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Autore: shana8998    14/08/2023    0 recensioni
Appena arrivato, in soli dieci minuti, era riuscito a fare retromarcia contro la mia cassetta delle lettere, a disseminare per il mio giardino immacolato gli incarti del fast food di cui straripava la sua auto, e per finire si era svuotato la vescica sul grosso tronco della vecchia quercia che si trovava sul prato di fronte, indirizzandomi un sorriso pigro e una scrollata di spalle, non appena si accorse di me, scandalizzata, sull'uscio di casa.
Quel ragazzo era un barbaro.
Nei quattro mesi successivi, aveva trasformato la mia vita da cartolina in un inferno. Non riuscivo a spiegarmi come potesse, un ragazzo da solo, avere un impatto tale sulla mia felicità, eppure lui ce l'aveva.
Genere: Erotico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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9.


«Chi era quella gente?».

L’auto marciava a velocità moderata lungo il selciato allontanandosi sempre più dalla villa dei miei genitori. 

«La mia famiglia, gentaccia.», borbottai, poggiando il gomito nell'incavo del finestrino.

Aron ridacchiò.

«Non posso credere che una come te abbia appena messo nella stessa frase le parole “famiglia” e “gentaccia”.»

Gli rivolsi un’occhiata eloquente «Questo perché tu non li conosci.»

Usciti da una strada secondaria, ci ritrovammo al centro di tre grandi corsie. Direzione, periferia della città.

Era quasi sceso il tramonto quando l’auto fermò in prossimità di una stazione di servizio.

«Mi è venuta fame.», proferì, spegnendo il motore.

Accanto alla pompa di benzina, scorgevo un piccolo locale dall’insegna al neon gialla. Una casetta di travi di legno scure preceduta da una tettoia a proteggere qualche tavolo qua e là. Trattoria da Benny.

Quel posto non mi ispirava molta fiducia ma, in tutta onestà, durante il rinfresco non avevo toccato nulla ed ora incominciavo a sentire i morsi della fame.

«Sei ancora lì?» Aron aveva già aperto la porta d’ingresso.

«Eccomi, sto arrivando.»

Trattoria da Benny sapeva di olio per friggere e crocchette di pollo. L’interno del locale, apparentemente anonimo, era poco più che illuminato dagli ultimi raggi di sole che facevano capolino da vecchie tendine ricamate.

Contavo quattro tavoli vuoti e un bancone da bar  veramente logoro. Tutto, rigorosamente, di legno scuro.

Aron spostò uno sgabello e le gambe metalliche grattarono il pavimento con un rumore stridulo.

Come se fosse un habitué di quel posto, piantò i gomiti sulla superficie unticcia del bancone e sollevò davanti a sé quello che doveva essere un menù.

«Mh, pollo fritto», mugugnò. 

Mi accomodai accanto a lui.

«Che ne dici di cheesburger e alette di pollo?», proseguì. In quel momento mi resi conto dell’entusiasmo di Aron. Eppure, eravamo sulla statale, in una bettola, a leggere un menù stropicciato, seduti su sedie che avevano visto tempi migliori. Possibile che gli bastasse così poco per essere felice?

«Non male», dissi, «Però anche bacon e salsiccia…».

Il suo sorriso si allargò. «Alla faccia della dieta.»

«Io non seguo nessuna dieta.», replicai.

A quel punto, Aron corrugò la fronte in una maniera molto buffa ma anche molto irritante.

«Ok, sto attenta a cosa mangio. Evito le schifezze. Questo non significa seguire una dieta.»

Tornò a guardare il menù «Letteralmente, si.»

Esacerbante. Da aggiungere alla lista infinita di appellativi che stavano bene accanto al suo nome.

«Come dici tu.», sospirai arrendevole.

All’improvviso, una donna tracagnotta apparve da dietro le biglie di una tendina antimosche. Stampata addosso un’espressione poco amichevole: continuava a fissarci come se l’avessimo disturbata.

