
C'era una luce sotto il mio letto. Una luce rossastra che baluginava sulle pareti e pulsava come un lampeggiante. Forse stavo sognando, oppure no. Mi sporsi dal materasso. guardai giù.
Una mano cadaverica sbucò da sotto il letto, mi strinse il collo, le dita che premevano sulla pelle, le unghie che mi laceravano la carne. Urlai per il dolore, ma non avevo voce.
Mi svegliai.
Ero nel mio letto fradicio di sudore, il cuore che mi martellava nel petto. Era stato solo un incubo. Un orrendo incubo. Guardai sotto il mio letto. Nessuna luce. Niente di niente.
— Sembrava reale — dissi. — Quella mano... era reale.
Garry e io sedevamo a un tavolino fuori dal bar. Un posto tranquillo, familiare. Poca gente seduta ai tavoli. Un chiacchiericcio continuo, il rumore del traffico lontano.
Lui bevve un sorso di caffè dalla tazzina. — Non ti fa bene restare alzato fino a tardi.
— Ma non c'entra niente con i miei incubi — risposi. — Sono sempre stato un nottambulo. E poi soffro d'insonnia, lo sai. Credo che significhi qualcosa.
— Cosa? — chiese Garry. — Per me non significa niente. E poi fai sempre lo stesso sogno ogni notte. Devi rilassarti.
Soffiai sul mio caffelatte bollente. — Perché non mi credi?
— Dici sul serio?
— Sono serio, sì.
Garry scosse la testa con un sorriso, bevve un altro sorso di caffè. — Devi farti vedere da uno bravo.
— Sì, scherza pure. Ma ti dico che quell'incubo significa qualcosa.
Verso sera mi sedetti sul divano con il portatile in grembo. Era esausto. Sospirai e cercai sul web il significato del mio sogno. Non sapevo bene come fare una ricerca mirata, perciò andai a tentoni. Cercai il significato del colore rossastro nel sogno, della mano cadaverica, della mia stanza. Cercai ovunque, ma trovai solo vaghe risposte. Ogni sito diceva le stesse cose e sembrava una copia di quello precedente.
Ero sicuro che il mio incubo significava qualcosa. Lo sentivo nella pelle. Una sensazione sgradevole, che mi metteva in guardia. Da cosa? Non lo so. Ma ero deciso a scoprirlo.
Continuai a cercare per tre ore. Mi addormentai per la stanchezza.
L'indomani, a pausa pranzo, andai a mangiare un boccone nella tavola calda dall'altra parte della strada. C'erano solo due clienti ricurvi sul bancone. La cassiera, una ragazzina che non aveva più di diciottenni, stava filtrando con il cuoco trentenne. Lui non se la filava di striscio. Profumo di uova fritte.
Garry entrò nel locale e si sedette di fronte a me sul divanetto. — Hai saputo di Courtney? È stata licenziata.
Aggrottai la fronte. — Cosa? Perché?
— Non lo so, ma ho sentito dire che ci saranno tagli al personale. Spero di non essere il prossimo. Questo lavoro mi serve. Fa schifo, ma mi serve. Ho due figli da mantenere.
Non risposi. Non mi importava di essere licenziato. Lavoravo come magazziniere in una delle grandi catene di supermercati degli Stati Uniti. Avrei trovato qualcos'altro da fare. La cosa più importante era il mio incubo, il suo significato. Il mondo là fuori non m'interessava.
— Mi hai sentito? — chiese Garry.
Annuii.
— Non ti frega niente?
— Certo, che mi frega — mentii. — E solo che è inutile pensarci. Se ci vogliono licenziare, lo faranno.
Una cameriera sui trent'anni raggiunse il nostro tavolo. Garry le lanciò un'occhiata.
— Altro caffè? — domandò lei.
— Sì, grazie — risposi.
— Anche per me — disse Garry.
La cameriera ci versò il caffè con un sorriso, si allontanò.
— Perché non la inviti a uscire? — chiese Garry. — Hai bisogno di svagarti, uscire di casa. Se non fossi sposato, l'avrei fatto io.
— Non è una buona idea — risposi cupo.
— Perché?
— Perché... — dissi. Che scusa poteva inventarmi? — Perché non le piaccio.
