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Autore: JohnHWatsonxx    06/09/2023    0 recensioni
[Sequel di "Strange"]
2011: John Watson, di ritorno dalla guerra, deve affrontare il più grande nemico della sua storia: sé stesso. Sembra che il suo destino sia stato scritto per finire presto, ma i casi della vita lo porteranno, nel suo ultimo giorno, ad incrociarsi con qualcuno che pensava sarebbe rimasto nel passato, nel lontano 2001. Raramente l'universo è così pigro, oppure si?
(TW: frequenti menzioni a suicidio e pensieri suicidi)
Genere: Dark, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mike Stamford, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'this is me trying'
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Peace

1. Pulled the car off the road to the lookout, could’ve follow my fears all the way down

2011

Se ti avessero detto che il cuore non dimentica, prima di oggi, non ci avresti creduto. Avresti alzato le sopracciglia con fare giudicante e poi ti saresti messo a ridere, perché per te tutto si può dimenticare, tranne gli orrori della guerra. Ti svegli agitato, portandoti la mano sulla tua spalla sinistra, sul punto esatto in cui, mesi fa, ti è entrata una pallottola che ha sfiorato fortunatamente tutti i tuoi organi vitali, e respiri. Inspiri, strizzando gli occhi per scacciare i fotogrammi dell’orrore che ti perseguitano, espiri, e così più volte prima di aprire le palpebre ed essere colpito dalla dura realtà della tua misera, inutile vita. I colori della tua stanza spaziano tra il grigio e il terra di Siena, non una sfumatura brillante ad occupare la tua visuale, solo il nero laccato del tuo bastone d’acciaio, che afferri prontamente per aiutarti a scendere dal letto. Zoppia psicosomatica, che grande cazzata. Tutto il corpo ti duole, le tue membra stanche non ti aiutano minimamente a svolgere le azioni più quotidiane, le mani ti tremano, le gambe non ti reggono, il viso sembra quello di un mastino, con le guance che ti calano giù. Ti guardi allo specchio e non ti riconosci.

Poi, il guizzo di un riflesso di luce che colpisce il metallo argenteo di una pistola, quella che potrebbe essere la tua uscita di sicurezza. Apri il cassetto ogni giorno, analizzando ogni aspetto di quell’oggetto che, lasciato così, non può fare male a nessuno. Ma tu sogni di prenderla in mano, saggiarne la consistenza dura tra le tue dita, sentire che effetto fa poggiarsela sulla tempia, o sulla lingua, vedere com’è non-essere, non-esistere, dimenticare per sempre ed essere per sempre dimenticato. Ma, alla fine, quella pistola non la prendi mai, e ti costringi a vivere un altro giorno. Oggi no, pensi. Oggi, quando tornerai a casa (se così può essere chiamata questa stanza di pensione che il governo ti ha offerto) prenderai quella pistola. Oggi che sono cinque anni da quando ti sei arruolato. Hai aspettato questo giorno per mesi e mesi, costringendo te stesso a guardarti allo specchio ogni giorno e a non riconoscerti più, deformandoti come melma scura davanti ai tuoi occhi, diventando quello che pensavi mai saresti stato. Un suicida, uno romantico.

Ti vesti con automatica lentezza, ed esci da quel buco per respirare un’ultima volta la città in cui sei cresciuto, in cui ti sei formato, in cui hai vissuto. Oggi, che è il tuo ultimo giorno, decidi di andare al parco.

Oggi, che è il tuo ultimo giorno, senti la voce di un uomo che chiama il tuo nome. Non puoi essere tu, la persona a cui si sta riferendo. John è il nome più comune dell’intero Regno Unito, quindi continui a camminare zoppicante verso le fontane, ma quella stessa voce chiama di nuovo il tuo nome, e questa volta anche il cognome, e non puoi che essere te la persona che sta chiamando. Ti giri e Mike Stamford, ingrassato di almeno venti chili, ti viene incontro, ti abbraccia, intavola una conversazione. Sembra che le tue corde vocali non parlassero con qualcuno per così tanto tempo da mesi, e sei grato di poter alzare l’asticella dei motivi per cui vivere oggi che hai deciso di morire. Forse, potresti tornare a casa, guardare la tua pistola, e pensare “Non oggi”.

Vi andate a prendere un caffè, parlate di sua moglie, di suo figlio, della sua vita. Tu ascolti in silenzio, ma la tua concentrazione è rivolta alla tua mano tremante che regge il bicchiere di carta del Costa.

-Hai deciso di rimanere a Londra?- ti chiede e lui non sa dei tuoi piani di oggi, non sa che non rimarrai a Londra e che non rimarrai in vita.

-Non me lo posso permettere, con la pensione militare. E nessuno assume uno zoppo con una sindrome post-traumatica da stress, di questi giorni- è la frase più lunga che sei riuscito a pronunciare dopo mesi. Chiudi gli occhi un attimo, e quando li riapri Mike ti sta sorridendo come se stesse per cambiare la tua vita.

-Sai- inizia, con tono soddisfatto -forse c’è qualcuno che ti può aiutare- poi si alza e ti chiede di seguirlo. Non hai la minima idea di dove stia andando ma lo segui perché non hai niente da perdere. In ogni caso, stasera morirai.