«Cosa vi porto?».

 Indossava un camice bianco dal colletto rosso, una cuffia e un paio di pantaloni da cuoco. Dedussi che ci avrebbe preparato lei da mangiare.

«Per me un doppio cheeseburger e patatine fritte.», disse Aron convinto. La donna afferrò taccuino e penna e cominciò a scrivere.

«Mh. Per te?» Ora stava fissando me. Indecisa, guardai ancora il menù. Incominciavo a sentirmi i palmi delle mani umidi.

«Alette di pollo e una birra grande...rossa.»

«Fa due.»

La donnona in divisa bianca si voltò verso la stanza alle sue spalle e gridò a qualcuno il nostro ordine, poi sparì di nuovo dietro la tendina.

Aron raccolse i menù e li appoggiò accanto al suo gomito. 

«Mio Dio, mette i brividi», mormorai.

Rise.

«Sicura che non siete parenti? Il caratteraccio è quello.».

In un’altra circostanza mi sarei offesa perché come sempre aveva trovato il modo di offendermi, invece, mi voltai verso lui ed iniziai a ridere. Per la prima volta e nemmeno per una battuta divertente. Aron sembrava quasi scioccato. Io non ridevo mai alle sue battute, nemmeno quando queste erano veramente divertenti. Quindi, adesso che lo stavo facendo come una stupida, senza un’apparente motivo, lui doveva sentirsi spiazzato. Ciononostante, le due fossette sulle sue guance gli si erano fatte più calcate come se, in fondo, quello che stava vedendo gli piaceva.

Anzi, no. Gli stava proprio piacendo. Come una cosa nuova che guardi con sorpresa.

«Vaffanculo Aron, non sono…così.» Gli diedi una piccola spinta che lo fece traballare sullo sgabello.

«Oh, si che lo sei. Sei anche peggio.»

Spalancai la bocca ma non dissi nulla e non perché non ci fosse nulla da dire. Perché, cazzo, era la prima volta che non stavamo litigando. Mi piaceva quel momento.

Mi sporsi verso lui appoggiando una mano sul suo avambraccio «E’ per questo che non puoi fare a meno di me».

Non pensavo sul serio quello che gli avevo detto. Molto probabilmente volevo prendermi gioco di lui esattamente come lui faceva con me ogni volta. 

I suoi occhi fumosi si bloccarono sul mio viso. Una vampata di calore mi inondò le guance.

Non ricordo di essere riuscita a decifrare il suo sguardo, ma era così intenso e carico di cose non dette che mi intimidì.

Un attimo dopo era svanito e era tornato l’Aron di sempre con un’espressione più pericolosa stampata in faccia.

Sporse il viso verso me e guardando un punto qualsiasi oltre la mia spalla disse: « Deve essere stancante.»

«Cosa?».

«Fingere che sia io quello che non può fare a meno di te, quando sappiamo entrambi che non riesci a starmi lontana nemmeno per mezza giornata.» 

Pezzo di m…

«Ma se per un anno ti ho evitato come la peste!».

«E ora guarda dove sei.» fece un movimento con lo sguardo per sottolineare che sì, ero esattamente dove mi ero giurata di non comparire mai: accanto a lui.

Mi morsi un labbro cercando di reprimere una risatina stizzita. Colpita e affondata.

Prima che potessi aggiungere altro, la donna grassoccia apparve davanti a noi con due vassoi di plastica rossi stretti fra le mani «Il vostro ordine.»


Ci eravamo spostati su un tavolo accanto alla vetrata più grande del locale. Fuori si era fatto buio. Guardai l’ennesima auto sfrecciare lungo la strada, un’aletta di pollo stretta fra due dita.

«Sei così volgare quando mangi», proferii con disgusto mentre il mio sguardo era tornato su Aron che si stava impiastricciando le dita con la doppia razione di salsa cheddar.