— Se non glielo chiedi, non lo saprai mai. Ma sono sicuro che le piaci. Si vede da come ti guarda.
Soffiai nella tazza, bevvi un sorso di caffè. Il mio incubo era più importante. Non aveva né la testa né la voglia di stare con una donna. Non volevo rovinarle la vita, rubarle il tempo.
Verso le sette e mezza di sera parcheggiai la mia auto nello spiazzo davanti alla biblioteca. Un edificio di due piani al centro di un grande giardino curato. M'incamminai nel vialetto fiancheggiato da arbusti e alberi. Una coppia stava pomiciando su una panchina. Un cane raspava tra i rifiuti di un bidone. La luce sfarfallata di un lampione.
Varcai la porta.
Varcai la porta.
Centinaia di scaffali pieni di libri lungo le pareti di legno. Dozzine di persone sparse tra i tavoli nella grande sala. Odore di libri nuovi, acqua di colonia.
Raggiunsi l'anziana donna alla reception. — Salve. Sto cercando dei libri sui sogni. Ne avete?
Lei pigiò alcuni tasti sulla tastiera del computer, osservò lo schermo per un momento. — Sì, fila ventidue. — Puntò il dito ringrinzito verso un punto lontano della sala. — Vede lo scaffale vicino alle scale? Lì c'è una sezione dei libri che sta cercando.
— Grazie — dissi.
Attraversai la sala. Qualche colpo di tosse, un mormorio spezzato. Mi fermai davanti allo scaffale. C'erano solo una ventina di libri. Ne presi uno, lo scrutai. Sembrava vecchio di trent'anni. Lo aprii, lo lessi a saltelli. Non era quello che cercavo. Lo riposi e ne sfogliai altri. Al settimo tentativo, ne beccai uno interessante.
Andai a sedermi. Non era il solito libro sul mondo dei sogni. Era scritto in modo criptico, assai inquietante. L'autore era un certo Thomas Blake, un inglese affascinato dall'esoterismo. Nella sua mini biografia c'era scritto che aveva vissuto per venti anni da solo arroccato in un caseggiato in rovina in mezzo alle montagne. Non diceva dove, ma spiegava che questo lo aveva portato alla conoscenza divina. Aveva incontrato un essere che lui chiamava Dio e gli aveva detto di scrivere quel libro. Poi era impazzito e aveva ucciso il suo amico. Non si era mai capito il motivo, ma si diceva che fosse stato a causa del libro che aveva scritto. L'amico gliela aveva rubato e lui l'aveva ucciso. Personalmente sembrava troppo surreale. Uccidere per un libro? Roba da pazzi. Non aveva senso.
Girai la pagina, comincia a leggere il primo capitolo. Le parole scorrevano inquietanti, cupe. Le frasi si ammassavano nella mia mente. Uno strano tremolio mi pervase la testa.
Smisi di leggere.
Che stava succedendo? Che il libro fosse davvero in grado di far impazzire la gente? No, era ridicolo.
Mi voltai.
La gente era sparita. Un silenzio spettrale regnava tutt'attorno. Oscurità totale, impenetrabile. Solo la luce che illuminava il mio tavolo era accesa. Non riuscivo a scorgere nemmeno le luci dei lampioni fuori dalle ampie vetrate.
Il cuore mi batteva all'impazzata. — C'è nessuno?
Silenzio.
— C'è qualcuno?
Mi guardai attorno. Solo una parete oscura che mi cingeva da ogni lato. Ci allungai una mano. Quella sparii nel buio. Sbarrai gli occhi, ritrassi la mano sconvolto. C'era un moncone al suo posto. Indietreggiai e caddi sul pavimento. Non sentivo più le gambe. Tentai di muoverle, ma quelle erano pesanti come macigni. Cominciai a sudare freddo, la gola secca.
— Volavano troppo in alto — bisbigliò una voce da donna attorno a me.
Sobbalzai, lo sguardo che vaga in tutte le direzione in preda al panico. — Chi c'è? Chi sei?
Un'intensa luce rossastra mi accecò per un momento. Giungeva a diversi metri da me e illuminava un corridoio fiancheggiato da scaffali pieni di libri. La luce si affievolì lentamente. La porta di legno si aprì con un cigolio.