Mike ti porta al Bart’s, l’ospedale universitario dove ti sei formato e dove ora lui lavora. Dio, quel posto, pensi. Quel posto dove hai passato gli anni più belli, dove ti rifugiavi quando la vita dentro casa era troppo da sopportare, quel posto dove eri di turno all’obitorio, alla Vigilia di Natale del 2001, e ti sei addormentato su un tomo di anatomia, dove hai passato giorni bellissimi con i tuoi amici che non senti da anni. Quelle mura, impregnate di storia della tua vita e che ti accolgono come un vecchio amico. Ti fermi per un secondo per metabolizzare l’ondata di ricordi che ti è venuta contro, e Mike ti aspetta pazientemente. Hai capito dove sta andando, nel laboratorio chimico, ma non sai perché. Rimani in silenzio per tutto il tragitto fino alla porta. Dall’altra parte senti delle voci ovattate ma non riesci a connettere i suoni a dei visi familiari. Non vuoi entrare per primo, quindi lasci che Mike si metta davanti a te.

-Guardate chi ho pescato al parco- ti introduce, e quando entri, la prima persona che trovi è Molly, il cui viso si illumina come non avevi mai visto fare a nessuno.

Poi, girandoti verso destra, trovi un’altra persona. Una persona di cui sapresti descrivere ogni dettaglio degli occhi, ogni sfumatura, come cambiano con il tempo e con il suo umore; ogni parte del viso, ora più asciutto e scavato rispetto a dieci anni fa; ogni smorfia di quelle labbra, che hai baciato migliaia di volte. Se ti avessero detto, prima di oggi, che il cuore non dimentica, saresti scoppiato a ridere. Ora, davanti a Sherlock Holmes, rimani in silenzio, ascoltando quello stesso cuore correre all’impazzata nel tuo petto, esattamente come quell’aprile del 2002, sotto la pioggia, sullo stipite di casa sua. Il cuore, decidi alla fine, dimentica solo il superfluo.

Accenni a un sorriso quasi impercettibile quando decidi: non oggi.

Nessuno tranne voi due sa quello che è successo nel 2003 tra di voi. Nessuno sa perché avete smesso di parlarvi all’improvviso e tutti hanno provato a chiedervi perché, da che eravate l’uno la spalla dell’altro, avete finito per non guardarvi più in faccia. Molly e Mike scompaiono dal tuo sguardo e rimane solo lui. Sai perfettamente che la vostra storia è rimasta nascosta a tutti e sai anche che sei stato tu a chiederlo a lui, è stata una delle cose che vi ha separato, e sai anche che in tutti questi anni lui non ne ha parlato con nessuno, perché tu lo conosci.

Prima, arrivano i ricordi belli. Ma quando questi si esauriscono arrivano quelli brutti. Prima, i baci romantici sotto la pioggia, in punta di piedi perché lui è più alto di te; poi, la notte passata a cercarlo, e ritrovarlo in overdose su una panchina nel freddo di gennaio. Prima, la promessa di non ricadere nelle vecchie abitudini; poi, la scorta di eroina sotto l’asse di camera sua. Prima, il sesso totalizzante; poi, quello violento per non litigare, sfogarsi sul corpo dell’altro come una bambola voodoo. Prima, i baci furtivi perché alimentano l’adrenalina nel tuo sangue; poi, lui che ti chiama codardo perché non vuoi farti vedere da nessuno insieme a lui.

È sangue, il sapore che senti in bocca, ti accorgi che ti stai mordendo il labbro compulsivamente. E sono amari e dolci i ricordi che ti legano a lui.

-Afghanistan o Iraq?- chiede. La sua voce è ancora più bassa di come te la ricordassi, d’altro canto sono passati quasi dieci anni.

Ti schiarisci la gola, deglutendo la saliva mista a sangue. -Afghanistan- rispondi, senza accorgerti che le tue mani hanno smesso di tremare e che non ti stai appoggiando al bastone per rimanere in piedi. Sherlock ti guarda ed è indecifrabile, anzi… inscalfibile. Ha piantato un muro tra di voi, talmente alto da impedirti di entrare. Sono passati quasi dieci anni.

C’è elettricità nell’aria, fatta di parole che non escono dalle vostre bocche e di aspettativa per un incontro che ha sorpreso entrambi. Ci pensa Molly a far scoppiare quella bolla.

-Oh, John, che bello rivederti!- esclama vendendoti incontro per abbracciarti. La accogli tra le tue braccia e ritorni indietro nel tempo a quando queste cose erano all’ordine del giorno. Dio, ti manca quella vita, quella spensieratezza.

-Dobbiamo andare a prendere un tè insieme, questi giorni. Possiamo invitare anche Greg- propone.

-Sentite ancora Greg?- chiedi, rendendoti conto che gli amici che erano tuoi, sono diventati vostri e, alla fine, solo suoi. Sono il suo gruppo di amici, le sue spalle, la sua compagnia, non la tua. Tu sei un estraneo.

Molly annuisce vigorosamente, sistemandosi poi la coda e il grembiule, esattamente come faceva anni prima. Poi, prende un bigliettino e te lo passa. C’è il suo numero di telefono.

