Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life
Personaggi Principali:
Ichigo Momomiya; Minto Aizawa
Altri Personaggi:
un po’ tutti, ma solo citati
Rating: arancione
In proposito: “Davvero non te ne sei mai accorta?”
“Di
cosa?” Si ostina Ichigo, quell’aria da bambina
ingenua che la ancora a una vita prima, a equilibri sottili come ali di
libellule. E rassicuranti. Troppo rassicuranti nel loro essere apparentemente
immutabili.
“A Shirogane tu piaci. Sei sempre piaciuta”.
“A Shirogane piace prendermi in giro”
Il tempo passa, alcune cose cambiano, altre
no. E arriva il momento di smuovere le situazioni.
Disclaimer: Tokyo mew mew é di Reiko
Yoshida e Mia Ikumi. L’idea
della storia, invece, è tutta mia.
Note: one shot; missing moment; raccolta.
Cose:
Ho impiegato millanta giorni a
scrivere questa side story. Ma alla fine ci sono arrivata. C’è l’ho fatta!
Mentre gli altri capitoli sono ben chiari e delineati nella loro ossatura,
questo è il frutto di più e più riscritture.
Volevo al contempo segnare il tempo trascorso
e riallacciare il filo con i quindici anni, con quell’età che è innamorata
dell’amore e che è lo sfondo dell’anime.
Qui Ryou è in absentia.
Come accadrà in altre due side story. La storia si concentra su di lui, certo;
ma in tre occasioni (e questa è una di quelle), il focus passerà maggiormente
su Ichigo, anche per filtrare in modo diverso le
modalità con cui entrambi si vedono e sono visti.
E’ più lunga delle altre. Ma è passato del
tempo. E sono cambiate le cose. E volevo gettare anche qualche sassolino qui e
là.
E poi c’è stato Tokyo mew mew new.
L’ho seguito; adulta; curiosa. Forse con un pizzico di speranza. Mi sono
piaciute alcune scelte (poche); sono rimasta delusa da altre (molte). Nel
complesso una sintesi che sacrifica decisamente troppo del vecchio anime;
affrettata, veloce, quasi ossessionata nel cancellare qualsiasi ambiguità (con
l’eccezione di Kish, di grazia), decisa a sacrificare
troppo a un buonismo di fondo dilagante.
Ma c’è stata; e qualcosa ha fatto presa e
passerà. Qui forse qualcuno lo intuirà; altri sorvoleranno. Non importa: non
implica nulla. Ma sarei curiosa di conoscere anche le impressioni di chi, fan
di vecchia data, ha avuto l’occasione (e forse anche il coraggio) di vedere la
riedizione.
Intanto buona lettura e presto (spero!)
Cinque passi
Side story - Scatole
“Non è giusto però”
Ichigo sbuffa, rigirando il cucchiaio
nel frappè alla banana, mentre Minto nasconde il sorriso lieve dietro la linea
elegante della tazzina, assaporando l’aroma raffinato dal vago sentore di
orchidea.
“Sei infantile, Ichigo” la riprende con l’abituale tono di sufficienza, il
tintinnio del piattino che si perde fra le voci e la musica del caffè.
Ryou ha chiamato mezz’ora prima: non rienterà per la Golden Week. Di nuovo un rinvio. E così i
mesi che è lontano si sommano e ormai è più di un anno. E non è la prima volta.
Rispetto al passato, almeno, chiama, messaggia,
scrive e-mail; ma non torna.
É aggiornato su ogni passo
dell’adozione di Kei e Retasu;
conosce a memoria gli impegni mondani e societari di Minto, così da incrociarsi
quasi per sbaglio, ed è pronto a ragionare con Purin
riguardo agli investimenti più adatti al ristorante. Si aggiorna regolarmente
con Pai sui dati del monitoraggio. C’è; è una
presenza costante, continua, discreta. Ma lontana. Sempre e solo da lontano.
Ichigo lo sente anche otto-dieci volte
alla settimana, incastrando impegni e fuso orario. Chiamate fiume, due o tre
ore alla volta, per parlare di tutto e di niente. Ore con Skype
acceso, il ticchettio dei tasti del computer sullo sfondo e i ritmi variegati
di radio J-pop che si mescolano alle armonie blues e jazz, le discussioni
eterne, fra serietà e leggerezza su mille piccole ovvietà: la passione di Ryou per i vinili e quella di Ichigo
per la tavoletta grafica, se è più buona la cioccolata amara o quella
all’arancia, se sia meglio il Lupin della regia di Kitamura,
più tradizionale e pulita come sostiene Ichigo, o
quello di Koike, con la sua grafica dura e quasi
sporca che Ryou predilige.