Una figura si fermò sulla soglia.
Mi svegliai.
Ero seduto sul divano del mio appartamento, il libro dei sogni tra le mani. Fissai la copertina. Una donna vestita con un lungo vestito bianco danzava sotto la luna piena. Sopra la scritta, Il sogno un lungo abisso.
Mi accigliai confuso. Che titolo strano. Aspetta! Perché ero nel mio appartamento? Perché non ricordavo niente? Che sta succedendo?
Posai il libro sul divano e andai alla finestra. La strada sottostante deserta sotto un cielo di un nero pece privo di stelle. Un silenzio inquietante riverberava tutt'attorno. Nel quartiere in cui vivevo c'era sempre casino. Un via vai di veicoli che sfrecciavano a tutte le ore, gente che strillava senza motivo. Ora sembrava che non ci fosse più nessuno. Che stessi sognando?
Mi pizzicai il braccio, smorzai un gemito di dolore.
No, era tutto reale.
No, era tutto reale.
Raggiunsi il divano, presi il libro e lo aprii. Il frontespizio era bianco. Nessuna parola. Nessuna frase. Niente di niente. Aggrottai la fronte turbato. Sfogliai rapidamente le altre pagine. Il libro era vuoto. Mi accigliai turbato. Lo chiusi con forza e lo gettai sul divano.
Mi guardai intorno confuso. Il soggiorno avvolto dalla penombra. La luce di un lampione illuminava un quadro paesaggistico acquistato mesi a dietro da un pittore in Nebraska. C'era qualcosa di strano in quel dipinto. Mi avvicinai. Le fronde dei pini, un tempo verdi, ora erano neri. L'occhio cadde su una strana figura vicina al ruscello. Prima non c'era, lo ricordavi bene.
Era la stessa del mio sogno.
Ora ricordavo.
Era la stessa del mio sogno.
Ora ricordavo.
Arretrai confuso. Non stavo capendo più niente. Che diavolo stava succedendo?
La figura prese a camminare nel dipinto. Avanzava con passo deciso verso di me, la sagoma che vibrava come una sorta di interferenza.
Corsi verso la porta, girai la maniglia. Non andava. Sembrava bloccata. Girai, tirai freneticamente. Un tonfo. Qualcosa era caduto alle mie spalle. Mi voltai lentamente in preda al terrore.
La figura era in piedi davanti al dipinto. Era grigia e senza volto. Le linee del corpo ricordavano le curve sottili di una donna. Una soffusa luce rossastra pulsava nel suo petto.
La fissai tremante per un momento. Non avevo mai avuto così paura in tutta la mia vita.
La figura si mosse verso di me. Mi voltai, girai la maniglia come un matto, la fronte imperlata di sudore. — Apriti! Apriti! Apriti!
— Mi scusi — disse una voce da donna alle mie spalle.
Mi voltai di scatto frastornato.
Ero di nuovo in biblioteca.
Ero di nuovo in biblioteca.
— Dobbiamo chiudere — continuò la bibliotecaria. Aggrottò la fronte preoccupata. — Si sente bene?
Cosa diavolo era successo? — Sì... sto bene. Grazie.
La donna si allontanò.
Abbassai lo sguardo sul libro dei sogni. Ero arrivato a pagina ventuno. Una frase mi saltò all'occhio. Volarono troppo in alto a sfiorare le nuvole e le nuvole sfiorarono le loro menti. Una fitta al petto. Chiusi gli occhi, smorzai un grido di dolore. La testa mi pulsava, mi coprii gli occhi infastidito dalla luce. Cosa diavolo mi stava succedendo?
Una volta a casa, passai tutta la notte a leggere il libro seduto al balcone. Più leggevo, più mi sentivo strano. Mi sembrava di essere un altro. Qualcuno che era sempre stato nelle mia testa. Un prigioniero a lungo dimenticato. La luce rossastra doveva essere una sorta di collegamento tra me e lei. Un ponte che legava i nostri spiriti. Ma non capivo cosa significasse la sagoma che era uscita dal dipinto.
Sollevai gli occhi dal libro. Il cielo grigio dietro i tetti dei palazzi, il sole stava per sorgere. Guardai l'orologio al polso, le sei e ventuno minuti. Dovevo prepararmi per andare a lavoro.
