Capitolo 6
Questione di
tempo
La
guida di Diane era prudente e incerta, piena di scatti e ripensamenti:
rifletteva il profilo di una donna ansiosa molto più del modo in cui gli aveva
parlato prima. Spencer si disse che forse era dovuto all’effetto allucinogeno
che stava svanendo, ma in realtà sapeva di star cercando di spiegare con altre
motivazioni qualcosa che non gli piaceva ammettere: che in un certo modo quel
folle faceva qualcosa di buono per gente come lei. Chissà se Osvald
Samerson aveva goduto della sensazione di star risalendo dal baratro in cui era
caduto, prima di morire. Tra sé glielo augurava. Eppure, il terrore nei suoi
occhi, che erano rimasti fissi nella sua testa, sembrava dirgli che era stata
proprio la paura da cui stava scappando ad
ucciderlo.
“Tu sai in cosa consiste ciò che stai
andando a fare...?” provò a chiedere, pur immaginando la
risposta.
“No” rispose Diane “Il maestro non lo dice a
nessuno, perché il fatto di avere il coraggio di andare incontro a un evento non
programmato è già una prova per quelli come
noi...”
Questo era vero: anche Samerson aveva manie
di controllo evidenti, eppure era partito per una vacanza dall’oggi al domani,
senza lasciare detto niente.
“...Jaspar non lo chiede a tutti, ma solo a
quelli che considera più avanti nel percorso, e non siamo certo obbligati ad
accettare: sono molti coloro che hanno detto di no. Non c’è nulla di
male...”
Spencer cominciava a sospettare con sempre
maggior fondamento che lo sfortunato Osvald avesse accolto lo stesso invito
della donna che sedeva accanto a lui, e questa consapevolezza lo turbava. Sperò
che Darren avesse recepito il suo messaggio e fosse già sulle loro
tracce.
“...però, se ti senti pronto, devi essere
disposto a metterti in gioco. So bene che ciò che troverò non mi piacerà, che
forse dovrò sottopormi a una prova che mi metterà paura...ma credo di esserne
all’altezza: mi fido del Maestro...”
Spencer guardò il cellulare, e nel leggere
il display, per un attimo fu sul momento di venir meno alla propria
interpretazione. Deglutì e recuperò la
calma.
“Non c’è campo, qui...”
disse
“Oh, può darsi...” commentò la ragazza con
poco interesse “Jaspar disprezza i cellulari. Dice sempre che la tecnologia ha
lo scopo di ‘controllarci‘. Ognuno di noi dovrebbe avere dei momenti in cui non
poter essere trovato. Lui non ha nemmeno il telefono a
casa...”
“sai dove
abita?”
“Certo che no. Nessuno di noi sa dove vivano
gli altri...Il giardino del Cuore è un gruppo
anonimo”
Pure questa ci mancava! - Pensò Spencer, che
cominciava a pentirsi della malsana idea di accettare quell’invito. Non aveva
modo di contattare i suoi colleghi, e loro non potevano servirsi del suo
cellulare per rintracciare la sua posizione. In sostanza, era completamente
isolato.
Attraversarono una zona boscosa, salendo
lungo una strada stretta con curve a gomito, fino a giungere nei pressi di un
vecchio cascinale, cadente ma dal fascino
rustico.
Era buio pesto, e non c’era una sola luce
eccetto quella dei fari della vettura: quando Diane spense il motore, il mondo
piombò in una densa oscurità, attenuata solo dal pallore della
luna.
Mettendo i piedi a terra con cautela,
Spencer notò lo scricchiolio provocato dalle sue scarpe sullo sterrato coperto
di ghiaia. Una delle finestre del piano terra s’accese dall’interno, e la porta
principale si aprì: sulla soglia comparve Jaspar, che li invitò ad
entrare.
“Vedo che sei riuscita a portare il nostro
nuovo compagno con te” disse, con la sua voce ammaliante, rivolto a Diane “Non
ne dubitavo”
Li lasciò avanzare nella casa, chiuse il
portone.
“Non ne dubitavo affatto” ripeté, mellifluo “Anzi, sono certo che tu sia venuto proprio per
questo: non è così, Spencer Dwight?”