-Mandami un messaggio, così ci organizziamo, va bene? Io devo tornare al lavoro, quei corpi non si analizzano di certo da soli- non ti dà neanche il tempo di risponderle che è già fuori dalla stanza. E ti accorgi solo ora che anche Mike non c’è. Siete rimasti solo voi due. Riponi il biglietto nella tasca, sicuro che non le invierai mai nessun messaggio, poi alzi gli occhi verso Sherlock, che non ti sta guardando, concentrato ad analizzare qualcosa al microscopio. Non sai cosa fare: parlare? No, lo distrarresti e lui odia essere distratto. Pensi di andartene, ma saresti un codardo, esattamente come lo sei stato anni fa. Quindi rimani fermo, e aspetti che lui dica qualcosa. E infatti, è Sherlock a parlare.

-Mike ti ha fatto venire qui perché stamattina gli ho detto che cercavo un coinquilino- esordisce, e le implicazioni di questa frase sono tantissime, come lo sono i non detti. Non vi vedete da sette anni, da quando, entrando nell’obitorio al piano di sotto, l’hai incrociato mentre usciva. Sette anni in cui ti sei laureato e arruolato, hai combattuto, sei quasi morto e sei tornato a Londra. E lui? Lui cosa ha fatto? Ha una famiglia? Un compagno? Una vita migliore della tua? Non ci vorrebbe molto, pensi, dato che prima di qualche minuto fa eri sicuro ti saresti ucciso stasera.

Ti schiarisci la gola. -Ehm…-

-Non c’è bisogno che tu dica niente, John- il tuo nome, tra le sue labbra, è un lusso che non pensavi di volere e che ti è stato dato in regalo dall’universo che ti sta chiaramente dicendo di non prendere la pistola stasera, a prescindere da come vada questa conversazione. -Capisco perché hai detto di no. Nella tua posizione lo avrei fatto anche io- continua e tu ti senti confuso, estremamente confuso.

-Io non ho detto…-

-Di no?- ti interrompe lui -ma per favore. È chiaro da come hai guardato il numero di Molly che non hai intenzione di mandarle il messaggio e da come ti stai muovendo da quando sei entrato che non vorresti essere qui- ti snocciola parola per parola, deduzione per deduzione e tu impazzisci per questo. L’hai sempre fatto.

-Hai ragione- gli concedi quindi -non vorrei essere qui. Magari in un bar, con una tazza di buon tè inglese, o caffè nero eccessivamente zuccherato, se preferisci. Magari, a parlare. Cristo, sono sette anni che non ci vediamo-

L’hai sorpreso, sai di averlo fatto, perché solo la sorpresa lo costringerebbe a distogliere l’attenzione da qualsiasi cosa stia analizzando in quel maledettismo microscopio per tornare finalmente a guardarti. Sette anni. In sette anni un bambino nasce, impara a camminare, poi a correre, a saltare, va all’asilo, poi alle elementari e comincia a imparare a scrivere. E in tutto questo tempo non vi siete visti. Eppure, ricordi perfettamente il tipo di caffè che prende.

-Prestami il cellulare- ti dice all’improvviso. Non sapendo che fare, glie lo allunghi. Lui manda un messaggio e, prima di restituirtelo fa: -alla fine tua sorella lo ha sviluppato, il suo problema di alcolismo-

Riprendi il telefono, rigirandolo tra le tue mani mentre tieni la bocca aperta sorpreso. Come ha fatto? Da quel semplice oggetto, come diamine ha fatto? Poi lo sblocchi per vedere il messaggio che ha inviato.

Se il fratello ha un a scala verde, arresta il fratello. SH

Quando rialzi lo sguardo su di lui per chiedere spiegazioni, Sherlock aveva già il cappotto addosso, e stava uscendo dal laboratorio.

-Dove…?-

-A prendere questo caffè, l’hai proposto tu- ti interrompe ulteriormente e tu, semplicemente, sorridi.

Non oggi.
 

2. And maybe I don’t quite know what to say but I’m here in your doorway

Sherlock ti porta in un posto chiamato Speedy’s, un piccolo bistrot con un’insegna rossa nel bel mezzo del centro di Londra, appena fuori la fermata della metro di Baker Street. Fuori si è già fatto buio nonostante siano le quattro e mezza e l’aria comincia a farsi fredda. Avvolgi le tue mani sulla tazza di tè per riscaldarle appena e ti accorgi ora che non tremano, come ti sei accorto poco fa che la gamba non ti fa più male e che il bastone ora inizia a darti fastidio. Lui è di fronte a te, perfetto, con il suo caffè zuccherato e la sua sciarpa blu ad avvolgergli il collo. E non parlate, a malapena vi guardate, bevete dalle vostre tazze nascondendo i vostri sguardi tra il vapore.

E poi parlate contemporaneamente.
-Allora…- dice lui
-Quindi…- ti sovrapponi tu. Poi rimanete in silenzio ancora alcuni minuti, e mentre lui beve decidi di parlare.

-Cosa hai fatto, in questi anni?- gli chiedi. Non vorresti essere così banale, ma hai così tante domande, così tanti fili recisi tra di voi che cerchi di riacciuffare, che alla fine non riesci a prenderne neanche uno e rimani a mani vuote. Tra le tue dita scivolano solo batuffoli di conversazioni inutili avuti con altre persone.