«Immagino che tu gli hamburger li mangi con coltello e forchetta, giusto?».

«Ah-Ah. Sicuramente non li mangio come una cannibale.»

Sospirò una risatina, non mi guardava.

Ci doveva essere un motivo ben preciso se mi trovavo proprio lì, in quel momento, con lui e non stavo parlando solo di quel posto. Intendevo dire anche un motivo per cui l’avevo cercato fra la moltitudine di numeri a disposizione. Fra le tante persone che avrei potuto chiamare - e lui era l’ultima della lista - avevo cercato immediatamente il suo nome.

Si può desiderare ed odiare una persona allo stesso tempo?

«Ti svelo un segreto: le cose sono più buone quando le mangi con le mani.»

«Davvero?», inarcai le sopracciglia.

«Pensa all'insalata, a come si condisce.»

«Mangeresti mai l'insalata con le mani?»

«Perché no!»

«Sei un caso perso…»

Cosa poteva attirare la mia attenzione in Aron? Non aveva niente, niente, delle qualità che ricercavo in un uomo.

Eppure, c’era qualcosa in lui. Qualcosa che non ero ancora riuscita ad individuare e che mi costringeva a scavare sempre più in profondità. Non mi sentivo mai sazia abbastanza quando si parlava di lui ultimamente.

Aron era un puzzle a cui mancavano diversi pezzi. Il problema era che io amavo i puzzle, specie quelli molto complicati.

«E’ proprio vero che tiro fuori il peggio di te, eh?».

Afferrò la sua birra e mandò giù un paio di sorsi, forse tre.

«Ti diverti ad irritarmi e questo mi fa impazzire.»

Vidi le sue spalle scuotersi. Sghignazzava. Di nuovo.

«Dico sul serio, basta che io dica qualcosa che tu subito ribatti con la tua opinione che è sempre, costantemente, in contraddizione con la mia. Perché?»

Fece spallucce «Perché siamo diversi.», poggiò il bicchiere sul tavolo ma continuò a giocherellarci con le dita.

«No, tu non fai così perché siamo diversi. Tu fai così perché ti piace vedermi in difficoltà. Ti diverte vedermi indifesa.»

I suoi occhi, adesso, puntavano dritti nella mia direzione.

«Non dire stronzate.»

«Non è una stronzata, è la verità.».

Aron sospirò: «Possiamo trovare un compromesso? O ci teniamo alla larga l’uno dall’altra oppure proviamo a diventare amici. Non ho più le energie per litigare con te.».

Non avevo voglia di stargli alla larga, non dopo due birre grandi doppio malto. Ma nemmeno di diventare sua amica.

«Allora?», continuò aspettando una mia risposta.

«Nemmeno io voglio litigare con te», ammisi. Ed era la verità, anche se apparentemente qualsiasi cosa mi dicesse era un buon pretesto per aggredirlo.

«Ok, allora amici?», facevo sul serio?!

Annuii.

Alla fine delle mie alette di pollo, le birre erano diventate tre ed io incominciavo a straparlare.

«Questo vuol dire che non c’è neanche la remota possibilità di fare la fine di quelle ragazze…».

«Quali ragazze?», Aron alzò la mano verso la donnona e indicò la spinatrice della birra.

Poco dopo si materializzavano un altro paio di bicchieri sul tavolo.

«Quelle che ho sorpreso mezze nude nel giardino di casa tua, o peggio, quelle che ho visto piangere disperate nel giardino di casa tua.»

Mi guardò in un modo strano che ignorai.

«No, non c’è il rischio che tu faccia quella fine.»

Mi assalirono due sensazioni contrastanti. Se da una parte era proprio quello che volevo, dall’altra…avvertivo una delusione improvvisa. Cosa c’era che non andava in me?

Mandai giù l’ultimo sorso del mio bicchiere e mi trascinai davanti quello pieno.