A Ichigo
manca. Manca più di quando, ragazzina, lo vedeva ogni giorno e si scambiavano
solo due parole nella frenesia della quotidianità. Le manca quando gli parla,
un crampo in fondo allo stomaco che nasconde nella voce più squillante, nelle
solite frecciatine e nelle battutine sciocche solo per sentirlo ridere o
sospirare fra il rassegnato e il divertito.
Ichigo mordicchia la cannuccia,
spiegazzando il bordo della fotografia che le è capitata fra le mani. L’hanno
scattata al mare, la prima volta che Ryou ha invitato
tutti loro nella sua casa a Izu Oshima.
Sembra passata una vita. Purin in quel periodo si era
convinta che sarebbe diventata una reporter professionista e fotografava
qualsiasi cosa attirasse la sua attenzione. Hanno scatole e scatole di
fotografie, alcune davvero ben fatte altre sfuocate, sovraesposte, buffe,
ridicole. Kei le ha recuperate dal deposito per
selezionare le migliori e racchiuderle tutte in un album. Quindici anni da
quando si sono conosciuti; da quando il Cafè è stato
aperto.
Volevano regalarlo a Ryo per il suo compleanno: l’ultimo giorno di vacanza,
prima che ripartisse di nuovo per l’America. Glielo aveva già detto che a
maggio sarebbe stato impegnato fra Saint Louis e San Francisco.
“Mi aveva promesso che mi avrebbe
insegnato a fare immersioni” borbotta Ichigo a mezza
bocca, giocherellando con qualche ciuffo che le spiove sul viso.
“Non fare la bambina” la rimbecca
Minto, tagliando la punta della fetta di ravani. “Se ci tieni davvero, ti
insegnerà Purin”.
“Non è quello il punto” replica
indispettita, rigirando con più forza la cannuccia nella panna. Lo sa: sta
facendo i capricci. Per una sciocchezza, poi. E pensare che ha anche paura
all’idea di fare immersioni.
“E qual è, allora?”
Minto la guarda con un sorriso
appena accennato, una linea sottile quasi annoiata, di un discorso già
affrontato tante volte.
“Me lo aveva promesso” e Ichigo si sente davvero una bambina mentre lo dice, la
bambina di quattordici anni con i codini che pestava i piedi quando qualcosa
non andava come voleva.
“Davvero Ichigo?”
sospira appena Minto, posando senza rumore la forchettina da dessert. Il sapore
fresco del cocco si amalgama bene con la granella di pistacchio, ma in quel
momento Minto non riesce a gustarselo. “Davvero vuoi giocartela in questo
modo?”
“Io non voglio giocarmela in
nessun modo. Dico solo che non è giusto”.
“Shirogane
c’è sempre stato per noi” le ricorda.
E la mente torna a cinque anni
prima, alla sua camera all’Hôpital européen Georges-Pompidou a Parigi, a quando era stata
ricoverata d’urgenza per una frattura alla base del metatarso destro. La sua
gamba portante. Anni di sforzi, di allenamenti, di dedizione al fine di
perfezionare la sua tecnica di ballo en pointe tanto da farne il suo cavallo di battaglia per
fluidità di esecuzione e resistenza si erano all’improvviso trasformati in un overuse che le sarebbe costato la carriera.
Quando si era appena consolidata.
Shirogane era arrivato la sera successiva
al suo ricovero, i capelli umidi per la pioggia di marzo e il viso stanco di
chi, aveva scoperto poi, si era fatto quasi dieci ore di volo con annesse
coincidenze solo per andarla a trovare.
Che ci fai qui? gli aveva chiesto
Che hai intenzione di fare? le aveva risposto invece,
saltando quei convenevoli che a lui stanno stretti e a lei suonano falsi come
una moneta da 3 yen. Quel modo spiccio di parlarsi, così americano, così gaijin, per lei
cresciuta ed educata in un mondo fortemente improntato a etichetta e
convenzionalità, aveva sempre esercitato una sottile, irreale fascinazione.