-Ho lavorato- ti risponde con la stessa banalità e neanche ti offendi per questo perché ha ragione. Sette anni, una rottura senza chiusura (se non per quella notte), e le domande non dovrebbero essere così banali, la conversazione non dovrebbe essere così piatta. Dovreste urlarvi addosso, menarvi, chiedervi i se e i ma che non sono andati in porto. Dovreste chiedervi come sarebbe la vostra vita, se lui non fosse ricaduto nella spirale della droga e tu avessi avuto il coraggio di sentirti libero. Ma vi trovate in questo bistrot semivuoto e probabilmente destinato al fallimento a guardarvi di sottecchi per non affrontare nessuna conversazione, affogando i vostri dispiaceri nelle bevande che avete scelto.

Il tè non è infinito, e alla fine intravedi la posa delle foglioline aggrappate al fondo della tazza. Ora sei nudo davanti al suo sguardo gelido, impenetrabile.

-Non mi aspettavo che la giornata avrebbe preso questa svolta- gli confessi quindi. Non hai bisogno di dire i veri piani che avevi per questa sera di gennaio, e in tutta franchezza speri che lui non se ne accorga.

-Sono rimasto sorpreso anche io. Quando Mike è tornato al laboratorio con una compagnia mi aspettavo un candidato per l’appartamento, ma non mi aspettavo te. Mai mi sarei aspettato di vederti, non so se questo sia positivo o no- anche Sherlock finisce il suo caffè, e vi ritrovate senza copertina di lino.

Cerchi di ignorare la domanda velata che ti ha posto alla fine del discorso, perché più le lancette dell’orologio girano, più si avvicina l’ora che avevi prestabilito per smettere di vivere, e invece sei in un bar a prendere un tè con la persona che è stata un’ancora di salvezza per il primo anno di università, una persona a cui non hai mai smesso di pensare e per cui hai sempre provato un amore che, ti rendi conto ora, era troppo grande per essere destinato a qualcuno che si è persi di vista per così tanto tempo. Quel tipo di amore che, più lo guardi, più riaffiora forte come sette anni fa. Quindi si, per te è stato positivo incontrarlo oggi. Il mondo ha smesso di essere grigio e terra di Siena e ha cominciato a riprendere i colori della giovinezza: il rosso brillante della tettoia, l’arancione delle mattonelle a muro, il bianco acceso del laboratorio, il blu misto verde degli occhi di Sherlock. Ti sta salvando senza che se ne accorga.

Tossisci leggermente, in imbarazzo. -Un coinquilino mi farebbe comodo- prendi una pausa per goderti la sorpresa negli occhi suoi -ma dipende da dove si trova l’appartamento-

-Qui sopra- si affretta a rispondere lui. Alzi un sopracciglio. Baker Street. Ne avevate parlato, quando stavate insieme, di andare a vivere in questa esatta via, ben collegata, al centro di Londra, vicino all’azione e alla malavita inglese. Poter rientrare dopo aver risolto un caso, baciarvi sul legno della porta, l’unica cosa a separarvi dal mondo esterno. Ricordi perfettamente tutti i piani che avevate ideato insieme, poco prima del tracollo di tutto.
Veramente credevate di essere fatti l’uno per l’altro, per come vi completavate, come solo lui riusciva a capirti e come solo tu riuscivi a capirlo. Era stato naturale mettervi insieme, condividere immediatamente ogni briciolo delle vostre esistenze senza badare al futuro, senza pensare “tutto questo potrebbe finire”, perché non era nei vostri piani. Ma la vita aveva in serbo altro per voi, e alla fine vi siete distrutti a vicenda prima di lasciarvi andare.

Tu, John, hai sempre visto la vostra storia da una porta socchiusa, mai veramente sbattuta. Dopo quella notte, quel settembre del 2003, quando è venuto da te e vi siete lasciati andare a un’ultima notte insieme, lo hai lasciato nel letto da solo, dopo averlo ripulito e coperto, e sei uscito di casa. Camminasti per talmente tanto tempo da perderne la cognizione, perché quello che doveva essere la chiave per chiudere la porta della vostra storia, in realtà è sembrato un bussare docile che ha spostato quella stessa porta avanti di dieci centimetri. Quella notte hai avuto intenzione di tornare a casa, bloccarlo sul letto e finire quello che avevate iniziato, ovvero chiudere per sempre. Ma Sherlock non c’era al tuo ritorno, e tu sei rimasto con un discorso a metà che non è stato possibile enunciare.

Basterebbe un soffio di vento, per riaprire quella storia, uno sbuffo simile a quello che ti accoglie sopra le scale del 221b di Baker Street, davanti a un salotto disordinato e impolverato, pieno di scatoloni. Ci sono due poltrone, sulla sinistra, una rossa scuro e una nera di pelle; un divano poggiato sulla parete destra, un tavolino e una scrivania al centro della sala; un leggio davanti alla finestra, un violino poggiato ad esso. Tutto il salotto urla Sherlock Holmes, così come la cucina trasformata in laboratorio, la pila di tazze di tè sporche nel lavandino, la porta della camera da letto sapientemente chiusa.