Un lungo brivido passò lungo la schiena di
Spencer, e non fu solo per quelle parole, non solo per la consapevolezza di
essere stato appena smascherato o per gli occhi di Varga che ora si erano fatti
arguti e minacciosi. A terrorizzarlo, era la persona che era comparsa alle sue
spalle e che non poteva vedere in viso, ma di cui aveva riconosciuto l’odore
d’incenso e il passo lento e misurato. La donna gli puntò una pistola alla
schiena, ed estrasse il cellulare dalla sua tasca, gettandolo in terra e
mandandolo in pezzi.
“Avevo pensato che saresti stato un ottimo
soggetto con cui lavorare, caro ragazzo. Ci avevo quasi creduto” disse “peccato
che il giorno dopo qualcuno sia stato a fare strane domande al dottor Keller. Il
collegamento era troppo facile, non ti
pare?”
Lo costrinse a sedersi e Varga gli legò mani
e piedi ai braccioli e alle gambe della sedia.
Ora, Susy Locarno stava in piedi davanti a
lui.
“Avremmo potuto aiutare anche te, lo sai?”
disse, con un sorriso folle sulle labbra “So che non hai del tutto mentito,
so che cosa senti. Ma non si può salvare chi non
vuole essere salvato...e una missione richiede delle vittime...”
Si chinò sulle ginocchia, alla sua altezza,
e affondò le mani nei suoi capelli in una sinistra
carezza.
“Ora dovremo ucciderti, Spencer...” sussurrò
al suo orecchio.
Poi si alzò, e baciò la bocca di Jaspar con
passione.
Spencer si sentì
soffocare.
Che
stupidi.
Si erano fatti prendere in
giro.
Lui e ‘O Malley ci avevano parlato, erano
stati in casa sua, e non avevano capito. Varga e la Locarno erano complici.
Erano amanti.
Ed era lei l’esoterrorista
pazza.
“Maledizione, maledizione, maledizione!!!”
ad ogni imprecazione, John Doe batteva un pugno sulla scrivania “Ho perso
completamente il segnale: non c’è verso di
rintracciarlo!”
Jeanine nel frattempo stava telefonando a
tutti i potenziali proprietari di ristorante che vendesse carne di ippopotamo,
nel cuore della notte, mentre Darren si muoveva su e giù per l’ufficio, come un
animale in gabbia.
Il cellulare suonò ancora: era il numero ‘O
Malley.
“Darren, devo parlarti. Credo di aver
scoperto qualcosa”
Diavolo, tutto quella notte?
“Il rituale che i nostri esoterroristi
stanno cercando di officiare non ha riscontri né nella letteratura esoterica né
nella nostra casistica: probabilmente attingono a fonti che non conosciamo o si
stanno cimentando in qualcosa di nuovo, il che potrebbe essere la ragione dei
reiterati fallimenti che abbiamo ipotizzato. Ma ho trovato ugualmente qualcosa
di interessante: negli archivi dell’ordine esiste un documento risalente all’età
della prima colonizzazione in cui viene descritto un rituale che può
riguardarci. Sembra che venisse usato per evocare una sorta di demone, che viene
semplicemente nominato come ‘oscuro’, fatto per incutere il terrore nell’animo
di chi lo vede. Ma qua viene il bello: il rituale prevede, come ‘materia prima’,
non un sacrificio umano o animale, bensì la paura. La persona designata
come vittima sacrificale, in sostanza, veniva messa a confronto con i suoi
peggiori timori e - ed ecco la cosa più significativa - si trattava quasi sempre
di un giovane ragazzo in età adolescente che si offriva
volontariamente di affrontare questa prova come rito
di passaggio” fece una pausa “Resta il Taliska, che è un manufatto
canalizzatore, e che viene posto all’altezza del cuore, l’organo che più di
tutti ‘sente’ la paura, accelerando i suoi battiti. Ciò che ne deduco, è che gli
esoterroristi stiamo cercando di utilizzare la paura delle loro vittime come
energia per evocare chissà che razza di creatura, e che cerchino vittime tra gli
ipocondriaci o i sopravvissuti ad un trauma perché in loro lo spavento è più
vivo e palpabile. Poiché la cosa che li terrorizza è il dolore fisico,
probabilmente li torturano, e questo spiegherebbe le condizioni in cui abbiamo
trovato i corpi. Ma prima di farlo devono renderli consenzienti in qualche modo.