«Vorrei che anche Gretha non facesse quella fine…»

Il ricordo di lei, fuori dalla porta di casa sua, mi fece contrarre i muscoli della pancia.

Sorrise come a ricordare qualcosa ed io mandai giù un pugno di nervi.

«Neanche lei corre il rischio.», affermò. «Ciò non toglie che ci siamo divertiti, si. Ma a te che importa?» Mi scrutò oltre il bordo del suo bicchiere, in attesa di veder materializzare qualcosa sulla mia faccia.

Il suo tono era di assoluta indifferenza, ma io ero scioccata.

Quindi era vero, loro avevano…

«Infatti non me ne importa. Voglio solo assicurarmi che tu non la faccia soffrire.»

Sentire che lui andava a letto con altre ragazze, con una mia amica, non avrebbe dovuto farmi star male, invece era così. Mi suscitava una specie di gelosia immotivata che cominciava seriamente a farmi sentire accaldata.

«Aaah…Sei gelosa?». Mi prese in giro.

Aggrottai la fronte. «Ovviamente no. Mi dispiace perché è una mia amica.»

Dubitavo che Aron sapesse che Gretha non mi rivolgeva la parola da un po’, perciò mascherare il resto dei miei pensieri con quella scusa sembrò perfetto.

«Ti preoccupi troppo, Gretha è felicissima.»

«Ok, ok. Ho capito. Possiamo cambiare argomento?».

Nonostante la birra incominciasse a farmi sentire la testa pesante e i pensieri leggeri dal mio volto doveva esser trapelato altro, perché Aron ora mi guardava sorridendo.

Spostando il peso, da una coscia all’altra, sulla seduta, dissi: «Quindi sarai più gentile con me?».

Il suo bicchiere era a metà e lui non la smetteva di giocherellarci.

«Certo. E tu la smetterai di fare l’acida cercando sempre un pretesto per litigare?».

«Non sono affatto acida!»

La sua espressione diceva ben altro. Sospirai arrendevole.

«Ok, lo sono. E’ colpa tua però.»

«Colpa mia?».

«Se solo tu non fossi così…» -così come, Halanie? 

Ci fu un momento in cui le parole restarono sospese sulla punta della mia lingua e tutta la mia attenzione si spostò al piercing che vedevo sfregare fra i denti.

Aron ridacchiò ancora. 

Si accorgeva di certe cose ben prima che io stessa me ne potessi rendere conto. Non andava bene, affatto.

La sedia fece rumore trascinandosi all’indietro.

«Dove stai andando?», chiesi.

«A pagare.»

Per fortuna non averlo più davanti mi fece tornare a respirare.

Il locale, adesso, era pieno di persone. Le luci soffuse illuminavano volti provenienti da chissà dove lungo la statale. C’era baccano, abbastanza da coprire i miei pensieri.

Aron poggiò una banconota da venti dollari nella direzione di una vecchia e sgangherata cassa nera. Attese il resto e si voltò cercando me e la porta d’uscita.

«Domani c’è lezione alle dieci.» Affermò chiudendosi la porta di Trattoria da Benny alle spalle.

«Si.»

«Allora non mettere quella dannata sveglia alle sette.»

Gli rifilai un’occhiataccia che però smascherò un’espressione sorpresa sul mio volto.

«Senti le mie sveglie?».

Percorremmo quel breve tratto di asfalto verso l’auto.

«Maledizione, si.»

«Ho bisogno di ripassare prima di arrivare in facoltà.»

«Giusto, dimenticavo che sei una maniaca del controllo.»

Che ero io?

«Non sono affatto una maniaca del controllo!».

Spalancai lo sportello con veemenza e senza accorgermene urtai una seconda auto posteggiata accanto alla nostra.

Aron strizzò le palpebre di scatto.

«Scusa».

«Non fa niente.», sospirò. C’era un profondo solco sulla fiancata della berlina rossa che avevo accidentalmente colpito ed ero certa che fosse appena apparso.

