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Autore: Glenda    15/09/2009    1 recensioni
Finita! ^_^ Magari un giorno inventerò un'altra avventura per l'Unità Culti e Crimini rituali... ------------------------------ Premessa: Questa storia attinge all'ambientazione di un bellissimo gioco di ruolo, "Esoterroristi", pubblicato in Italia dalla Janus Design (http://janus-design.it/). Lo sfondo è quindi quello del gioco, ma il contenuto della storia è completamente originale, poiché nato dalle sessioni di gioco del mio gruppo. I protagonisti della vicenda sono agenti di una sorta di società segreta chiamata "Ordo Veritatis", il cui scopo è cercare di fermare una rete di terrorismo altrettanto segreta che utilizza conoscenze esoteriche e rituali (motivo per cui vengono denominati "esoterroristi") per destabilizzare la realtà. Loro scopo è infatti distruggere il tessuto "oggettivo" del mondo, facendo irrompere in esso elementi del soprannaturale appartenenti all'inconscio collettivo e agli incubi individuali. Attraverso complicati rituali, sono infatti capaci di evocare veri e propri mostri, spiriti, demoni, creature dell'incubo. Compito degli agenti dell'Ordo Veritatis è fermarli...ma, soprattutto, insabbiare le prove della loro esistenza: quanto più, infatti, la gente assisterà ad eventi soprannaturali e li vedrà entrare a far parte della realtà "oggettiva", tanto più gli esoterroristi diverranno potenti. Ma i protagonisti non hanno solo le proprie missioni a cui far fronte, bensì le proprie angosce, le ansie e i problemi nati dal loro continuo contatto con il soprannaturale e con la morte. E devono fare i conti con la propria solitudine, perché essere un agente dell'Ordo Veritatis significa spesso dover rinunciare ad avere dei legami...
Genere: Thriller, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 6

 

Questione di tempo

 

La guida di Diane era prudente e incerta, piena di scatti e ripensamenti: rifletteva il profilo di una donna ansiosa molto più del modo in cui gli aveva parlato prima. Spencer si disse che forse era dovuto all’effetto allucinogeno che stava svanendo, ma in realtà sapeva di star cercando di spiegare con altre motivazioni qualcosa che non gli piaceva ammettere: che in un certo modo quel folle faceva qualcosa di buono per gente come lei. Chissà se Osvald Samerson aveva goduto della sensazione di star risalendo dal baratro in cui era caduto, prima di morire. Tra sé glielo augurava. Eppure, il terrore nei suoi occhi, che erano rimasti fissi nella sua testa, sembrava dirgli che era stata proprio la paura da cui stava scappando ad ucciderlo.

“Tu sai in cosa consiste ciò che stai andando a fare...?” provò a chiedere, pur immaginando la risposta.

“No” rispose Diane “Il maestro non lo dice a nessuno, perché il fatto di avere il coraggio di andare incontro a un evento non programmato è già una prova per quelli come noi...”

Questo era vero: anche Samerson aveva manie di controllo evidenti, eppure era partito per una vacanza dall’oggi al domani, senza lasciare detto niente.

“...Jaspar non lo chiede a tutti, ma solo a quelli che considera più avanti nel percorso, e non siamo certo obbligati ad accettare: sono molti coloro che hanno detto di no. Non c’è nulla di male...”

Spencer cominciava a sospettare con sempre maggior fondamento che lo sfortunato Osvald avesse accolto lo stesso invito della donna che sedeva accanto a lui, e questa consapevolezza lo turbava. Sperò che Darren avesse recepito il suo messaggio e fosse già sulle loro tracce.

“...però, se ti senti pronto, devi essere disposto a metterti in gioco. So bene che ciò che troverò non mi piacerà, che forse dovrò sottopormi a una prova che mi metterà paura...ma credo di esserne all’altezza: mi fido del Maestro...”

Spencer guardò il cellulare, e nel leggere il display, per un attimo fu sul momento di venir meno alla propria interpretazione. Deglutì e recuperò la calma.

“Non c’è campo, qui...” disse

“Oh, può darsi...” commentò la ragazza con poco interesse “Jaspar disprezza i cellulari. Dice sempre che la tecnologia ha lo scopo di ‘controllarci‘. Ognuno di noi dovrebbe avere dei momenti in cui non poter essere trovato. Lui non ha nemmeno il telefono a casa...”