Ora, chi potrebbero essere i folli che sono disposti a farsi
torturare...?”
Darren non ebbe bisogno di pensarci
troppo.
“Dei disturbati mentali che sono nelle mani
di un finto psichiatra pazzo, per esempio!” rispose, sbattendo anche lui un
vigoroso pugno sulla parete “Bene, Charles. Devo
andare”
“Che succede, Darren?” chiese il
professore.
“Succede che la tua ipotesi ha senso, e che
Dwight è nella merda fino al collo”
“Spencer...?
Perché?”
Darren aveva già chiuso la
chiamata.
“Ho una pista, capo!” esclamò Jeanine “Ho
l’identità del nostro cadavere. John sta rintracciando
l’indirizzo”
Diane osservava la scena spaventata. Era
evidente che non capiva, e questo era bene: almeno lei era estranea a quella
storia. Non che facesse quella gran differenza: legato e disarmato, non poteva
fare nulla contro nessuno; che gli esoterroristi fossero due o tre non cambiava
affatto la sua condizione.
Tuttavia cercava di ragionare: se Diane era
la vittima consenziente, che si era spontaneamente offerta di sottoporsi al
rituale nella fiducia che si trattasse di chissà che rito salvifico per
liberarla dalle sue paure, lui aveva ancora una possibilità almeno di impedire
che il rituale avesse effetto. Instillando la diffidenza nella mente di Diane.
“Che succede?” domandò la ragazza, turbata
“che cosa ha fatto, Maestro?”
Jaspar si voltò verso di lei con
un’espressione seria ma dolce.
“Perdonami, Diane. Ho dovuto servirmi di te
per portare quest’uomo qua da noi. Se non lo avessimo fermato avrebbe distrutto
tutto ciò che avevamo costruito. E’ della polizia, capisci? La polizia pensa che
noi facciamo qualcosa di male...”
Diane si rivolse a lui, e dal suo sguardo
Spencer comprese quanto i suoi appigli fossero limitati: la ragazza era
completamente succube di Varga, completamente persuasa di star facendo la cosa
più giusta.
“Come hai potuto?” gli disse “Io...volevo
veramente aiutarti...”
“Ti faranno del male, Diane!” esclamò allora
lui, parlando veloce, perché sapeva di avere pochi attimi a disposizione prima
che lo mettessero a tacere “Ti tortureranno e ti uccideranno, col pretesto di
liberarti del dolore! Non devi, non devi desiderare
questo!”
Pensava che lo avrebbero colpito, o
imbavagliato, invece quello che si aspettava non accadde: con gentilezza, Jaspar
si rivolse a lui.
“Uccidere? Sbagli. Noi non uccidiamo i
nostri compagni: è vero, chiediamo loro di accettare un momento di profonda
sofferenza, ma questo in cambio di un appagamento molto più
grande...”
“Avete detto così anche ad Osvald
Samerson?!?” esclamò “Lo avere torturato fino alla
morte!”
“Osvald non era pronto...” intervenne Susy
Locarno alle sue spalle “Si è tirato indietro...non ha saputo affrontare le sue
paure...Ma non è stato forse meglio morire che tornare a condurre una vita che
non era vita?”
Il viso di Diane si era fatto più pallido:
eppure nei suoi occhi c’era ancora quella luce di follia che la rendeva la
vittima perfetta di quei due visionari deliranti. Jaspar e Susy non erano solo
esoterroristi pazzi, intenti a fare a pezzi la membrana per liberare il potere
della realtà soggettiva...erano anche due fanatici convinti di fare davvero il
bene delle proprie vittime, e questo li rendeva doppiamente pericolosi!
“Andiamo, Diane” disse Jaspar, ponendole la
mano sulla spalla “Non badare a ciò che dice. Tu sei pronta. Sei pronta per
affrontare questa prova e pronta per guarire. Vedrai, non sarà così spaventoso:
tu hai già imparato ad accogliere il dolore”
La ragazza annuì, a lasciò che lui la
guidasse verso la stanza accanto.