La signora Hudson, la piccola donnina che abita di sotto, ti informa dell’esistenza di un’altra stanza da letto al piano di sopra. -Nel caso servisse- precisa in modo ammiccante. Ti sforzi di non arrossire e sali su, trovandoti davanti una camera molto simile in metratura a quella della pensione militare, ma questa sembra più… casa. E quel pensiero ti fa salire le lacrime agli occhi, perché avrebbe potuto essere questo, il tuo futuro, e non uno in cui avresti pianificato minuziosamente il tuo suicidio, dopo anni in guerra col mondo e con te stesso. Non sei la persona che avresti voluto essere quando, dieci anni fa, sognavi del futuro. Questo era quello che volevi: un appartamento in centro, da condividere con la persona che ami, e insieme vivere la vita di tutti i giorni un passo alla volta. Ma sei stato codardo.

E allora ti ricordi cosa fosse successo, il giorno prima che Sherlock scomparisse per poi essere ritrovato in overdose. Avevate litigato, come al solito di quei tempi, ma quella sera eri particolarmente furioso, particolarmente cattivo. Ora ricordi perfettamente cosa gli avessi urlato, prima che lui se ne andasse.

-Tu vuoi rovinarmi la vita- glie lo avevi detto furioso -come hai rovinato la tua- non eri in te, stavi cercando di difenderti perché ti aveva chiesto se avessi pensato all’idea di dire a Molly di loro, perché lei sapeva dei sentimenti di Sherlock per te ma non sapeva di voi. E l’avevi presa così male, sul personale, non avevi neanche cercato di parlarne con lui, hai semplicemente urlato. Non hai sentito ragioni e lui, semplicemente, se n’era andato. E due giorni dopo era su una panchina, più morto che vivo.

Era stata colpa tua.

All’improvviso, quella colpa che avevi sempre diviso a metà, che ti aveva fatto credere che non foste compatibili, ora ricade su di te. Se aveste parlato, se non avessi urlato, se aveste deciso insieme un piano d’azione, lui non avrebbe fatto uso di droghe quel gennaio del 2003, non avreste passato i restanti mesi a litigare, non l’avresti lasciato. Questa sarebbe stata la vostra casa, che avrebbe accolto le vostre vite, i vostri pregi e difetti.

E invece il pensiero della pistola che lo aspetta a casa torna a farsi vivo e preponderante dentro la tua mente, e occupa tutto lo spazio. Le mani riprendono a tremare, le mura si piegano contro di te. Devi andartene.

Scendi velocemente le scale ed entri in salotto, dove Sherlock ti sta aspettando, ma non riesci a guardarlo negli occhi, non riesci neanche ad avvicinarti minimamente a lui. Sei completamente nel panico e non riesci a fermarlo. E se avessi rovinato anche la sua, di vita? Dalla tua codardia, due vite distrutte per sempre.

-Io devo… devo… ciao- balbetti velocemente e senza voltarti scappi, dimenticandoti ancora una volta che la soluzione potrebbe essere un’altra, potrebbe essere girarti effettivamente verso di lui e parlare. Invece, corri, fuori in strada dove trovi la pioggia a bagnarti. Non sai dove andare, hai perso la strada.

Girovaghi per le strade di una città che non senti più tua. Tra un oceano di ombrelli, la tua testa bionda che spicca. Cammini per le strade che avevi percorso da giovane cercando di ricordarne i dettagli senza successo. Passi di nuovo in mezzo al parco, dove solo questa mattina hai incontrato Mike. Guardi le fontane dove eri diretto prima di essere chiamato da lui. Acqua su acqua, come se dovesse ripulirsi da qualche peccato. Forse, alla fine, è oggi il giorno che hai deciso a causa di qualche macabra romanticheria, l’ultimo qui da vivo.

Solo adesso ti decidi a tornare, ora che l’acqua ha appesantito il tuo corpo controbilanciando un’anima che, ad ogni passo, si fa leggera verso il cielo, in attesa del suo destino deciso e scritto. Un suicida è solo un meticoloso serial killer, che pianifica un omicidio quando si alza dal letto, quando fa colazione, quando vive, in attesa di trovare il momento perfetto per attaccare sé stesso, cercando di prendersi di sorpresa, anche se colui che vuole uccidere vive dentro di lui. E un successo per il serial killer è un successo per la vittima. Il suicidio è l’unico assassino in cui vittima e carnefice vanno d’accordo.

John, tu ora torni nella pensione dove ti hanno abbandonato, prendi la pistola che ti hanno concesso di avere, e te la metti in bocca, quella stessa bocca che ha distrutto la tua vita e quella di Sherlock, la stessa che ha amato e ha ucciso, che ha urlato e sussurrato.

Arrivi in quel vicolo stretto proprio nel momento in cui una figura familiare esce dal tuo cancelletto. Non puoi non riconoscere quel cappotto, quel fisico che hai mappato anni e anni prima, quello sguardo pungente che ora ti cattura.

In una mano ha il tuo bastone, che ricordi ora aver dimenticato nel bistrot sotto l’appartamento nella foga di seguirlo di sopra; nell’altra, ha una pistola, la tua.

E infine, la sua voce, supplicante, che ti dice: -la vita non è tua, John. Levagli le mani di dosso-

 
3. I just wanted you to know that this is me trying

Chiudi gli occhi, e lo vedi sulla porta di casa sua, asciutto, mentre cerchi di dirgli che hai lasciato Mary perché ami lui; li apri e vedi lui la sera della vostra ultima volta, davanti alla porta di casa tua. Infine, metti a fuoco, e lo vedi sotto la pioggia scrosciante, bagnato quanto te, disperato quanto te.

