattate erano un punto di riferimento, una direzione da seguire,
un dove a cui tornare.
Voleva e doveva restare cosciente per loro, anche se si sentiva svenire.
Bang Chan era agitato, e ne aveva tutto il diritto: come leader, doveva
assicurarsi della perfetta riuscita della performance, ma come essere umano e
amico… non poteva permettersi di dare pressione a Han, non in un momento tanto
delicato, non di nuovo.
Non era la prima volta, e nemmeno la seconda o a seguire…
Sapeva che Han ci stava lavorando come poteva, come sapeva che non era in grado
di controllare esattamente ciò che accadeva durante un attacco di panico. Lo
aveva già visto in quelle condizioni, ogni volta però era sempre morso da una
sensazione di impotente responsabilità a cui doveva attingere per riuscire a
ricreare un clima il più possibile neutrale.
Senza stress fisici.
Senza stimoli forti, luci o suoni d’impatto.
E soprattutto, con accanto soltanto chi Han avrebbe tollerato. Perché il
ragazzo si era confidato con lui un giorno: «Ho bisogno di te, di Changbin, ho
bisogno di voi… solo di voi…» anche perché aveva sempre rigettato gli altri in
quella immensa fragilità.
Tutti lontani durante le crisi più forti, tranne loro.
E lo sapevano, lo avevano tenuto a mente e avevano imparato qualcosa di volta
in volta, così da essere più efficienti. Il problema era che Bang Chan tendeva
a empatizzare fin troppo con l’amico mentre soffriva passivo, lottando contro
qualcosa di invisibile, e tendeva a ricercare un contatto fisico troppo spesso.
Sbagliando.
Changbin invece capì ancora una volta che Han era inconsapevole, terrorizzato,
era entrato in iperventilazione e non incamerava sufficiente ossigeno, oltre ad
aver acutizzato le sensazioni di nausea e orrore; Bang Chan era inerme davanti
alla crisi più violenta a cui avevano assistito e veniva respinto nel suo
tentativo di aiutare. Changbin avrebbe dovuto agire prima di veder collassare
sul pavimento uno, e contorcersi dal senso di colpa l’altro.
«Han.» chiamò sottovoce, in tono fermo. «Han, guardami.»
La testa sul collo rigido scattava.
«Sono qui, non ti tocco. Giuro che non ti tocco, ma devi guardarmi.»
Le palpebre si chiudevano troppo in fretta, coprendo malamente gli occhi lucidi
creando nuove e più calde lacrime.
«Adesso ti farò delle domande, un sì o un no.»
Bang Chan si ritrasse nel raggiungerlo e sederglisi di fianco, guardandolo
concentrato. Aveva capito che il contatto fisico stavolta non avrebbe
funzionato; peccato, perché lui era bravo a rassicurare le persone attraverso i
gesti, le carezze, i buffetti. Inutile, si era etichettato inutile e questo lo
faceva soffrire. Pensò amareggiato che forse Changbin avrebbe avuto una
risposta valida. Poteva soltanto confidare in lui.
«Guarda, io alzo le mani, così: vedi i palmi? Se sì, tocca la mano a destra.»
Han non agì. Lo guardava perso, facendosi piccolo, boccheggiando. Le
sopracciglia disegnate sulla disperazione di chi credeva di non uscirne.
«Non ci riesci? Non vuoi?» Changbin sospirò ma non aggiunse altro, non voleva
spaventarlo ancora. «Allora proviamo così. Vedi? Adesso se è sì, guarda la mano
a destra.»
Han spostò le iridi in quella direzione.
Bang Chan era incuriosito, si stupì della risposta rapida e positiva, ma
sarebbe potuto essere un caso. Il cellulare vibrò sul mobile ma nessuno ci
diede caso: la concentrazione era fondamentale.
«Bravissimo. Adesso, vuoi dell’acqua?»
No. Sguardo dall’altra parte.
«Hai fame?»
Sempre a sinistra.
Changbin rilassò le spalle: il metodo pareva funzionare davvero. Non ci sperava
nemmeno ma era la strada giusta. L’insistenza della vibrazione si accompagnò
alle notifiche di messaggistica: i tre si voltarono allarmati, il tempo
stringeva e il gruppo li stava avvertendo – sommergendo di parole. Changbin
sbuffò sussurrando a Chan di andare a spegnere il telefono, e perché no, pure
la luce principale, lasciando soltanto l’illuminazione più debole attiva.
Niente rumore, stanza in penombra.
«Meglio così?»
Un rapido colpo sconnesso della testa di Han valse come un sì.
«Ottimo, riprendiamo. Respiri bene?»
Han pianse. No, ho
paura.
«Devi stare concentrato, ho bisogno di te, è
importante. Destra o sinistra?»
Sinistra. Non respirava affatto bene, l’affanno era evidente.
«Hai paura?»
Ho paura… sì, tanta paura…
aiutatemi, aiutatemi!
«Han, hai paura adesso?»
I singhiozzi riempirono il vuoto. La stanza pareva così piccola…
Bang Chan non resistette, detestava sentire piangere chiunque, ma lui,
soprattutto lui… no, non poteva permetterselo. Si sporse in avanti spostando il
peso sulle ginocchia ma venne fermato dal gomito dell’altro: Han aveva schermato
il corpo con le braccia, in un minuscolo tentativo di difesa dal mondo. Gli
occhi di Bang Chan pungevano, era impotente e non poteva fare nulla,
assolutamente nulla. Si diede dell’idiota e tornò a sedersi stringendo
convulsamente la canotta di Changbin.
«Ehi, Han, vedi? Non è successo niente, Chan è qui tranquillo dietro di me e
non proverà a toccarti. Vero, Chan?»