Passai tutto il giorno a pensare a ciò che mi era accaduto. Mi sentivo strano, alienato. Mi era sembrato tutto reale. Non poteva essere un sogno. Le sensazioni che aveva provato erano state vivide, reali.
Evitai di parlarne con Garry. Non avrebbe capito. Qualcosa mi diceva di non farne parola con nessuno, che il libro era solo mio. In che senso era solo mio? Non capivo. Ma la stessa vocina mi diceva che presto lo avrei capito.
Stavo diventando matto? Sentivo una specie di voce nella mia testa e non era la mia. Assomigliava a quella della strana sagoma. Una voce femminile di cui non riuscivo a distinguere il tono. E poi c'era quel prigioniero nella mia testa. Adesso lo sentivo in modo chiaro. Riuscivo persino a scorgerlo nella mia mente. Era me. Ero io. Ero nessuno e tutto. E lui mi parlava del libro. Mi diceva quanto fosse importante. Più importante della mia stessa vita. Io non avevo la forza di rispondere. Annuivo e basta. Ero ipnotizzato.
Per tutto il giorno vagai nel magazzino come un fantasma. I miei colleghi mi guardavano in modo strano, mi sparlavano alle spalle. Sentivo i loro bisbigli, gli sguardi puntati su di me, le loro risatine. Stava succedendo qualcosa che io ignoravo. Forse stavo facendo qualcosa di strano. Qualcosa che non apparteneva al mio modo di fare. Eppure lavoravo, non facevo altro. Ero solo prigioniero del mio stesso prigioniero.
Per tutto il giorno vagai nel magazzino come un fantasma. I miei colleghi mi guardavano in modo strano, mi sparlavano alle spalle. Sentivo i loro bisbigli, gli sguardi puntati su di me, le loro risatine. Stava succedendo qualcosa che io ignoravo. Forse stavo facendo qualcosa di strano. Qualcosa che non apparteneva al mio modo di fare. Eppure lavoravo, non facevo altro. Ero solo prigioniero del mio stesso prigioniero.
Dopo il lavoro tornai a casa. Non ricordavo nulla di quello che avevo fatto a lavoro. Più mi sforzavo di capire, più tutto si faceva distante. Perché non ricordavo niente? Perché avevo la sensazione che ci fosse qualcosa di strano in me? Come una presenza che serpeggiava silente nella mia mente?
Presi il libro dal basso tavolino del soggiorno, mi accigliai con fare turbato. Ricordavo di averlo lasciato a pagina trentuno, ma ora era a pagina cinquantatré. Che fosse stato il vento a sfogliarlo? Lanciai uno sguardo alla porta-finestra del balcone. Era chiusa. Guardai di nuovo il libro. Pagina settantadue. Le pagine erano stati sfogliate di nuovo.
Mi guardai attorno nervoso. — C'è qualcuno?
Mi aggirai nelle stanze, controllai ogni angolo dell'appartamento. Niente e nessuno.
Fissai il libro. Pagina ottantotto. Di nuovo. Aggrottai la fronte, lanciai uno sguardo alle mie spalle spaventato. Doveva esserci per forza qualcuno. Le pagine non si sfogliavano da sole. Se c'era qualcuno, allora come aveva fatto a girare le pagine? Avevo il libro in mano. Non poteva averlo fatto senza che me ne accorgessi.
C'era un fantasma?
Sbarrai gli occhi, mi diressi rapidamente alla porta d'ingresso. Posai la mano sulla maniglia. Una luce rossastra si propagò alle mie spalle. Restai fermo con un groppo in gola. Non osavo girarmi per paura di vedere cosa ci fosse dietro di me. La sagome con lineamenti femminili? Oppure qualcos'altro?
La luce si avvicinava a me, diventava sempre più intensa. Mi voltai di scatto, la luce svanì come se non ci fosse mai stata. Tutto era tornato alla normalità. Gli ultimi spiragli del sole illuminavano il soggiorno. Dalla finestra scorsi il cielo rosato dietro i palazzi.
Cosa diavolo era successo? Stavo impazzendo?
Cosa diavolo era successo? Stavo impazzendo?