“sai dove abita?”

“Certo che no. Nessuno di noi sa dove vivano gli altri...Il giardino del Cuore è un gruppo anonimo”

Pure questa ci mancava! - Pensò Spencer, che cominciava a pentirsi della malsana idea di accettare quell’invito. Non aveva modo di contattare i suoi colleghi, e loro non potevano servirsi del suo cellulare per rintracciare la sua posizione. In sostanza, era completamente isolato.

Attraversarono una zona boscosa, salendo lungo una strada stretta con curve a gomito, fino a giungere nei pressi di un vecchio cascinale, cadente ma dal fascino rustico.

Era buio pesto, e non c’era una sola luce eccetto quella dei fari della vettura: quando Diane spense il motore, il mondo piombò in una densa oscurità, attenuata solo dal pallore della luna.

Mettendo i piedi a terra con cautela, Spencer notò lo scricchiolio provocato dalle sue scarpe sullo sterrato coperto di ghiaia. Una delle finestre del piano terra s’accese dall’interno, e la porta principale si aprì: sulla soglia comparve Jaspar, che li invitò ad entrare.

“Vedo che sei riuscita a portare il nostro nuovo compagno con te” disse, con la sua voce ammaliante, rivolto a Diane “Non ne dubitavo”

Li lasciò avanzare nella casa, chiuse il portone.

Non ne dubitavo affatto” ripeté, mellifluo “Anzi, sono certo che tu sia venuto proprio per questo: non è così, Spencer Dwight?”

Un lungo brivido passò lungo la schiena di Spencer, e non fu solo per quelle parole, non solo per la consapevolezza di essere stato appena smascherato o per gli occhi di Varga che ora si erano fatti arguti e minacciosi. A terrorizzarlo, era la persona che era comparsa alle sue spalle e che non poteva vedere in viso, ma di cui aveva riconosciuto l’odore d’incenso e il passo lento e misurato. La donna gli puntò una pistola alla schiena, ed estrasse il cellulare dalla sua tasca, gettandolo in terra e mandandolo in pezzi.

“Avevo pensato che saresti stato un ottimo soggetto con cui lavorare, caro ragazzo. Ci avevo quasi creduto” disse “peccato che il giorno dopo qualcuno sia stato a fare strane domande al dottor Keller. Il collegamento era troppo facile, non ti pare?”

Lo costrinse a sedersi e Varga gli legò mani e piedi ai braccioli e alle gambe della sedia.

Ora, Susy Locarno stava in piedi davanti a lui.

“Avremmo potuto aiutare anche te, lo sai?” disse, con un sorriso folle sulle labbra “So che non hai del tutto mentito, so che cosa senti. Ma non si può salvare chi non vuole essere salvato...e una missione richiede delle vittime...”

Si chinò sulle ginocchia, alla sua altezza, e affondò le mani nei suoi capelli in una sinistra carezza.

“Ora dovremo ucciderti, Spencer...” sussurrò al suo orecchio.

Poi si alzò, e baciò la bocca di Jaspar con passione.

Spencer si sentì soffocare.

Che stupidi.

Si erano fatti prendere in giro.

Lui e ‘O Malley ci avevano parlato, erano stati in casa sua, e non avevano capito. Varga e la Locarno erano complici. Erano amanti.

Ed era lei l’esoterrorista pazza.

 

“Maledizione, maledizione, maledizione!!!” ad ogni imprecazione, John Doe batteva un pugno sulla scrivania “Ho perso completamente il segnale: non c’è verso di rintracciarlo!”

Jeanine nel frattempo stava telefonando a tutti i potenziali proprietari di ristorante che vendesse carne di ippopotamo, nel cuore della notte, mentre Darren si muoveva su e giù per l’ufficio, come un animale in gabbia.

Il cellulare suonò ancora: era il numero ‘O Malley.

“Darren, devo parlarti. Credo di aver scoperto qualcosa”

Diavolo, tutto quella notte?