-La tua vita non è tua- ripete avvicinandosi a te. Non sai cosa pensare. Sai quanto sia intelligente Sherlock, sai quanto riesca a capire da un solo gesto, ma pensavi che almeno quello saresti riuscito a nasconderlo. Non vuoi sapere come ha fatto, non vuoi che ti venga snocciolato quanto il tuo viso sia evidente e chiaro e limpido.

-Non dovresti essere qui- fai un passo indietro, ma lui ne fa uno in avanti. Dovresti allontanarlo perché la tua mela marcia potrebbe avvelenare la sua, ma sembrate più due calamite.

-John, dovrei essere esattamente qui. È questo il problema. Avrei dovuto essere sempre qui- ribatte e fa un altro passo in avanti. Questa volta non ti allontani.

-Tu non capisci, è colpa mia. È solo colpa mia. Quello che è successo tra noi…-

-È successo in un periodo brutto delle nostre vite- ti interrompe e odi che lo faccia e che lo abbia sempre fatto. -Non mi sono drogato per colpa tua, John. Era già successo prima che mi trovassi-

-Questo non cambia il modo in cui ti ho trattato-

-E non cambia il modo in cui ho trattato te!- comincia ad arrabbiarsi, lo vedi, lo conosci. Spalanca le braccia mentre tiene ancora il bastone e la pistola, i simboli della tua vita andata a rotoli. -Ma questo non ti consente di toglierti la vita. Non te lo permetterò-

Rimani in silenzio, John, perché non sai cosa dire. Sono passati sette anni ma il tuo cuore non ha dimenticato la bellezza di ciò che siete stati, di ciò che hai… avete rovinato.

-Toglierti la vita…- comincia lui -toglierla da chi? La tua morte non ricade su di te. La vittima non saresti tu. Credi veramente che ti lascerei fare una cazzata del genere? No, non nel giorno in cui ho potuto finalmente rivederti-

Fa un altro passo verso di te, ancora non riesci a parlare.

-Ho sempre odiato come sono finite le cose tra di noi. Se ti avessi trovato, quella mattina, forse avremmo potuto risolvere tutto, avremmo potuto parlare, aiutarci a vicenda. Sono sette anni che non mi drogo, John. E io ti avrei aspettato. Io ti sto aspettando-

Percepisci un soffio di vento sul tuo viso, una leggera brezza che non sai da dove provenga, ma che è abbastanza forte da spalancare quella porta che è sempre e solo stata socchiusa, da cui sbirciavi la vostra storia.

-Avrei…avrei…-da quando balbetti, John Watson? Tieni la schiena dritta, allarga le spalle, mento in alto -avrei voluto parlarti, la mattina dopo. Ero uscito per schiarirmi le idee, per capire cosa fare. Io stavo con Mary. Non mi aspettavo che te ne saresti andato così presto, data la quantità di alcol che avevi assunto. Ma quando sono tornato non c’eri più. Avrei voluto chiudere in maniera definitiva-

Vuoi dirgli tutta la verità, cercando di fargli capire che, se quel giorno si fossero visti, la storia non sarebbe continuata come avrebbe voluto lui. Tu non volevi tutto quello, era troppo complicato portare avanti una storia con un uomo e combattere contro te stesso per accettare la cosa. Mary era la soluzione facile, ma a cosa ha portato, se non ad altri problemi?

-Era tutto troppo, per me, Sherlock. Ti amavo così tanto ma la paura in qualche modo ha preso il sopravvento comunque-
Rimanete in silenzio nel bel mezzo della strada, vuota perché il cielo si sta riversando in terra senza tregua.

-Hai ancora paura?- ti chiede Sherlock, e le implicazioni di questa domanda sono molteplici. Entrambi, prima di oggi, avete identificato due problemi che hanno portato alla fine della vostra relazione: l’incapacità di Sherlock di stare lontano dalle droghe, nonostante prima di conoscerti fosse stato pulito per molto tempo; e la tua incapacità di aprirti al mondo perché bloccato dai tuoi stessi pregiudizi. Sai che Sherlock non voleva costringerti a fare coming out con il mondo intero, voleva solo sapere se ne avessi almeno contemplato l’idea, cosa che non hai mai fatto.

Ma adesso sai che è pulito da sette anni, e se la vostra storia sembrava così lontana, immagini ora quanto sette anni siano stati lunghi anche per lui. Quindi, se ti chiede se hai ancora paura, significa chiederti di rimuovere l’unico ostacolo.

Avevi pianificato il tuo suicidio per oggi, 29 gennaio 2011, esattamente alle 20:00, ma le campane hanno scandito il passaggio di quell’ora almeno dieci minuti fa. Quindi, letteralmente, non sai come la tua vita possa continuare perché avevi previsto di non arrivare fino a qui. Tutto, grazie all’uomo che hai davanti. In questi sette anni hai vissuto l’orrore del pronto soccorso, poi quello della guerra e infine quello della tua stessa morte. E hai ancora tanti dubbi in testa: sono passati troppi anni perché possiate riprendere da dove avevate lasciato, sarà come prima? Sarà come avevi desiderato diventasse la tua vita? Ma tra quelle domande non riesci a trovarne una che rispecchi il sentimento di paura. Ansia, aspettativa, eccitazione, persino quell’amore che il tuo cuore non ha mai dimenticato. Ma paura, quella che ti disintegrava dentro quando stavate insieme?