Quella sera dormii poco e male con tutte le luci accese, il cuore che mi batteva in gola. Ingigantivo ogni rumore, scrutavo ogni angolo della stanza. Paranoia assoluta. Avevo pensato di andare a dormire in un hotel, ma le stanze costavano un occhio. E poi non ero sicuro che quella cosa non apparisse anche là assieme allo strano bagliore rossastro.
Così me ne stavo seduto sul letto, il libro stretto tra le braccia. Non sapevo perché l'avevo portato persino nel letto, ma non riuscivo a staccarmici. Qualcosa mi diceva di tenerlo stretto. E più cercavo di capire il motivo, più la mia mente si annebbiava. Non riuscivo nemmeno a pensare a cosa avessi fatto per tutto il giorno. Continuavo a perdere pezzi di ricordi, scorci importanti della mia vita. Non ricordavo più la mia infanzia, i volti dei miei genitori. E non ricordavo più nemmeno perché fossi qui. Lavoravo? Ero sposato? Chi ero?
L'alba giunse dopo un'eternità. L'ansia mi aveva lacerato l'anima, ogni suono fatto a pezzi. Mi alzai con un improvviso conato di vomito e mi precipitai in bagno a vomitare bile. I conati erano così forte che lo stomaco iniziò a farmi male. Mi mancava l'aria. Annaspavo per respirare e tornavo a rimettere.
Non più bile. Ma vermi.
Mi allontanai velocemente dal gabinetto, gli occhi sbarrati. I vermi si contorcevano ai piedi del gabinetto. Abbassai lo sguardo, scacciai i vermi da sopra i pantaloni e la maglietta. Scalciavo e mi dimenavo come un matto finché mi resi conto che scacciavo il nulla.
Restai immobile per un momento. Mi ero immaginato tutto. Come diavolo era possibile? Mi alzai e guardai dentro il gabinetto. Nessun verme. Mi guardai intorno turbato. Il libro si palesò nella mia mente come la luce di un faro in mezzo al mare in tempesta, corsi verso il letto. Era sparito. Il libro era sparito.
Rivoltai le lenzuola e il materasso in preda all'ansia. Mi sentivo morire. Non poteva essere sparito. Era qui fino a un momento fa. Forse lo avevo portato in bagno? No, era sul letto. Ricordavo di averlo lasciato qui.
Mi voltai a guardare ogni angolo della camera da letto, cominciai a mettere tutto a soqquadro come un pazzo. Cacciai magliette e pantaloni fuori dall'armadio. Mutande e calzini dai cassetti. Aprii il case del computer, ci guarda dentro. Niente.
Non stavo capendo più niente.
Non stavo capendo più niente.
Mi sentivo morire. Morire!
Ero impazzito. Quel libro era mio. Mio! Lo avevo trovato io. Nessuno poteva averlo.
Girai per tutto l'appartamento come un forsennato. Setacciai ogni angolo, ma non trovai nulla. Strinsi le mani a pugno, lanciai un urlo disperato. Mi accasciai sul pavimento a piangere come un bambino a cui avevano rubato il suo giocattolo preferito. Non so cosa mi stava succedendo. Non avevo più il controllo delle mie emozioni. Fluivano prorompenti senza nessun limite. Mi governavano, mi tormentavano, mi schernivano. Volevo solo il libro. Il mio libro! Era l'unica cosa a cui riuscivo a pensare.
L'indomani qualcuno bussò alla porta. Me ne stavo rannicchiato in un angolo del soggiorno con gli occhi arrossati per il pianto, iniettati di un odio primordiale. Per tutta la notte non avevo fatto altro che pensare al libro. Il mio libro! Piangevo e reprimevo le urla.
Mi alzai e andai a sbirciare dallo spioncino. Era un uomo sui trent'anni, spalle larghe e mascella squadrata. Aveva gli occhi azzurri, il naso a patata e portava i capelli biondi pettinati su un lato. La sua faccia mi era tremendamente familiare, ma non riuscivo a capire dove lo avessi visto.
L'uomo bussò di nuovo. — Lo so che sei in casa, Matt. Ho visto la tua ombra sotto la porta. Forza, apri.