“Il rituale che i nostri esoterroristi stanno cercando di officiare non ha riscontri né nella letteratura esoterica né nella nostra casistica: probabilmente attingono a fonti che non conosciamo o si stanno cimentando in qualcosa di nuovo, il che potrebbe essere la ragione dei reiterati fallimenti che abbiamo ipotizzato. Ma ho trovato ugualmente qualcosa di interessante: negli archivi dell’ordine esiste un documento risalente all’età della prima colonizzazione in cui viene descritto un rituale che può riguardarci. Sembra che venisse usato per evocare una sorta di demone, che viene semplicemente nominato come ‘oscuro’, fatto per incutere il terrore nell’animo di chi lo vede. Ma qua viene il bello: il rituale prevede, come ‘materia prima’, non un sacrificio umano o animale, bensì la paura. La persona designata come vittima sacrificale, in sostanza, veniva messa a confronto con i suoi peggiori timori e - ed ecco la cosa più significativa - si trattava quasi sempre di un giovane ragazzo in età adolescente che si offriva volontariamente di affrontare questa prova come rito di passaggio” fece una pausa “Resta il Taliska, che è un manufatto canalizzatore, e che viene posto all’altezza del cuore, l’organo che più di tutti ‘sente’ la paura, accelerando i suoi battiti. Ciò che ne deduco, è che gli esoterroristi stiamo cercando di utilizzare la paura delle loro vittime come energia per evocare chissà che razza di creatura, e che cerchino vittime tra gli ipocondriaci o i sopravvissuti ad un trauma perché in loro lo spavento è più vivo e palpabile. Poiché la cosa che li terrorizza è il dolore fisico, probabilmente li torturano, e questo spiegherebbe le condizioni in cui abbiamo trovato i corpi. Ma prima di farlo devono renderli consenzienti in qualche modo. Ora, chi potrebbero essere i folli che sono disposti a farsi torturare...?”

Darren non ebbe bisogno di pensarci troppo.

“Dei disturbati mentali che sono nelle mani di un finto psichiatra pazzo, per esempio!” rispose, sbattendo anche lui un vigoroso pugno sulla parete “Bene, Charles. Devo andare”

“Che succede, Darren?” chiese il professore.

“Succede che la tua ipotesi ha senso, e che Dwight è nella merda fino al collo”

“Spencer...? Perché?”

Darren aveva già chiuso la chiamata.

“Ho una pista, capo!” esclamò Jeanine “Ho l’identità del nostro cadavere. John sta rintracciando l’indirizzo”

 

Diane osservava la scena spaventata. Era evidente che non capiva, e questo era bene: almeno lei era estranea a quella storia. Non che facesse quella gran differenza: legato e disarmato, non poteva fare nulla contro nessuno; che gli esoterroristi fossero due o tre non cambiava affatto la sua condizione.

Tuttavia cercava di ragionare: se Diane era la vittima consenziente, che si era spontaneamente offerta di sottoporsi al rituale nella fiducia che si trattasse di chissà che rito salvifico per liberarla dalle sue paure, lui aveva ancora una possibilità almeno di impedire che il rituale avesse effetto. Instillando la diffidenza nella mente di Diane.

“Che succede?” domandò la ragazza, turbata “che cosa ha fatto, Maestro?”

Jaspar si voltò verso di lei con un’espressione seria ma dolce.

“Perdonami, Diane. Ho dovuto servirmi di te per portare quest’uomo qua da noi. Se non lo avessimo fermato avrebbe distrutto tutto ciò che avevamo costruito. E’ della polizia, capisci? La polizia pensa che noi facciamo qualcosa di male...”

Diane si rivolse a lui, e dal suo sguardo Spencer comprese quanto i suoi appigli fossero limitati: la ragazza era completamente succube di Varga, completamente persuasa di star facendo la cosa più giusta.

“Come hai potuto?” gli disse “Io...volevo veramente aiutarti...”

“Ti faranno del male, Diane!” esclamò allora lui, parlando veloce, perché sapeva di avere pochi attimi a disposizione prima che lo mettessero a tacere “Ti tortureranno e ti uccideranno, col pretesto di liberarti del dolore! Non devi, non devi desiderare questo!”

Pensava che lo avrebbero colpito, o imbavagliato, invece quello che si aspettava non accadde: con gentilezza, Jaspar si rivolse a lui.

“Uccidere? Sbagli. Noi non uccidiamo i nostri compagni: è vero, chiediamo loro di accettare un momento di profonda sofferenza, ma questo in cambio di un appagamento molto più grande...”

“Avete detto così anche ad Osvald Samerson?!?” esclamò “Lo avere torturato fino alla morte!”