Tu cosa pensi?, gli aveva risposto, con uno sbuffo di nervosismo all’idea che
potesse aver pensato di trovarla a piangersi addosso. Mi opererò. E poi.
Poi ne riparleremo, aveva chiosato Ryou, accomodandosi con
un sospiro e un tonfo stanco sulla poltrona da riposo della stanza.
Vuoi passare la notte qui? aveva chiesto Minto, muovendosi
cauta nel letto. Sappi che non ho bisogno
della balia aveva brontolato ancora.
Lo so. E non avevo comunque intenzione di farti da inferiere aveva replicato Ryou, gli occhi già
chiusi.
Allora puoi andare in albergo, grazie.
I forge to book it era stata la serafica risposta, un
occhio pigramente socchiuso. Sai com’è.
Partendo di corsa capita.
Non credo che rifiutino una carta di credito, nemmeno alle tre di
notte
aveva ribattuto ancora Minto, chiedendosi se fosse più divertita o indispettita
del modo in cui Shirogane aveva semplicemente deciso
per entrambi.
La metro è chiusa.
Chiama un taxi.
Fuori diluvia, se non l’hai notato.
Comprati un ombrello.
Alla fine, quel loro battibecco si
era concluso con Ryou che sospirava esasperato, la
testa che gli scoppiava e una voglia matta di avere anche solo dieci minuti di
silenzio. Aizawa
le aveva detto, e Minto sapeva che quando la chiamava per cognome era davvero
al punto di rottura. Lasciami dormire.
Sono stanco morto e si era sistemato alla meno peggio sulla sedia, la
giacca ancora umida come coperta. E Minto si era fermata a riflettere che, in
effetti, dovevano essere state ore frenetiche anche per lui. E che c’era.
Aveva chiamato Seiji,
dopo che era stata trasportata in ospedale, ma dopo essersi accertato delle sue
condizioni, suo fratello le aveva detto che non sarebbe riuscito a raggiungerla
a Parigi prima di due giorni. É solo una
frattura aveva cercato di consolarla. Domani
farai i raggi, ti ingesseranno e per quando sarai dimessa sarà lì a prenderti.
Tranquilla.
Minto non dubitava che suo
fratello ci sarebbe stato, ma sapeva anche che non aveva capito come il fatto
che fosse “solo una frattura” si sarebbe tradotto nella fine di tutto un sogno,
della morte di progetti e obiettivi cui aveva sacrificato tanto. Shirogane invece.
Shirogane aveva mollato ogni cosa e aveva
fatto l’impossibile per raggiungerla. Per esserci per lei; anche solo per
stuzzicarla e obbligarla a reagire e non cedere allo sconforto, in agguato
dietro ogni respiro più profondo, ogni lacrima ricacciata indietro. E anche i
giorni successivi Shirogane era stato un punto fermo:
aveva parlato con medici e chirurghi, si era assicurato che le fossero prestate
le cure di più alto livello, aveva preteso di incontrare il primario di
ortopedia e traumatologia, aveva cercato ogni possibile soluzione, senza nulla
di intentato, pur di provare a restituirle la possibilità di tornare a calcare
il palcoscenico.
I do not give
up le
aveva detto tre giorni dopo, in uno dei rari momenti che si erano ritrovati
soli, dopo l’arrivo di Kish. L’ennesimo caffè in mano
e una faccia più stanca di quando era arrivato, seduto sul letto accanto a lei,
Ryou cercava di rassicurare forse più se stesso che
Minto della possibilità che ci fosse ancora speranza.
Va bene così gli aveva detto, un sorriso lieve a incresparle le labbra. Mi conosci: non mi lascio abbattere
facilmente. Ricomincerò.
Sure? le aveva chiesto, una stilla di orgoglio e forse invidia in fondo
agli occhi, nella piega scanzonata che aveva assunto il viso, per provocare. E
quanto Minto aveva annuito, Shirogane le aveva
promesso ancora che su di lui avrebbe potuto contare. Per ogni cosa.
E quell’esserci si era
concretizzato nell’École de Danse
Moineau. La
sua scuola di danza; per restare in quel mondo che aveva tanto amato anche
senza poter più volteggiare sul palcoscenico.