Lo doveva impedire. Lo doveva impedire!
Quella volta avrebbe funzionato, era evidente. Se era
la partecipazione della vittima ciò di cui avevano bisogno, quella volta non
avrebbero fallito.
“Non si cura il dolore con altro dolore,
Diane!” gridò, in un ultimo tentativo “E non ci sono rituali magici che ti
faranno guarire! L’unica cosa che si può fare, è riuscire ad accettare che
quella cosa è accaduta, e che ci sono infinite possibilità che non accada
ancora! Quell’uomo non si interessa a te, non gli importa che ti succederà: ha
solo bisogno di te per fare del male a
qualcun’altro!”
Diane si fermò: un lieve turbamento passò
sul suo volto.
Susy Locarno lo guardò con
durezza.
“Hai parlato abbastanza” disse “A te
penseremo dopo”
Lo doveva impedire - si ripeté ancora. E non
aveva un solo strumento per farlo.
Però...se Darren lo avesse trovato...se i
suoi colleghi fossero riusciti...forse lui aveva almeno la possibilità di fargli
guadagnare tempo.
Poteva trattenerli almeno un po’,
offrendogli qualcosa di più urgente del loro rituale, qualcosa per cui valesse
la pena aspettare.
Qualcosa che rendesse la sua presenza più
importante di quella di Diane.
“Non sono un poliziotto!” gridò con
decisione “Sono un agente dell’Ordo Veritatis!”
Jaspar e Susy si volarono all’unisono.
Inespressivi.
“Conosciamo il vostro rituale, e soprattutto
conosciamo voi!” la paura per ciò che stava facendo gli chiudeva la gola, ma
cercò di mantenere la voce chiara e sicura di sé “Anche se mi uccidete, i miei
colleghi risaliranno ai vostri
contatti e li prenderanno!”
L’espressione dei loro occhi
cambiò.
Aveva attirato la loro l’attenzione.
L’edificio era un palazzo anonimo, senza
lode e senza infamia, dove avrebbero potuto vivere famiglie piccole o scapoli
incalliti. Data la struttura, gli appartamenti potevano misurare al massimo una
cinquantina di metri quadrati. La zona non era tra le peggiori né tra le
migliori della città. Un luogo mediocre, insomma.
John aveva portato il suo kit da
scassinatore: aprì il portone principale, e fece entrare Darren nell’androne.
Tra le cassette delle lettere, ne trovarono una senza targhetta: era
probabilmente quella del loro indiziato, dato che sulle altre comparivano nomi
che non conoscevano. Era piena di pubblicità non ritirata, e nient’altro.
Salirono silenziosamente la scalinata: la
tromba delle scale era occupata da un ascensore vecchio di secoli, di quelli a
vista, dal sapore antico. A John sarebbe piaciuto provarlo, ma l’ora della notte
non lo consentiva.
Perlustrarono i pianerottoli: il nome del
morto non compariva da nessuna parte.
Darren stringeva i pugni, non riuscendo a
mascherare la sua tensione. Nulla garantiva loro che il loro uomo vivesse ancora
lì: le ricerche di Jeanine e di John erano riuscite a risalire solo ad un
recapito risalente a otto anni prima, poi di lui scompariva ogni traccia, e non
era certo, in fondo, neppure che il nome che aveva fornito al ristoratore fosse
la sua vera identità.
Dovevano solo sperare che fosse lo
sprovveduto del gruppo, il che era possibile dato che aveva commesso una serie
di errori che lo avevano portato a farsi ammazzare. Ma i suoi compagni erano
altrettanto superficiali?
Si fermarono davanti ad una porta, anch’essa
senza targhetta.
“Aprila” ordinò
Darren.
John si mise subito al lavoro, mentre il
collega gli reggeva una piccola torcia elettrica. Il silenzio era opprimente e
Darren se lo sentiva martellare nelle orecchie. Viveva da anni in quella
tensione, viveva sul filo del rasoio da tutta una vita. E allora, perché
ultimamente aveva cominciato a pesargli? Era stata la morte di Truman? Oppure
stava invecchiando, lentamente, logorato da quella lotta che sembrava non
portare mai da nessuna parte?