Aron aveva fatto il giro della macchina e ora stava guardando nella mia stessa direzione.

«Credo che sia meglio salire in auto. Adesso.»

«Non dovremmo cercare il proprietario?»

«Sono quasi certo che fosse il tipo seduto dietro di noi.»

Guardò in direzione della vetrata. Seguendo quella direzione trovai la sagoma tracagnotta di un tipo poco affabile. Braccia tatuate, grugno astioso. Aveva qualche tatuaggio della marina militare. 

«Oppure…potremmo far finta che non sia successo nulla…». Sviai lentamente lo sguardo e piombai a sedere in auto.

 

La canzone che suonava dall’interfono della radio non la conoscevo, ma mi piaceva. Mi accomodai meglio sul sedile e poggiai la testa all’indietro.

«Ultimamente sto bevendo un po’ troppo spesso.», ammissi spostando lo sguardo verso il profilo di Aron.

«Hai bevuto altre volte oltre che la sera della festa?».

Feci spallucce «Questa sera…E al rinfresco dei miei.»

Possibile che avesse corrugato la fronte? Nah, probabilmente me lo ero immaginato.

«Almeno non eri in compagnia di Piper.», commentò.

Aveva un bel po’ di sarcasmo quell’affermazione. Sarcasmo che mi fece innervosire.

«Tu però lo frequenti spesso.»

Ripensavo al video: lui, Gretha e Piper. Ricordavo i due ubriachi fradici e Aron accanto a loro mentre…Che stava facendo? Il video era sgranato. Una ripresa fatta di notte e con la poca luce di qualche lampione.

Mantenne le mani salde sullo sterzo «Frequentiamo la stessa facoltà, capita di vederci.»

Ruotai sul sedile, appallottolata, con le ginocchia sulla seduta.

«Tu nemmeno lo sopporti», singhiozzai.

Mi scrutò con la coda dell’occhio, «Esattamente come tu non reggi l’alcool.»

«Io reggo l'alcol perfettamente!» -emh, no. Effettivamente, era l’alcol a reggere me.

«Si…Come dici tu.»

Ad un tratto il suo telefono incominciò a vibrare. 

«Ti stanno chiamando.», dissi.

«Ho sentito.»

«E allora perché non rispondi?». Lui lo aveva tirato fuori dalla tasca, aveva guardato lo schermo per poi oscurarlo un attimo dopo.

Poi aveva guardato me con un’espressione divertita stampata in volto. «Non credo che tu voglia sapere chi mi ha chiamato e perché.» Capii al volo che si trattava di Gretha.

Mi rizzai sul sedile.

Avevo voglia di tornare a casa il prima possibile, in quel momento, ma qualcos’altro dentro di me la pensava diversamente, al punto da spingermi a sperare che il tragitto si allungasse di un paio di chilometri.

«Perché no?», lo sfidai aprendo il palmo della mano in direzione della sua coscia. «Siamo amici, giusto?»

Aron sospirò senza far sparire il sorrisetto dalle labbra.

«Haly…».

«Dico sul serio, se ti frequenti con lei a me sta bene.»

Socchiuse le palpebre per un istante, il telefono che non la smetteva di vibrare.

«Fallo o risponderò io.»

Non sapevo con esattezza perché volessi per forza che lui rispondesse a Gretha, ma incominciavo a temere che quello sarebbe stato il pretesto per scacciare certi pensieri che mi venivano in mente quando ero con lui.

Scosse la testa e tornò a guardare la strada.

A quel punto, capendo che, no, non avrebbe risposto, allungai la mano e artigliai il cellulare prima ancora che potesse far qualsiasi cosa per fermarmi.

Lessi le inconfondibili cifre del numero di Gretha che scorrevano sul display e per un istante, uno solo, esitai.

Veramente volevo sentire ciò che avevano da dirsi?