“Osvald non era pronto...” intervenne Susy Locarno alle sue spalle “Si è tirato indietro...non ha saputo affrontare le sue paure...Ma non è stato forse meglio morire che tornare a condurre una vita che non era vita?”

Il viso di Diane si era fatto più pallido: eppure nei suoi occhi c’era ancora quella luce di follia che la rendeva la vittima perfetta di quei due visionari deliranti. Jaspar e Susy non erano solo esoterroristi pazzi, intenti a fare a pezzi la membrana per liberare il potere della realtà soggettiva...erano anche due fanatici convinti di fare davvero il bene delle proprie vittime, e questo li rendeva doppiamente pericolosi!

“Andiamo, Diane” disse Jaspar, ponendole la mano sulla spalla “Non badare a ciò che dice. Tu sei pronta. Sei pronta per affrontare questa prova e pronta per guarire. Vedrai, non sarà così spaventoso: tu hai già imparato ad accogliere il dolore”

La ragazza annuì, a lasciò che lui la guidasse verso la stanza accanto.

Lo doveva impedire. Lo doveva impedire! Quella volta avrebbe funzionato, era evidente. Se era la partecipazione della vittima ciò di cui avevano bisogno, quella volta non avrebbero fallito.

“Non si cura il dolore con altro dolore, Diane!” gridò, in un ultimo tentativo “E non ci sono rituali magici che ti faranno guarire! L’unica cosa che si può fare, è riuscire ad accettare che quella cosa è accaduta, e che ci sono infinite possibilità che non accada ancora! Quell’uomo non si interessa a te, non gli importa che ti succederà: ha solo bisogno di te per fare del male a qualcun’altro!”

Diane si fermò: un lieve turbamento passò sul suo volto.

Susy Locarno lo guardò con durezza.

“Hai parlato abbastanza” disse “A te penseremo dopo”

Lo doveva impedire - si ripeté ancora. E non aveva un solo strumento per farlo.

Però...se Darren lo avesse trovato...se i suoi colleghi fossero riusciti...forse lui aveva almeno la possibilità di fargli guadagnare tempo.

Poteva trattenerli almeno un po’, offrendogli qualcosa di più urgente del loro rituale, qualcosa per cui valesse la pena aspettare.

Qualcosa che rendesse la sua presenza più importante di quella di Diane.

“Non sono un poliziotto!” gridò con decisione “Sono un agente dell’Ordo Veritatis!”

Jaspar e Susy si volarono all’unisono. Inespressivi.

“Conosciamo il vostro rituale, e soprattutto conosciamo voi!” la paura per ciò che stava facendo gli chiudeva la gola, ma cercò di mantenere la voce chiara e sicura di sé “Anche se mi uccidete, i miei colleghi risaliranno ai  vostri contatti e li prenderanno!”

L’espressione dei loro occhi cambiò.

Aveva attirato la loro l’attenzione.

 

L’edificio era un palazzo anonimo, senza lode e senza infamia, dove avrebbero potuto vivere famiglie piccole o scapoli incalliti. Data la struttura, gli appartamenti potevano misurare al massimo una cinquantina di metri quadrati. La zona non era tra le peggiori né tra le migliori della città. Un luogo mediocre, insomma.

John aveva portato il suo kit da scassinatore: aprì il portone principale, e fece entrare Darren nell’androne. Tra le cassette delle lettere, ne trovarono una senza targhetta: era probabilmente quella del loro indiziato, dato che sulle altre comparivano nomi che non conoscevano. Era piena di pubblicità non ritirata, e nient’altro.

Salirono silenziosamente la scalinata: la tromba delle scale era occupata da un ascensore vecchio di secoli, di quelli a vista, dal sapore antico. A John sarebbe piaciuto provarlo, ma l’ora della notte non lo consentiva.

Perlustrarono i pianerottoli: il nome del morto non compariva da nessuna parte.

Darren stringeva i pugni, non riuscendo a mascherare la sua tensione. Nulla garantiva loro che il loro uomo vivesse ancora lì: le ricerche di Jeanine e di John erano riuscite a risalire solo ad un recapito risalente a otto anni prima, poi di lui scompariva ogni traccia, e non era certo, in fondo, neppure che il nome che aveva fornito al ristoratore fosse la sua vera identità.

Dovevano solo sperare che fosse lo sprovveduto del gruppo, il che era possibile dato che aveva commesso una serie di errori che lo avevano portato a farsi ammazzare. Ma i suoi compagni erano altrettanto superficiali?