-No- ti ritrovi a rispondere, sorprendendoti di te stesso e della tua voce. Espiri come se ti avessero appena liberato i polmoni da una lunga assenza d’aria, e adesso ti permetti di guardarlo come si deve. La sua figura è scura, e si confonde con la pioggia. Il bastone e la pistola sono ora abbandonati a terra. I capelli gli coprono parte del viso, ma i suoi occhi brillano di luce propria.

Ti rivedi, sulle scale davanti alla porta di casa sua, sette anni fa, che appoggi il capo sul suo petto e ascolti il suo cuore battere all’impazzata, e sei sicuro di riuscire a sentirlo anche adesso che siete a metri di distanza. Percepisci, nel tuo orecchio sinistro, il ritmo costante e tranquillo di un sentimento che si sta risvegliando, di quel posto di “persona da amare” che Sherlock, dentro di te, ha sempre occupato. Lo vedi, giovane e stupendo, che abbassa gli occhi su di te esattamente come aveva fatto quel giorno, quando ti aveva preso per i capelli e ti aveva spinto in quello che sarebbe stato il vostro primo bacio. Riconosci lo stesso sguardo nello Sherlock del presente, ma questa volta vuoi prendere tu l’iniziativa, perché lui ti ha già salvato oggi, il minimo che puoi fare è ricambiare e cercare di salvare lui. Da cosa, ancora non lo sai.

Sai però che le tue gambe si sono mosse prima del tuo cervello, e hanno raggiunto in tre lunghe falcate Sherlock. Con uno slancio veloce ti metti in punta di piedi e hai sempre amato farlo per lui. Allunghi le braccia dietro la sua testa, afferrando con la mano destra i capelli e con la sinistra il suo collo, guidandolo sulle tue labbra. Quando ti bacia chiudi gli occhi e vedi i colori, quelli che la guerra aveva prosciugato dalla tua vita come si fa con l’acqua di una diga. Quando ti avvolge la vita tirandoti leggermente verso l’alto fino ad alzarti dal terreno di qualche centimetro, senti l’infinito. Quando la tua bocca si apre alla sua, e lui inclina la testa a sinistra per toccare più di te, ti accorgi che questo bacio è esattamente come il primo, perché, come il primo, ti restituisce la vita.

Non sai se sono lacrime, quelle che senti sulle tue guance, o la pioggia che sembra volervi coprire dal resto del mondo, e sinceramente non ti interessa. Pensi che, se questi sono i primi 15 minuti della tua vita non pianificata, allora il futuro non può essere malvagio come pensavi.

Mentre si allontana da te per prendere fiato e tu lo rincorri rubando un altro bacio, pensi a una cosa che ti aveva detto anni prima, e che sembra riaffiorare alla mente ora, nel momento più perfetto.

Così sussurri sulle sue labbra: -Raramente l’universo è così pigro-

Sherlock sorride, accennando una piccola risata e, con il sorriso ancora sulle labbra, ti bacia di nuovo e tu, John Watson, non potresti chiedere di meglio.

 
4. And it’s just around the corner, darling, cause it lives in me
(qualche anno dopo…)


Vorresti che baci riuscissero ad aggiustare tutti i traumi che ti porti dentro. Non ci riescono, ma l’aiuto di Sherlock sì. Dopo quella sera, ti sei trasferito seduta stante al 221b di Baker Street: con immensa gioia hai potuto informare l’adorabile signora Hudson che non sarebbe servita la stanza al piano di sopra. Poi, piano piano, ti sei inserito nella nuova vita del tuo coinquilino: i casi, i clienti, il blog, gli spari sul muro e il davanzale del camino accoltellato.

Hai mandato quel messaggio a Molly, hai ritrovato il tuo vecchio amico Greg, e insieme a lui hai dovuto riabituarti alla presenza martellante del fastidioso fratello di Sherlock, ora capo del governo o dell’intelligence o qualcosa del genere. Erano andati bene i primi mesi, e sembrava la vita perfetta per te.

Poi, sono iniziati gli incubi. E gli attacchi di panico. E i pensieri suicidi hanno ripreso a commentare ogni tua azione quotidiana, il più frequente mentre ti stavi rasando, e sentivi la lama passare così vicina alla tua carotide. Indugiavi sempre qualche secondo, prima di sentire i rumori fuori dal bagno -spesso causati da Sherlock- e tornare in te.

Continuavi a ripeterti, come un mantra, che la vita non era tua, e che non potevi arrenderti una seconda volta, non ora che avevi ritrovato il percorso della tua vita. Non volevi parlarne con Sherlock perché non volevi fargli pensare che i suoi sforzi fossero stati vani. Perché vi stavate riscoprendo a poco a poco ed era dolorosamente bello notare quanto poco foste cambiati, ma anche dolorosamente dilaniante renderti conto che tu, in ogni caso, eri una persona diversa. Che sentivi nel petto un dolore che eri sicuro sarebbe durato per sempre.