Sgranai gli occhi. Era Garry. Come avevo fatto a dimenticarmi di lui? Aprii la porta.
Lui mi guardò turbato. — Ma...
Lo trascinai dentro per un braccio, chiusi la porta. Iniziai a fare avanti e indietro. — Ho perso il libro. Devi aiutarmi. — Scoppiai a piangere, caddi sulle ginocchia. — Ti prego, devi aiutarmi. Non posso vivere senza quel libro. Non posso!
Garry restò impalato per un momento. Ero confuso. Non mi ero mai mostrato così vulnerabile davanti a lui. Anzi, ero io quello forte. Quello che lo sosteneva quando aveva gli attacchi di panico. E ora le parti si erano invertite.
Garry mi prese per le braccia, mi fece alzare delicatamente. — Che ti è successo? Cos'hai? Sei malato?
Lo guardai negli occhi. — Aiutami a trovare il libro. Ti prego! Ti supplico!
Garry mi fissava sconvolto. — Quale libro?
— Il libro dei sogni. È sparito. L'avevo lasciato sul letto, poi... poi è sparito. Non so dove sia. È sparito!
— Ehi, rilassati. Sei troppo agitato.
— Non posso calmarmi. Ho perso il libro, lo capisci? È il mio libro! Mio!
Garry arretrò di un passo con fare turbato. — Sono sicuro che è qui. Magari lo hai messo da qualche parte e te ne sei dimenticato.
Lanciai uno sguardo nel soggiorno. Ero nel panico più totale. Sudavo freddo, le labbra secche. Avevo setacciato da cima a fondo l'intero appartamento. Lo avevo fatto più volte. Non c'era.
— Cerchiamolo insieme — disse Garry.
— L'ho già fatto! — risposi nervoso. — Non c'è. È sparito!
— In che senso è sparito?
— È sparito! Svanito nel nulla! Prima era qui, poi non più.
Garry mi guardò perplesso. — È un libro. Non può svanire nel nulla. Sicuro che l'hai lasciato sul letto?
— Ti ho detto di sì! — urlai. — L'ho lasciato lì! È così difficile da capire?!
Garry non rispose.
Sapevo di essermi comportato male. Non dovevo gridargli in faccia, ma ero disperato. Avevo perso il mio libro. Era svanito nel nulla. Non potevo perderlo. Era mio!
Garry si guardò attorno. iniziò a girare per l'appartamento. Voleva aiutarmi, anche se mi ero comportato male. Mi sentivo uno schifo. Uno schifo di amico. Era il mio migliore amico e io lo avevo trattato male. Non se lo meritava. Eppure c'era qualcosa che spazzava via il mio senso di colpa. Un pensiero ossessivo che mi faceva ribollire il sangue. La cosa più importante, più della mia stessa vita. Il libro!
Garry uscì dalla camera da letto, mi raggiunse in cucina. In mano aveva un libro. Il mio libro. — È questo? L'ho trovato in bagno. Era nella vasca.
Sgranai gli occhi per la gioia, glielo strappai di mano. Lo strinsi forte al mio petto, scoppiai a piangere. Singhiozzavo come un bambino.
Garry mi fissava interdetto. — È soltanto un libro. Perché stai dando di matto?
Fu una pugnalata allo stomaco. Un dolore atroce che mi risalii lungo le mie interiora fino al cervello. La testa mi pulsava, mi formicolava. Un sapore ferreo in bocca. Le mani mi tremavano, lo sguardo fisso su Garry. Sangue e morte, mi ripeteva la vocina in testa. — Mi hai rubato il libro! Ce l'avevi tu!
Garry si accigliò confuso. — Io? Ma che stai dicendo? Perché dovevo averlo io? E poi quando l'avrei rubato? Sono arrivato un minuto fa.
I miei occhi erano due strette fessure infernali. Immaginavo il collo di Garry reciso, il sangue che sgorgava dalla ferita. Era un ladro. Aveva rubato il mio libro. E doveva pagare.
Garry indietreggiò. — Che ti prende?
Afferrai il coltello sul ripiano della cucina e mi scagliai contro di lui. Vedevo solo Garry in mezzo alle tenebre. Una luce che l'oscurità cercava di divorare.