Si fermarono davanti ad una porta, anch’essa senza targhetta.

“Aprila” ordinò Darren.

John si mise subito al lavoro, mentre il collega gli reggeva una piccola torcia elettrica. Il silenzio era opprimente e Darren se lo sentiva martellare nelle orecchie. Viveva da anni in quella tensione, viveva sul filo del rasoio da tutta una vita. E allora, perché ultimamente aveva cominciato a pesargli? Era stata la morte di Truman? Oppure stava invecchiando, lentamente, logorato da quella lotta che sembrava non portare mai da nessuna parte?

Si udì un breve cilc, e John spinse lentamente la porta, lasciando uscire uno strano odore dolciastro. Poi scomparve nel rettangolo buio.

Darren udì i suoi passi, poi il silenzio.

Fece per avanzare, ma dal buio arrivò un colpo: il sangue cominciò a colargli da una ferita sulla fronte e scese sugli occhi. Barcollò all’indietro, verso la tromba delle scale, mentre qualcosa o qualcuno gli rovinava addosso.

 

 

Sapeva cosa doveva aspettarsi adesso.

Glielo avevano detto centinaia di volte.

Sapeva cosa capitava ad un agente dell’ordo veritatis che finiva nelle mani degli esoterroristi.

Non lo avrebbero ucciso subito, lo avrebbero torturato fino ad essere certi di aver saputo da lui tutto ciò che si poteva sapere. Poi lo avrebbero ammazzato in qualche modo terribile perché questo servisse da avvertimento alle alte sfere dell’ordine.

Aveva paura.

Non tanto del dolore fisico, anche se l’immagine del corpo martoriato di Osvald gli si ripresentava nella mente come un flash ad intervalli sempre più frequenti. Ciò che sopra ogni cosa lo terrorizzava era l’idea di vivere una situazione già vissuta, l’idea che quell’esperienza risvegliasse nel suo cervello quelle immagini che in qualche modo erano state rimosse per proteggerlo.

L’idea di diventare l’oggetto di un rituale lui stesso...l’idea di essere il veicolo per liberare i mostri che lo svegliavano la notte.

Forse non sarebbe morto subito.

Forse sarebbe impazzito prima.

Susy Locarno si avvicinò a lui e lo afferrò per i capelli, rovesciando la sua testa all’indietro e parlandogli vicinissima, con una voce agghiacciante.

“Non è la prima volta che mi capita tra le mani un membro dell’Ordo Veritatis, lo sai? Ma il primo che ho incontrato ho dovuto ucciderlo senza poterlo interrogare! Era stato più prudente di te, ragazzo: per lo meno era stato attento a non farsi scoprire da vivo!”

Lasciò la sua testa e si mise a passeggiare lentamente attorno a lui, come un avvoltoio.

Il suo compagno aveva portato Diane in un’altra stanza, e forse stava cercando di rassicurarla, e di persuaderla, affinché la loro preziosa vittima non diventasse meno consenziente del previsto.

“Sarò buona con te” continuò, puntandogli l’arma alla fronte “Se mi racconti un po’ di cose interessanti senza fare troppe storie, ti uccido con un colpo alla testa senza farti soffrire. Se invece vuoi farti pregare, beh...”

Spencer rimase zitto, e la donna lo colpì col calcio della pistola facendogli sanguinare il labbro. Detestava il sapore del sangue, smuoveva in qualche modo sensazioni angoscianti dentro di lui.

“N-non mi conviene parlare troppo” disse, illudendosi che lei non si accorgesse di quanto si sentisse vulnerabile in quel momento “perché almeno so che rimarrò in vita finché non avrete la certezza che non ho più nulla da rivelarvi”

“Se credi che la morte sia il male peggiore, allora sei veramente più stupido di quel che credessi”

Sentì aprire una porta e dei passi avvicinarsi. Varga apparve dietro la sua compagna, che gli lasciò spazio: teneva in mano dei lunghi aghi di metallo, che gli ricordarono l’uso che se ne faceva nei riti woodo. Cercò di scacciare il pensiero di cosa ne avrebbe fatto: del resto, Diane si era trapassata la mano con un ago senza emettere un solo lamento, del resto non gli conveniva ucciderlo...poteva resistere...poteva farcela anche lui...

