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Autore: Ghostclimber    22/10/2023    1 recensioni
Kogure non sorride più veramente da quando Mitsui ha lasciato il basket.
L'esasperazione porterà Akagi a scoprire molto su se stesso.
Pairing: Akagi x Kogure
Genere: Fluff, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Akagi Takenori, Kiminobu Kogure
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rieccomi con le mie boiate, vi mancavo? Ahahahahah
Questa fic -chi c'era nel lontano 2019 forse ricorderà- fa parte della serie delle sigle. E sì, sto lavorando a quelle che mancano.
Spero vi piaccia, se sì battete un colpo!






Quel sorriso triste era diventato la caratteristica distintiva di Kogure, da un annetto a quella parte, e la questione cominciava a dare davvero fastidio ad Akagi, tanto più che Kogure sembrava non avere un’altra dannatissima espressione facciale, sempre quel dannato sorriso del cazzo che accompagnava tutte le sue frasi, da “ieri mi sono divertito moltissimo” a “sono appena stato investito da un autoarticolato, ma davvero, sto bene”.

 

Chissà perché, ogni volta che Akagi gli sentiva dire “sto bene” ci credeva un po’ di meno.

 

E chissà perché, ogni volta gli saliva la voglia di coccolarlo fino all’eternità, salvo il tempo materiale per ammazzare di botte Mitsui Hisashi; non ci sarebbe voluto chissà quanto tempo, calcolava.

Una matricola più o meno della stazza e della grazia eterea di uno Space Shuttle in rotta di collisione urtò Kogure, mandandolo a terra un paio di metri più in là.

 

“SCUSA!” berciò, a un volume di voce udibile da Marte. Era insopportabile, tanto più che era entrato nel club solo perché i genitori gli avevano imposto di iscriversi ad un club sportivo e non sembrava dimostrare il minimo interesse nei confronti del basket.

 

Akagi si diresse verso Kogure a passi lunghi e veloci e lo aiutò ad alzarsi; aveva i capelli scompigliati, gli occhiali erano miracolosamente intatti ma in compenso aveva un ginocchio sbucciato fino a metà polpaccio e sanguinava in maniera abbastanza copiosa.

 

“Ragazzi, fermiamoci qui oggi,” disse, con voce lugubre. Ormai aveva perso ogni speranza di vedere i campionati nazionali da bordo campo invece che dalla TV, sembrava che ogni anno lo Shohoku facesse la selezione dei peggiori giocatori di basket della prefettura e se li aggiudicasse. A parte forse quel Kakuta, che però soffriva di una timidezza quasi patologica che lo bloccava non appena metteva piede in campo.

 

“Vieni, Kogure, ti porto in infermeria,” aggiunse, scacciando i compagni di squadra con un energico movimento della manona.

 

“Ma dai, Akagi, non è niente, davvero,” tentò di protestare Kogure, “E poi tocca a me fare le pulizie.”

 

“Ci penso io, senpai,” disse Kakuta a voce quasi inudibile, poi esitò visibilmente. Akagi stava già per sciacquarsi dalle palle e ignorare qualsiasi cosa sarebbe potuto seguire, ma Kogure lo trattenne per un gomito, fingendo palesemente di appoggiarcisi. Infine, Kakuta aggiunse, arrossendo: “Comunque se resti le rendi più difficili, le pulizie, stai gocciolando.”

 

Kogure guardò giù, poi rise, quella sua solita risata che a tutti pareva genuina, e che Akagi riconosceva invece come fintissima: “Miseria, Kakuta, hai ragione!” disse, “Vado a farmi dare una garza. Grazie mille, poi fammi sapere quando sarebbe il tuo turno di pulizie che lo copro io.”

 

Kakuta annuì con foga, quasi stesse rispondendo a un ordine, e finalmente Akagi riuscì a trascinare Kogure fuori dalla palestra. Quasi subito divennero l’obiettivo di una marea di sguardi curiosi.

 

“Akagi, non possiamo evitare? Davvero, sto bene,” disse Kogure.

 

“No, starai anche bene ma se non ci metti su una garza arrivi a casa che hai bisogno di una trasfusione. Dai, non rompere altrimenti in infermeria ti ci porto in braccio.” Kogure non rispose, ma abbassò la testa, quasi stesse controllando di non aver pestato nessuna linea del marciapiede, come aveva fatto fino alla seconda media. Akagi lo vide pestare una linea e capì che non era una regressione; alzò gli occhi e scorse Mitsui, appoggiato ad un muro intento come al solito a fare un cazzo insieme al suo amicone deficiente Hotta Norio. Amicone deficiente che aprì la bocca, come a prendere per il culo; Akagi si irrigidì, ingrossandosi come i panda rossi avrebbero l’aspirazione di fare per sembrare più minacciosi, e incrociò lo sguardo di Mitsui.

 

In tutta risposta, Mitsui si voltò e si allontanò, seguito da un Hotta molto perplesso.

 

Akagi li ignorò con foga, alzando il mento e fissando lo sguardo nella direzione opposta a loro, poi diede uno strattone a Kogure per fargli prendere la direzione dell'infermeria ed evitargli una collisione contro la ringhiera delle scale.