Ryou aveva fatto la spola fra Boston,
San Louis, New York e Parigi per tutto il tempo della sua riabilitazione. E
mentre Kish si prendeva cura di lei con la sua
irriverenza e quella carica di irrequietezza che la obbligava a reagire, che la
spronava a non mollare nemmeno quando le braccia tremavano per lo sforzo di
sorreggersi alle parallele e il piede era solo un grumo di dolore ad ogni passo
zoppicante e incerto, Ryou aveva preso contatti,
parlato con le banche, investito azioni, cercato strutture e imprese, discusso
i particolari con lei, nel suo appartamento al primo piano in rue Saint Augustin, a pochi passi dall’Opéra
di Parigi. E quanto era stata di nuovo libera di muoversi, senza stampelle nè bastoni; quando la gamba aveva recuperato se non la
forza di prima di certo la stabilità, Minto aveva realizzato quanto davvero Shirogane fosse rimasto accanto a lei in quei mesi.
Perchè? gli aveva chiesto una sera pigra, al termine di una cena
consumata in quieta intimità, il sapore morbido e vellutato del suo passito che
si armonizzava con il vago sentore di mele del Calvados di Shirogane.
Una di quelle sere in cui l’appartamento sembrava insolitamente tranquillo,
mentre Kish le carezzava la nuca, gli occhi socchiusi
e la smorfia sorniona del gatto che si è pappato l’uccellino e ha la pancia
piena. Shirogane era arrivato senza invito, un
sorriso irriverente e due ispahan di Pierre Hermè come scusa.
What?
La scuola. La riabilitazione. L’aiuto aveva elencato Minto, allungando
le gambe sull’ottomana, il pensiero distratto di quando avesse accettato che,
oltre a Kish, anche Shirogane
la vedesse senza la sua austera compostezza. Perchè lo hai fatto?
Sono bravo negli affari aveva nicchiato lui, nascondendosi dietro il
bicchiere. Kish aveva ridacchiato, pizzicandole il
lobo dell’orecchio con l’unghia. La
scuola va bene, e io so che mi pagherai il disturbo con gli interessi.
Perchè devi fare sempre il venale? aveva sbuffato Minto, un modo di
stizza e divertimento mal celato che si fondeva con il sogghigno divertito di Kish alle sue spalle. Non che si aspettasse una risposta
diversa, in verità, da Shirogane. In tanti anni che lo
conosce, non è mai riuscita ad avvicinarsi a lui oltre un certo limite.
Parlano, si stuzzicano, si rispondono a tono con un’eleganza raffinata per cui
anche le offese sembrano complimenti taglienti. Ma Minto sa che fra loro non
c’è complicità; rispetto di certo, forse anche una qualche forma di
ammirazione, ma non complicità. Non è mai stata gelosa del modo diverso con cui
Shirogane ha da sempre interagito con tutte loro; con
ognuna si è creato un linguaggio, una gestualità che sono loro e solo loro. Tuttavia.
You really need
an answer? le aveva chiesto Ryou
alla fine, occhieggiando la notte parigina oltre le finestre lasciate socchiuse
di quella serata estiva.
E Minto aveva capito che no, non
le serviva. E che Shirogane è un uomo egoista; e
calcolatore. Aveva capito che quando anni prima, all’inizio della loro
missione, aveva promesso che per loro ci sarebbe sempre stato era sincero; ma
anche che quella promessa era diventata la giustificazione per ogni sua azione,
per ogni sua fuga e l’occasione per ogni ritorno. E in quei mesi Shirogane aveva avuto bisogno di fuggire; e di lasciarsi
assorbire da qualcosa che non gli concedesse il tempo di fermarsi a pensare. Perchè Ichigo era in attesa;
perché Ichigo gli raccontava di quel bambino che
cresceva dentro di lei, giorno dopo giorno. Di un figlio che non sarebbe mai
stato suo.
Sì: Shirogane c’è sempre stato per noi, si ripete Minto.
“C’è sempre stato soprattutto per
te” sottolinea ancora a Ichigo, una durezza diversa
nella voce, ben sapendo di avventurarsi su un terreno scivoloso. Perchè il rapporto fra Ryou e Ichigo è qualcosa di così semplice e al contempo complesso
che nessuno di loro ha mai avuto la forza di costringerli ad affrontarlo. Forse
solo Zakuro-nee-san ci è
riuscita, ma Minto non ha mai voluto forzare la mano e si è sempre accontentata
delle vaghe allusioni che Zakuro le concedeva, quando
l’argomento cadeva fra loro quasi per inciampo.