Si udì un breve cilc, e John spinse
lentamente la porta, lasciando uscire uno strano odore dolciastro. Poi scomparve
nel rettangolo buio.
Darren udì i suoi passi, poi il
silenzio.
Fece per avanzare, ma dal buio arrivò un
colpo: il sangue cominciò a colargli da una ferita sulla fronte e scese sugli
occhi. Barcollò all’indietro, verso la tromba delle scale, mentre qualcosa o
qualcuno gli rovinava addosso.
Sapeva cosa doveva aspettarsi
adesso.
Glielo avevano detto centinaia di
volte.
Sapeva cosa capitava ad un agente dell’ordo
veritatis che finiva nelle mani degli
esoterroristi.
Non lo avrebbero ucciso subito, lo avrebbero
torturato fino ad essere certi di aver saputo da lui tutto ciò che si poteva
sapere. Poi lo avrebbero ammazzato in qualche modo terribile perché questo
servisse da avvertimento alle alte sfere dell’ordine.
Aveva
paura.
Non tanto del dolore fisico, anche se
l’immagine del corpo martoriato di Osvald gli si ripresentava nella mente come
un flash ad intervalli sempre più frequenti. Ciò che sopra ogni cosa lo
terrorizzava era l’idea di vivere una situazione già vissuta, l’idea che
quell’esperienza risvegliasse nel suo cervello quelle immagini che in qualche
modo erano state rimosse per proteggerlo.
L’idea di diventare l’oggetto di un rituale
lui stesso...l’idea di essere il veicolo per liberare i mostri che lo
svegliavano la notte.
Forse non sarebbe morto
subito.
Forse sarebbe impazzito
prima.
Susy Locarno si avvicinò a lui e lo afferrò
per i capelli, rovesciando la sua testa all’indietro e parlandogli vicinissima,
con una voce agghiacciante.
“Non è la prima volta che mi capita tra le
mani un membro dell’Ordo Veritatis, lo sai? Ma il primo che ho incontrato ho
dovuto ucciderlo senza poterlo interrogare! Era stato più prudente di te,
ragazzo: per lo meno era stato attento a non farsi scoprire da
vivo!”
Lasciò la sua testa e si mise a passeggiare
lentamente attorno a lui, come un avvoltoio.
Il suo compagno aveva portato Diane in
un’altra stanza, e forse stava cercando di rassicurarla, e di persuaderla,
affinché la loro preziosa vittima non diventasse meno consenziente del
previsto.
“Sarò buona con te” continuò, puntandogli
l’arma alla fronte “Se mi racconti un po’ di cose interessanti senza fare troppe
storie, ti uccido con un colpo alla testa senza farti soffrire. Se invece vuoi
farti pregare, beh...”
Spencer rimase zitto, e la donna lo colpì
col calcio della pistola facendogli sanguinare il labbro. Detestava il sapore
del sangue, smuoveva in qualche modo sensazioni angoscianti dentro di
lui.
“N-non mi conviene parlare troppo” disse,
illudendosi che lei non si accorgesse di quanto si sentisse vulnerabile in quel
momento “perché almeno so che rimarrò in vita finché non avrete la certezza che
non ho più nulla da rivelarvi”
“Se credi che la morte sia il male peggiore,
allora sei veramente più stupido di quel che
credessi”
Sentì aprire una porta e dei passi
avvicinarsi. Varga apparve dietro la sua compagna, che gli lasciò spazio: teneva
in mano dei lunghi aghi di metallo, che gli ricordarono l’uso che se ne faceva
nei riti woodo. Cercò di scacciare il pensiero di cosa ne avrebbe fatto: del
resto, Diane si era trapassata la mano con un ago senza emettere un solo
lamento, del resto non gli conveniva ucciderlo...poteva resistere...poteva
farcela anche lui...
“Cominciamo con una domandina facile: dicci
il nome di chi sta sopra di te”
La fronte gli pulsava al ritmo dei battiti
cardiaci e il sangue gli offuscava la vista, ma non abbastanza da non rendersi
conto di cosa stava accadendo. John gli si era scagliato addosso, dopo averlo
colpito con uno dei suoi strumenti, e adesso lo stava picchiando con una furia
delirante, addossandolo al parapetto e cercando di spingerlo nel vuoto. I suoi
occhi erano completamente persi e guardavano fisso qualcosa che allo sguardo di
Darren era invisibile.