Garry mi bloccò il braccio con cui impugnavo il coltello — Ehi! Che cazzo fai?! Sei impazzito!?
— Devi morire! — urlai con gli occhi spiritati. — Hai rubato il mio libro! Lo volevi tutto per te! Ma è mio! Solo mio! Tu non l'avrai mai!
Garry mi spinse sul divano, si precipitò verso la porta d'ingresso. Scattai in piedi, gli corsi dietro. Lui girò la maniglia per uscire. Gli presi la testa, gliela sbattei contro la porta e lo spinsi per terra.
Garry mi guardava stordito, incredulo.
Mi misi a cavalcioni su di lui con un sorriso compiaciuto e gli piantai il coltello nel petto. Una, due, tre, otto, venti volte. Il sangue sgorgava dal suo petto squarciato, si espandeva sul pavimento. I suoi occhi mi guardavano e non mi guardavano. Cercava ancora di proteggersi, di scacciarmi via, ma i suoi movimenti erano troppo deboli.
Lo volevo morto. Morto! Aveva rubato il mio libro!
Lo volevo morto. Morto! Aveva rubato il mio libro!
Gli piantai la lama nel petto ancora e ancora. Non riuscivo a fermarmi. Era come se qualcosa si fosse impossessato di me.
Garry non si mosse più.
Mi tirai in piedi con il fiatone, il coltello insanguinato in una mano, il libro macchiato di sangue nell'altra. Non avevo mollato il libro nemmeno per un secondo. Non potevo separarmici. Era mio!
La nebbia si diradò nella mia mente, sgranai gli occhi sconvolto.
Cosa avevo fatto?
Guardai il coltello e il libro stretti nelle mani lorde di sangue, li lasciai cadere. Arretrai disgustato. Avevo ucciso Garry. Perché? Perché l'avevo fatto? Ero confuso e non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla sua faccia, i suoi occhi fissi al soffitto. Non si muoveva più.
Avevo ucciso Garry! L'avevo ucciso! Caddi in ginocchio accanto a lui e piansi. Non volevo ucciderlo. Non volevo.
Guardai il coltello e il libro stretti nelle mani lorde di sangue, li lasciai cadere. Arretrai disgustato. Avevo ucciso Garry. Perché? Perché l'avevo fatto? Ero confuso e non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla sua faccia, i suoi occhi fissi al soffitto. Non si muoveva più.
Avevo ucciso Garry! L'avevo ucciso! Caddi in ginocchio accanto a lui e piansi. Non volevo ucciderlo. Non volevo.
Un lampo di luce rossastra mi accecò per un momento. La sagoma con i lineamenti femminili era davanti a me, il cuore rosso che le pulsava nel petto scuro. Raccolse il libro insanguinato. — Volarono troppo in alto a sfiorare le nuvole e le nuvole sfiorarono le loro menti. Sognavano ogni notte e ogni notte cadevano nell'oblio. La realtà li attirava come falene alla luce e come falene morivano ogni mattino. Il caos della follia, la quiete nei sensi.
La figura si smaterializzò con un accecante lampo rossastro.
La porta si spalancò.
Quattro agenti di polizia irruppero nell'appartamento, le pistole puntate contro di me.
La porta si spalancò.
Quattro agenti di polizia irruppero nell'appartamento, le pistole puntate contro di me.
Alzai le mani. — Non sparate! Non sparate!
Un poliziotto mi mise le mani dietro la schiena, le manette scattarono attorno ai miei polsi. — Lei è in arresto per omicidio. Ha il diritto di rimanere in silenzio. Qualsiasi cosa dirà potrà essere usata contro di lei in tribunale. Ha il diritto di avere un avvocato presente durante gli interrogatori. Se non può permettersene uno, le sarà assegnato uno d'ufficio.
Mentre mi scortavano fuori, scorsi una falena disegnata con il sangue sopra la porta. Chi l'aveva fatta? La figura? Io? Chi?
Sotto la falena c'era una scritta dalle cui lettere colava sangue.
Mentre mi scortavano fuori, scorsi una falena disegnata con il sangue sopra la porta. Chi l'aveva fatta? La figura? Io? Chi?
Sotto la falena c'era una scritta dalle cui lettere colava sangue.
Morire per rinascere domani.