“Lo so, questo” sbuffa Ichigo. “Non serve che tu me lo ricordi” e incrocia le
braccia e gira la testa verso il locale, gonfiando le guance: è un vizio che ha
preso da quando si sono conosciute, quello di reagire in modo infantile. Minto
ha la sgradevole abitudine di colpire i nervi scoperti con un’eleganza quasi
sadica, insistendo e pungolando il suo interlocutore come se usasse uno
stiletto. E con lei riesce sempre a colpire dove più fa male. Un male strano,
struggente, quasi malinconico.
É consapevole di quanto deve a Ryou: se lui non ci fosse stato, gli ultimi anni della sua
vita sarebbero stati diversi. E sa bene che si è aggrappata a lui come a uno
scoglio. Ryou è stato la mano tesa quando il suo
mondo è crollato e il suo matrimonio si è frantumato come cristallo; è stato la
spalla su cui piangere durante il divorzio, la sicurezza di una voce anche a
notte fonda, anche dall’altra parte del mondo, quando pensava che non avrebbe
mai potuto stare di nuovo bene.
Ryou era al suo fianco quando ha
sposato Masaya; ed era accanto a lei quando ha perso
suo figlio e il dolore e il senso di colpa erano una zavorra di rabbia e
autodistruzione che la stava trascinando a fondo. Sono qui; ti riporto a casa le aveva detto Ryou,
quando era andato a prenderla a Londra, nella stanzetta di un hotel a Paddington, dove si era rifugiata dopo l’ennesima lite con Masaya. Nemmeno la più violenta, forse la più stanca. E Ichigo non aveva più le forze anche solo per concepire di
tornare a Tokyo, tanto sentiva di aver toccato il fondo della sua disperazione.
Ryou l’aveva afferrata con la caparbietà di chi non
si rassegna a lasciarti mollare e l’aveva obbligata ad affrontare le macerie di
una relazione che era semplicemente crollata.
“E quindi?” la incalza Minto,
mentre occhieggia il messaggio che le è arrivato.
“Problemi?” le risponde Ichigo, senza voler pensare se le interessi davvero la
risposta o se sta solo cercando di sviare un discorso che non sa nemmeno lei se
vuole affrontare.
“Solo un aggiornamento” risponde
Minto, digitando veloce la risposta. “La riunione si protrarrà oltre il
previsto. Kish non riuscirà a raggiungerci”.
Ichigo ridacchia appena, rigirando la
cannuccia nel frappè. Ha ormai perso la sua consistenza densa e spumosa, per
diventare liquido e caldo. E il frappè caldo è terribile. Però Ichigo lo trova utilissimo per scaricare la tensione,
affogando la granella.
“Lo trovi divertente?”
“Un po’” nicchia Ichigo, una lieve alzata delle spalle. “Ma sono anche
ammirata. E invidiosa”
“Invidiosa?” le chiede Minto, uno
stupore sottile che le fa smarginare appena gli occhi. Non ha mai pensato che Ichigo potesse essere invidiosa; non di lei, almeno. Quando
si sono conosciute, da ragazzine, Ichigo le è sempre
apparsa come una persona solare, capace di trarre soddisfazione da ogni
piccolezza, banalità che incontrasse. Mentre lei. Lei si sentiva minuscola,
costretta in etichette e rigori che con il tempo erano diventati la sua
armatura. E quell’armatura si scontrava con la spontaneità genuina di Ichigo e ne usciva ogni volta con una ammaccatura in più,
con una incrinatura che allargava le crepe.
In un certo senso, Minto si
accorge di essere stata lei a provare una specie di invidia verso Ichigo. Una sensazione più simile alla mancanza, a un piccolo
vuoto non definito che le palpitava in fondo allo stomaco in alcune occasione,
spesso senza importanza. Il modo in cui Ichigo si
arrabbiava, la risata imbarazzata che si concedeva quando combinava un guaio,
la disarmante ingenuità con cui concedeva la sua fiducia.