“John!” gridò, mente si divincolava da lui
“JOHN, CAZZO! SONO IO!”
Dalla posizione in cui si trovava poteva
provare a sparare, forse poteva colpirlo alla gamba...ma se il colpo fosse
arrivato più in alto? Non voleva nemmeno pensare di uccidere un suo compagno con
le proprie mani.
L’amico era completamente assente, sordo
alle sue parole, anche inconsapevole dei suoi stessi gesti, come una marionetta
impazzita: Darren lo colpì con un pungo allo stomaco, di cui lui sembrò quasi
non accorgersi, come se quello stato di follia lo rendesse insensibile anche al
dolore.
“JOHN, MALEDIZIONE, TORNA IN TE!”
Lo sentì spingere verso il parapetto con
tutto il suo peso, come se volesse gettarsi nel vuoto, trascindolo giù con sé.
Darren si resse alla ringhiera, con l’altra mano si avvinghiò al collega...non
poteva cadere...e non poteva lasciarlo
cadere...
Poi lo sentì gridare. Un grido breve,
strozzato.
Il corpo di John afflosciò e lui se lo sentì
cadere addosso, lasciandosi andare a sedere sul pavimento, con le spalle al
parapetto.
Davanti a lui, in piedi, c’era ‘O Malley con
in mano il bastone da passeggio.
“E adesso non dire che non hanno ragione,
all’ordine, quando sostengono che perdi troppo spesso il controllo delle
situazioni” lo rimproverò con voce ferma, mentre si chinava e cercava di
sollevare lo svenuto “Fai irruzione nella casa di un presunto esoterrorista come
se fosse quella di un comune spacciatore di droga, e non valuti cosa puoi
trovarci dentro!”.
Darren non rispose: quella volta Charles
aveva tutte le ragioni; era stata tanta la fretta di scoprire dove fosse finito
Dwight che non aveva preso una precauzione necessaria. Doveva pensarci.
“E‘ stato un feticcio a fare questo a John,
vero?”
“Certamente. E a giudicare dall’odore lo hanno
riempito con marjuana e altre sostanze da festa hippie. Sapevi che hanno più
effetto se sono costruiti con materiali legati alla vita di chi li fabbrica?“
aggiunse, con fare documentario, per allentare un po’ la tensione “Però in
questo caso, più che di feste hippie, parliamo di gente che si droga per perdere
il senso del pericolo e la cognizione del dolore. Brutta cosa. Erano
meglio le feste, beati anni sessanta!”
“Se
adesso entrassimo lì, ci toccherebbe la stessa
sorte?”
“Improbabile. La maggior parte dei feticci funziona una
volta sola, e non si riattivano quando hanno adempiuto lo scopo. Lo scopo di
questo immagino fosse indurre la vittima a aggredire indiscriminatamente chi si
fosse trovato accanto. E’ stato pensato ipotizzando che ad aprire sarebbero
state più persone, quindi suppongo sia stato messo lì pensando ad una possibile
indagine di polizia...” fece una pausa “O magari pensando proprio a
voi...”
Darren aveva messo John a sedere per terra, con le spalle
alla parete.
“Che
facciamo con lui?”
“Gli
ho dato una bella botta” fece Charles lisciando il bastone “Non avevo molte
scelte. Quando si riprenderà cercherò di ‘disintossicarlo’ da questo contatto
con il sovrannaturale, anche se è un lavoro che non rientra nelle mie competenze
ma...”
“...in quelle di
Dwight”
“Già.
In quelle di Dwight. Che è in pericolo e che noi dobbiamo trovare. Quindi,
Darren, adesso io entro in quella casa, trovo quel feticcio e cerco di
neutralizzarlo. Ma tu...” estrasse dalla tasca dell’impermeabile una pistola a
dardi e gliela mise in mano “...tienimi sotto mira, e se impazzisco, sparami.
E’ solo sonnifero,
non ti preoccupare”
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