“Cominciamo con una domandina facile: dicci il nome di chi sta sopra di te”

 

La fronte gli pulsava al ritmo dei battiti cardiaci e il sangue gli offuscava la vista, ma non abbastanza da non rendersi conto di cosa stava accadendo. John gli si era scagliato addosso, dopo averlo colpito con uno dei suoi strumenti, e adesso lo stava picchiando con una furia delirante, addossandolo al parapetto e cercando di spingerlo nel vuoto. I suoi occhi erano completamente persi e guardavano fisso qualcosa che allo sguardo di Darren era invisibile.

“John!” gridò, mente si divincolava da lui “JOHN, CAZZO! SONO IO!”

Dalla posizione in cui si trovava poteva provare a sparare, forse poteva colpirlo alla gamba...ma se il colpo fosse arrivato più in alto? Non voleva nemmeno pensare di uccidere un suo compagno con le proprie mani.

L’amico era completamente assente, sordo alle sue parole, anche inconsapevole dei suoi stessi gesti, come una marionetta impazzita: Darren lo colpì con un pungo allo stomaco, di cui lui sembrò quasi non accorgersi, come se quello stato di follia lo rendesse insensibile anche al dolore.

“JOHN, MALEDIZIONE, TORNA IN TE!”

Lo sentì spingere verso il parapetto con tutto il suo peso, come se volesse gettarsi nel vuoto, trascindolo giù con sé. Darren si resse alla ringhiera, con l’altra mano si avvinghiò al collega...non poteva cadere...e non poteva lasciarlo cadere...

Poi lo sentì gridare. Un grido breve, strozzato.

Il corpo di John afflosciò e lui se lo sentì cadere addosso, lasciandosi andare a sedere sul pavimento, con le spalle al parapetto.

Davanti a lui, in piedi, c’era ‘O Malley con in mano il bastone da passeggio.

“E adesso non dire che non hanno ragione, all’ordine, quando sostengono che perdi troppo spesso il controllo delle situazioni” lo rimproverò con voce ferma, mentre si chinava e cercava di sollevare lo svenuto “Fai irruzione nella casa di un presunto esoterrorista come se fosse quella di un comune spacciatore di droga, e non valuti cosa puoi trovarci dentro!”.

Darren non rispose: quella volta Charles aveva tutte le ragioni; era stata tanta la fretta di scoprire dove fosse finito Dwight che non aveva preso una precauzione necessaria. Doveva pensarci.

“E‘ stato un feticcio a fare questo a John, vero?”

“Certamente. E a giudicare dall’odore lo hanno riempito con marjuana e altre sostanze da festa hippie. Sapevi che hanno più effetto se sono costruiti con materiali legati alla vita di chi li fabbrica?“ aggiunse, con fare documentario, per allentare un po’ la tensione “Però in questo caso, più che di feste hippie, parliamo di gente che si droga per perdere il senso del pericolo e la cognizione del dolore. Brutta cosa. Erano meglio le feste, beati anni sessanta!”

“Se adesso entrassimo lì, ci toccherebbe la stessa sorte?”

“Improbabile. La maggior parte dei feticci funziona una volta sola, e non si riattivano quando hanno adempiuto lo scopo. Lo scopo di questo immagino fosse indurre la vittima a aggredire indiscriminatamente chi si fosse trovato accanto. E’ stato pensato ipotizzando che ad aprire sarebbero state più persone, quindi suppongo sia stato messo lì pensando ad una possibile indagine di polizia...” fece una pausa “O magari pensando proprio a voi...”

Darren aveva messo John a sedere per terra, con le spalle alla parete.

“Che facciamo con lui?”

“Gli ho dato una bella botta” fece Charles lisciando il bastone “Non avevo molte scelte. Quando si riprenderà cercherò di ‘disintossicarlo’ da questo contatto con il sovrannaturale, anche se è un lavoro che non rientra nelle mie competenze ma...”

“...in quelle di Dwight”

“Già. In quelle di Dwight. Che è in pericolo e che noi dobbiamo trovare. Quindi, Darren, adesso io entro in quella casa, trovo quel feticcio e cerco di neutralizzarlo. Ma tu...” estrasse dalla tasca dell’impermeabile una pistola a dardi e gliela mise in mano “...tienimi sotto mira, e se impazzisco, sparami. E’ solo sonnifero, non ti preoccupare”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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