Inutile dire quanto facesse male quella affermazione. Una rabbia verso se
stessi difficile da mandare giù, ma avrebbe dovuto ingoiare e sorridere, per
lui e per loro. Quindi Bang Chan mosse la testa in assenso, strinse la presa e
annuì.
«Possiamo fare qualcosa per la tua paura?»
I secondi passavano, i singhiozzi si erano mescolati ai sospiri. Potevano
davvero?
Vi prego…
Avrebbero potuto aiutarlo, se solo lui avesse voluto.
Sarebbe bastato un cenno.
Aiutatemi… mi sento morire,
aiutatemi…
Han puntò lo sguardo a destra e poco dopo nascose
il viso, ritraendo le ginocchia al busto ricoperto di abiti impolverati e
stropicciati. I fremiti non erano diminuiti e la vergogna era aumentata ancora.
Si stava annullando, stava diventando invisibile, ci stava provando davvero.
Voleva scappare. E non poteva.
La domanda successiva arrivò da dietro, da Bang Chan: «Han, vuoi restare qui
ancora un po’?»
Nuova attenzione, un piccolo spiraglio tra le braccia che ancora schermavano il
volto.
«Allora aspetta. Promettimi che cercherai di stare tranquillo.» sospirò nella
stupidità ingenua della sua affermazione; «aspettami solo mezzo minuto, poi
torno…» una breve pausa, indeciso se parlare ancora, «sempre se mi vorrai qui.»
La testa annuì rapida.
Torna.
Una risposta muta, efficace.
Bang Chan sorrise, sussurrò qualcosa all’orecchio di Changbin e poi scomparve
all’esterno, lasciandoli soli.
Nel rinnovato silenzio, Han rovesciò la testa all’indietro, chiuse gli occhi,
si lasciò andare e si accasciò a terra, sospeso nel limbo tra un sonno senza
sogno e la stanchezza estrema di chi aveva lottato quasi in apnea senza
riuscire a riemergere. Ultimi ricordi della veglia la voce di uno e lo sguardo
comprensivo dell’altro, gli unici che erano in grado di calmarlo veramente.
«Ben svegliato.» Changbin stava accarezzando la fronte di Han, sistemandone con
abitudinaria abilità le ultime ciocche di capelli scomposte. Beauty blender e fondotinta giacevano lì accanto sul pavimento,
già utilizzati a ritoccare lì dove le lacrime avevano scavato e scolorito. Un
aspetto di nuovo fresco e pulito, perfetto.
Esattamente quello che ci si aspettava da lui, da loro.
Ed era ciò che dovevano dare e fare, perché aver siglato un contratto portava a
delle responsabilità. Si chiamava lavoro, d’altronde.
«Ma cos…?» Han si sollevò ricascando subito dopo lì dove era stato, steso sulle
gambe dell’amico. Non aveva granché forza per stare eretto, quindi optò per
incastrare meglio la testa sulle cosce dell’altro e socchiudere gli occhi,
inspirando profondamente.
Aria.
Polmoni pieni.
Battito regolare.
Tutto era tornato nella norma, e quell’attimo valeva tutto. Nessun imbarazzo,
nessuna vergogna ora, soltanto lui e Changbin a godere della quiete nel
silenzio. Si lasciò accarezzare fronte, zigomi e capelli, dondolando
leggermente la testa.
Stava meglio, e si sentiva bene così.
Avrebbe voluto fermare il tempo, registrare quelle sensazioni e farle sue per i
futuri momenti di debolezza.
«Prima che tu ti agiti, ti avviso che gli altri hanno organizzato una sorta di
piccolo fan meeting pre concerto per coprirti.»
Changbin sorrise nel confortarlo, sapendo quanto il senso di colpa avrebbe
potuto inghiottire Han in un solo moto. Anticipò le emozioni dell’altro
mantenendo saldo il contatto visivo che prima era mancato. «Chan li ha
raggiunti per poter reggere il gioco. Il gruppo aveva bisogno di lui, e lui ha
bisogno di te, lo sai.»
Han sospirò prima di issarsi sui gomiti, poggiare la fronte sul volto di lui e
ringraziarlo in un sussurro appena udibile: si sentiva di nuovo pronto? Non
proprio, ma nulla reggeva il confronto ora con il senso di inadeguatezza
all’idea di deludere i suoi colleghi, lo staff che tanto si era dato da fare e
soprattutto loro, i fan che attendevano un ritorno attivo alle scene dopo tanto
tempo.
«Vuoi ancora un po’ di tempo?»
«No, direi di no. Non credo di potermelo permettere.» Si alzò imprecando
mentalmente, la schiena doleva ma poteva sopportare. Avrebbe suddiviso le
energie per le varie coreografie, poteva farcela.
Doveva.
Tese la mano a Changbin, stirò con l’altra gli abiti di scena e insieme
uscirono.
«Tutti insieme, vogliamo sentire il coro ancora una volta!»
Migliaia di voci risposero alla chiamata di Bang Chan, che dal palco stava
gestendo il dialogo con gli altri e con il pubblico. Li aveva rassicurati senza
dover esporre Han, incitandoli e caricandoli per il tanto atteso evento.
Dal fondo del palco due figure sbucarono salutando con un sorriso la marea di
persone, i light stick brillavano: le urla si levarono alte, i nomi gridati a
ritmo.
Han glielo doveva.
Impegnarsi era difficile, raggiungere obiettivi sempre più alti ancor di più,
però glielo doveva. A loro aveva votato il suo lavoro, e per loro avrebbe
sorriso di nuovo. Anche con il volto bagnato dalle lacrime.