Mi tremò il pollice ma accettai la telefonata lo stesso, pentendomi un attimo dopo.

Pigiai sul vivavoce e avvicinai il microfono verso la bocca di Aron.

«Ehy.», disse lui, rifilandomi un’occhiataccia.

«Ehy».

La voce di Gretha sembrava sognante. 

«Dove ti trovi?», chiese lei.

«Sulla statale.»

«A fare cosa?»

«Riporto un amico a casa.»

Qualcosa era appena esploso, rovinoso, nel mio petto.

Un amico? Perché non le aveva detto di essere con me?

Incominciai a pensare che Gretha avesse un’importanza diversa per lui e… mi dava fastidio, anche se non lasciai trapelare nulla dal mio viso.

«Ci vediamo stasera?», gli chiese lei.

«Stasera…», Aron curvò lo sterzo superando un incrocio «Sul tardi.», affermò lui.

Avevo il cuore a mille e rifiutavo con tutta me stessa di capire perché.

«Va bene», la perenne voce sognante di Gretha capitolò con «A più tardi, un bacio.»

La chiamata si interruppe, così come le cose che avremmo potuto dirci io e Aron.

Lui restò in silenzio, il flusso imperscrutabile dei suoi pensieri era un fortino inaccessibile.

E nemmeno io riuscii a dire qualcosa. Il suo cellulare era ancora stretto nelle mie dita, il dorso della mano sulla mia coscia. Avevo l’impressione di avere una bomba addosso. 

All’improvviso, interruppe il silenzio. Mancava poco a casa mia e mi dissi che non c’era bisogno che provasse a parlarmi. Non c’era motivo, davvero.

«E’ tutto ok?». La sua voce, adesso, era più bassa e profonda.

Non mi rivolgeva lo sguardo, ma potevo scorgere lo stesso il suo imbarazzo.

«Certo.», dissi con fermezza.

In realtà non andava bene proprio un cazzo, ma lui era l’ultima persona che avrebbe dovuto saperlo.

Finalmente, casa.

Quando il marciapiede si materializzò davanti ai miei occhi, mi sembrò di respirare per la prima volta nella mia vita.

L’auto accostò in prossimità del mio cancelletto.

«Non ti trattengo ancora, hai da fare.»dissi. C’era una punta d’acidità nel tono della mia voce. Non posso negarlo.

Aron sospirò: «Non farlo». 

Avevo promesso sia a lui che a me, che avrei fatto in modo di non litigare più.

Aron aveva detto che ero acida, quindi dovevo avergli dato quell’impressione, perciò, dovevo darci un taglio.

«Che ho detto?», feci spallucce mimando un sorriso riparatore, falsa come Giuda.

«Lo sai perfettamente.»

Scesi dall’auto.

«Non farla soffrire, dico sul serio.»

Chiusi lo sportello prima che potesse aggiungere qualsiasi altra cosa e imboccai il vialetto di casa.

Cosa provavo in quel momento? Sicuramente, confusione.

Mi dava fastidio, parecchio fastidio, il fatto che Gretha si calasse sotto le sue lenzuola, esattamente, come mi aveva dato fastidio il fatto che lui le avesse mentito dicendo che ero un amico da riaccompagnare.

Che Aron le avesse detto una bugia per non sorbirsi una lavata di testa dalla sua nuova - gelosissima - conquista? Erano arrivati già a quel punto?

Comunque, quella fuori luogo ero indubbiamente io.

Gretha aveva una cotta per Aron da molto prima che mi ficcasse la lingua in bocca in quel bagno.

Perciò se c’era qualcuno che doveva farsi da parte, quella ero io.

Ad ogni modo non potevo negare che la sensazione di bruciore allo stomaco fosse per altro che non fosse la birra tracannata in quella trattoria.

Quando mi chiusi il portoncino dietro le spalle, il silenzio di casa mia mi travolse. Respirai a fondo.

Ero finita in un bel guaio.

   
 
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