Dettagli; granelli si sabbia che
però Minto con il tempo aveva imparato a osservare con casuale attenzione,
segnando la distanza fra loro e inconsciamente la voglia di cambiare.
“Sì; ma solo un po’” prosegue Ichigo, dondolando appena sulla sedia. “Tu; Kish; quello che siete; quello che avete costruito” elenca,
le mani che giocherellano fra loro, un misto di imbarazzo e rimpianto che sfuma
in ricordo e rimorsi lasciati sottesi.
“Non è certo stata una
passeggiata” sospira Minto, sorseggiando il thè ormai freddo. Il sapore si è
guastato, e le ricorda una bibita calda e sgasata bevuta in un locale a Golden
Gai, il suo elegante abito da sera in crèpe statin che faceva a pugni con l’ambiente umido, pregno
dell’odore di soia, birra e dello sfrigolare degli yakitoro
dal gusto agrodolce. Kish sussurrava, una complicità
leggera accompagnata dall’alcool e la sensazione di star attraversando un
confine invisibile senza più tornare indietro.
“Lo immagino” concorda Ichigo. “Ma restate comunque fantastici”.
“Solo perchè
non ci hai mai visto litigare.”
“Ma se lo fate ogni momento.”
“Giusto” considera Minto con un
sorriso lieve, lisciando una piega inesistente sulla manica. “E tu invece cosa
fai?”
“Lo tratto come al solito?” la
provoca Ichigo. “Dai, Minto-chan.
Sei gelosa? Lo sai che scherziamo.”
“Cero che lo so” sospira,
abbozzando un sorriso. C’è stato un tempo in cui è stata gelosa, è vero. Un
tempo, all’inizio del suo rapporto con Kish, in cui
temeva di essere solo il ripiego, la seconda scelta. E allora aveva deciso solo
di divertirsi, di rompere la sua immagine di “ragazza di buona famiglia” e
provare cosa fosse una trasgressione. Anche se, ogni volta che vedeva Ichigo e Kish interagire in quel
modo così spontaneo, così complice e rilassato, lo stomaco le si aggrovigliava
e il sorriso di circostanza faceva stridere i denti.
Quel tempo c’è stato; ed è
passato. E’ passato nelle parole che Kish le sussurra
all’orecchio in un’altra lingua, aliena e seducente; é
passato nel modo che Kish ha di provocarla ed esasperarla
ed esserle poi accanto per sostenerla anche contro il mondo intero, anche se
una sua idea potrebbe essere follia. E’ passato quando una notte di aprile, fra
una canzone canticchiata e una birra fresca, ai tavoli de La Fourmi Kish
l’ha baciata per la prima volta, mettendo a tacere tutte le sue rimostranze
inespresse.
“Non parlo di Kish,
infatti”.
“Mm?” Ichigo
ha la cannuccia incastrata fra i denti e gli occhi smarginati di chi vuole
fingere un’ingenuità che nasconde paura. E Minto lo sa, avverte quella paura
pizzicare sotto pelle Ichigo, quasi chiuderle la
gola. E sa che non può tornare indietro, ora che ha preso il coraggio di
attaccare di petto.
“Parlo di Shirogane”
scandisce piano, lenta, perchè Ichigo
non possa permettersi la scusa di non aver sentito. “E di te” aggiunge subito,
con altrettanta calma e compostezza. “E, per favore” la blocca ancora. “Non
raccontarmi la storiella che non sai di cosa stia parlando. Diventi ridicola”.
“E quindi?” le domanda Ichigo, il tovagliolo che si accartoccia nelle sue mani e
una allegria falsa come una moneta di cioccolato. “Ho sempre fatto figuracce.
Una in più cosa cambia?”
“Ichigo”
sospira stanca Minto, un principio di emicrania che preannuncia la difficoltà
di una conversazione troppo a lungo rimandata. “Shirogane”
“É il mio migliore amico” la
interrompe, una nota di agitazione che le fa tremare la voce. “Come
credevo lo fossi tu”.
“E lo sono.”
“In questo momento, non mi
sembra.”
“Perchè?”
le chiede, affettando un’innocenza che è la su arma migliore. Il fatto che
scambino la sua raffinatezza ed eleganza per un sinonimo di vacuità è sempre
stata una delle sue migliori carte da giocare. Sotto la sua graziosa testolina,
come ama dire Kish, c’è un cervellino affilato e
attento, e una lingua ancora più pungente.