Una sera, però, erano passati sei mesi dal tuo trasferimento, ha potuto assistere a uno di quei momenti. Stavate cucinando insieme, era la prima volta che accadeva. Avevi preso il coltello in mano per tagliare un peperone rosso ma, involontariamente, hai spostato la lama sulla tua mano, posandola sulla pelle delicatamente. Tutto attorno a te era diventato offuscato, e hai passato tre minuti buoni a cercare, senza successo, di spostare il coltello da lì. E, alla fine, è intervenuto Sherlock che, togliendoti il coltello, ha preso le tue mani tra le sue, ti ha dato un bacio in fronte e ti ha tenuto stretto tutta la notte. La cena era rimasta abbandonata sul tavolo.

Avete scelto insieme la terapista il giorno dopo, e lui ti è stato accanto per tutto il tempo: quando non era impegnato con Lestrade ti accompagnava agli appuntamenti, aspettando per un’ora in sala d’aspetto, pronto a raccogliere i pezzi di te che, lentamente, sotto le cure abili della psicologa, stavano tornando alla luce. Hai continuato ad andarci anche quando hai smesso di stare male, come valvola di sfogo, e per evitare di ricadere in quella spirale di tristezza. La dottoressa Meyer ci aveva messo poche sessioni per diagnosticarti il disturbo depressivo: avrebbe voluto mandarti da uno psichiatra, farti prescrivere dei medicinali, ma tu ti eri rifiutato, scegliendo la strada lunga.

Sei stato preoccupato per Sherlock per tutto il tempo da quando hai cominciato a curarti. E se lui avesse voluto qualcosa di più semplice, di meno spaventoso, di un uomo sull’orlo costante del baratro? Glie lo avevi anche chiesto. -Ti andrebbe bene, se non riuscissi mai a guarire, ti andrei bene lo stesso?-

Lui ti aveva guardato, poi ti aveva baciato e ti aveva risposto: -Tu mi vai bene così come sei. Non sei rotto, sei John- e poi ti aveva spogliato e ti aveva amato per tutta la notte, chiedendoti di non dubitare mai più del suo amore per te.

Quindi: sei mesi per riuscire a dormire una notte intera senza svegliarti in preda agli incubi; un anno e mezzo per poter definire gli attacchi di panico come “rari” e non più “frequenti”; tre anni, per debellare i pensieri suicidi.

Ora sono due anni che non hai episodi come quello del coltello, che non pensi al suicidio ogni giorno ad ogni ora: anzi, non ci pensi mai. È il 2016 e te e Sherlock state insieme da cinque anni, e tu stai uscendo da una gioielleria con una scatolina di velluto nero in tasca. Non pensavi di poter tornare ad amare la vita, ma ora è la tua cosa preferita.

Al di là di Sherlock, i tuoi amici, il tuo lavoro, i tuoi hobby e le tue passioni ti tengono in vita, alimentandoti come un fuoco. Ma sai anche che quel fuoco esiste anche se non esistessero tutte le altre cose: questo non vuol dire rinunciarci, ma tenerci, aggrapparti con tutto te stesso per non perdere la meraviglia che la tua vita ti offre ogni giorno.

Rientri a casa con il suono del violino ad accoglierti, e Sherlock, l’amore della tua vita, è di spalle ma si volta subito verso di te. Ti guarda un istante, uno solo.

-Sì- dice poi, sorridendo a trentadue denti.

-Diamine, Sherlock, posso almeno chiedertelo?-

Lui posa il violino ridendo e si posiziona davanti a te. -Prego, il palco è tuo- non c’è traccia di sarcasmo o ironia nella sua voce. Scuoti la testa, mentre prendi le mani del tuo futuro marito- ti ha già detto di sì.

-Sherlock- cominci quindi, ridendo leggermente, per poi farti più serio. -Tu mi hai salvato la vita, in tutti i modi in cui una persona può essere salvata. Lo hai fatto metaforicamente e letteralmente, da quando mi hai trovato addormentato in un obitorio il giorno di Natale. Mi sento così fortunato a chiamarti mio e averti avuto nella mia prima vita e nella mia seconda vita. E voglio continuare a passare altre vite con te. Quindi-

Lasci una delle sue mani per prendere quella scatolina di velluto e ti inginocchi davanti a lui. Sherlock non si muove e, se non ti avesse già risposto, adesso l’ansia ti starebbe mangiando da dentro. Siete al centro del salotto del vostro appartamento, quello che ha visto il meglio e il peggio di voi, che vi ha accolto e protetto, che vi ha fatto da testimone a tutte quelle piccole prime volte che avete vissuto insieme. Apri la scatola a scoprire una semplice fascia sottile di oro bianco.

-William Sherlock Scott Holmes, vuoi sposarmi?-

-John Hamish Watson- ti risponde lui, facendoti alzare in piedi -l’unico con il potere di farmi ripetere le cose. Si, certo che ti sposo-

Osservi ora la sua mano sinistra con quell’anello e ti sembra ancora più perfetto di quanto non lo fosse già prima. Dio, quanto lo ami. Dio, che bello vivere.
 
 
 


Note: è l'1:29 e sto pubblicando un sequel di una storia che non avrebbe dovuto avere un sequel. Ma va bene. l'unica cosa che ho da dire è che i titoli dei tre paragrafi sono ripresi dal primo verso della canzone "this is me trying" di Taylor Swift, mentre il titolo del quarto paragrafo è ripreso da "peace" sempre di Taylor, che dà anche il titolo alla storia. Spero vi piaccia!
-A
 
 
   
 
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