La risposta muore a Ichigo sulla punta della lingua, sotto gli occhi di Minto.
C’è in quello sguardo la furbizia sardonica di chi non si lascia ingannare da
facili scuse e Ichigo lo sa bene. Di Minto ha sempre
apprezzato l’acume e la raffinata schiettezza; Minto è stata l’unica, quando ha
annunciato a tutti che si sarebbe sposata, a dirle semplicemente Sei
davvero una stupida.
Avevano litigato, quella volta.
Come non ricordava che avessero mai fatto. L’aveva accusata di essere gelosa,
invidiosa; le aveva detto tante, troppe cose che in realtà non pensava e
pensava che Minto, che se ne era andata indispettita ma con la grazia e la
sicurezza della vincitrice, sarebbe uscita in quel modo dalla sua vita.
E invece alla fine, con sua
sorpresa, Minto era tornata, un sorriso rassicurante ad addolcire la sua
abituale compostezza. E quando il suo matrimonio era crollato, Minto aveva
raccolto il suo dolore e le sue lacrime.
Come aveva fatto Shirogane.
Schirogane che non l’ha mai lasciata sola;
che ha fatto tutto quello che un amico può fare, e molto di più.
Ichigo si mordicchia un labbro, il
sapore della banana e della panna un velo leggero che le addolcisce la bocca.
Perchè non mi piace quello che mi stai dicendo; non mi piace quello che
vuoi farmi dire vorrebbe urlarglielo, ma la voce le si strozza in gola, incastrata
in un pensiero che non riesce ad afferrare. O solo semplicemente non vuole
sfiorare.
“Ichigo”
la chiama Minto, accarezzandole con i pollici la mano che le stringe. Ichigo ha le mani fredde; quando si innervosisce o si
agita, le mani le diventano sempre fredde, e le orecchie le si tingono invece
di rosso. Shirogane dice che è divertente; ed è vero pena con distrazione, mentre
la guarda arricciare infastidita il naso e le labbra in piccole smorfie che
mostrano più di quanto Ichigo non riesca davvero a
dire.
“Davvero non te ne sei mai
accorta?”
“Di cosa?” Si ostina Ichigo, quell’aria da bambina ingenua che la ancora a una
vita prima, a equilibri sottili come ali di libellule. E rassicuranti. Troppo
rassicuranti nel loro essere apparentemente immutabili.
“A Shirogane
tu piaci. Sei sempre piaciuta” le sussurra Minto, sentendosi una sciocca nel
trovarsi nella scomoda posizione di mediare sentimenti altrui. E chiedendosi perchè alla fine tocchi a lei dipanare quel groviglio di
emozioni che li ha bloccati per tanti anni.
“A Shirogane
piace prendermi in giro” glissa Ichigo con una alzata
di spalle, affettando indifferenza.
“Certo” concede Minto. “Ma non sei
così stupida da non esserti accorta che lo fa solo con te.”
“Lo fa anche con Zakuro-neesan” ribatte ostinata, cercando di ignorare
quello che è il ricordo di un sentimento di ragazzina, quando l’amore era
ancora un per sempre senza lacrime e
rimpianti. “E con Asakusa-kun. E con te” continua.
“Riesce anche a farlo con Kish, a volte. Kami. Quando non litigano, ovvio.”
“Glielo hai mai chiesto?”
“Cosa?”
“Se gli piaci”.
“Minto” sbuffa esasperata Ichigo. “Non ho più quindici anni” ride appena,
accarezzando il pensiero che quel discorso ha il sapore di un tuffo nel
passato. E da Quanto Minto lo pianifichi e lo rigiri nella sua testa per dargli
la leggerezza e la forza di una stilettata.
“Chiediglielo allora”.
Minto glielo dice con
indifferenza, come se le stesse offrendo di provare un paio di guanti o quel
vestito che color rosa antico appena occhieggiato nella cabina armadio.
Ichigo la guarda, gli occhi smarginati
fra incredulità e sorpresa, mentre Minto recupera la sua composta indifferenza
e assapora con calma l’ultimo sorso del thè ormai freddo. Anche la smorfia
sottile che le arriccia le labbra è di una eleganza irritante nella sua
naturalezza.
“O hai paura della risposta?”