 

Più tardi, si disse, più tardi avrebbe forse analizzato perché avere la mano di Kogure nell'incavo del gomito gli stava facendo cuocere la pelle in corrispondenza del punto di contatto: che Kogure avesse la febbre era escluso, la sua mano era fresca anche se un po' sudata, ma di certo non alla temperatura della superficie del sole, come Akagi la percepiva.

 

Più tardi, però, si disse mentre bussava con la discrezione di un ufficiale della Gestapo alla porta dell'infermeria.

 

L'infermiera della scuola, alta sì e no un metro e mezzo e con l'aria piuttosto sconvolta, aprì e fissò lo sguardo davanti a sé, più o meno all'altezza dello sterno di Akagi; risalì verso il viso e finalmente chiese: "Sì?"

 

"Il mio amico ha bisogno di un po' di disinfettante e di un cerotto," disse Akagi, come sempre fingendosi burbero quando in realtà era imbarazzato.

 

"Certo, entrate," disse l'infermiera, di colpo socievole: aveva incrociato lo sguardo di Kogure, e il suo sorriso triste l'aveva conquistata, proprio come aveva conquistato Akagi.

 

Akagi "Gorilla" Takenori spinse Kogure all'interno del locale infermeria, rifiutandosi di prendere in considerazione quell'ultimo pensiero.

 

Lui era etero, etero, cazzo, non era uno di quei pervertiti che frequentano bar luridi e scopano con chiunque nei cessi.

 

Non c'era nulla di omosessuale in lui, nulla.

 

L'infermiera fece accomodare Kogure su una sedia di plastica, si mise dei guanti sterili e procedette alla disinfezione della ferita, che in effetti non era esattamente pulita, come c'era da aspettarsi da una sbucciatura provocata dal parquet di un campo da basket.

 

La ferita prese immediatamente a schiumare come le fauci di un cane idrofobo, e Kogure trattenne un sibilo di fastidio.

 

Senza pensarci, Akagi allungò la mano aperta, e Kogure la afferrò, poi strinse abbastanza da fargli scricchiolare le ossa. Sbucciatura da nulla, certo, ma quelle maledette bruciavano come l'inferno, Akagi non poteva obiettare. D'altronde si era fatto anche lui la sua bella dose di scarnificazioni da parquet, e ogni volta era passato da duro&puro a piccola merdina singhiozzante, almeno all'interno; era troppo in alto perché qualcuno riuscisse effettivamente a notare che aveva gli occhi colmi di lacrime.

 

Perfettamente consapevole del fatto che non stava facendo altro che tergiversare nella mente, Akagi rivolse a Kogure quello che sperava somigliasse a un sorriso incoraggiante.

 

Dieci minuti più tardi, era tutto finito.

 

Non che Akagi si aspettasse sei ore di operazione chirurgica, ma avrebbe preferito che l’infermiera fosse un po’ più lenta nei movimenti, cose così.

 

E invece no, eccolo qui ad accompagnare Kogure verso la stazione della metro, a passo lento ma senza avvicinarsi troppo, così, giusto a scanso di equivoci; Kogure non stava facendo nulla per accorciare la distanza tra loro, e ciò che a ragion di logica avrebbe dovuto dare sollievo ad Akagi gli stava invece trapanando il cervello.

 

Perché? Perché lo voleva così vicino? Non erano sentimenti da ascriversi ad un normale rapporto di amicizia senza secondi fini, come quello che aveva con Kogure; o almeno, così credeva.

 

“Avanti, dimmi che hai,” disse Kogure con dolcezza. Akagi lo guardò, stupito di non essere riuscito a nascondergli il proprio turbamento. Dopotutto non era mai stato uno che sbandierava i propri sentimenti, per cui l’idea che Kogure potesse accorgersene non gli era passata neanche per l’anticamera del cervello.

 

“Io…” borbottò. Poi boccheggiò. Deglutì. Infine si spremette: “Ti è mai capitato di provare… sentimenti?”

 

“Akagi…” lo incalzò Kogure delicatamente.

 

“Sentimenti tipo sentimenti, sai,” disse Akagi, poi prese un bel respiro, “Tipo per una ragazza.”

 

“Diciamo di sì…”

 

“Ma, ecco, non per una ragazza.”

 

“Diciamo di sì.” Akagi guardò Kogure proseguire per altri tre passi, prima che si rendesse conto che Akagi si era immobilizzato.

 

“E dai, non fare tanto il conservatore, è abbastanza comune!” disse Kogure, voltandosi verso di lui. Era lievemente arrossito, e come sempre il suo naso era diventato una pista per gli occhiali; se li sospinse a posto con un gesto nervoso.

 

“Senti, è che…” Akagi deglutì; non sapeva come porre la questione senza risultare offensivo, “Mio padre dice che…”

 

“Senza offesa, tuo padre è un gran coglione su questo argomento. Lo so che cosa dice, e sono tutte cazzate.” Il tono di Kogure era freddo e definitivo.

 

“Come fai a sapere…?”

 

“Quando è diventato chiaro che io e te eravamo amici stretti, ha approfittato di te che andavi a prendere tè e biscotti per farmi un certo discorsetto. Sui limiti che voleva fossero posti alla nostra amicizia.”

 

“Non l’ha fatto,” disse Akagi, sperando che dirlo ad alta voce sarebbe servito a cancellare l’esistenza di quell’atto che al di là di ogni possibile convinzione era intollerabile.

 

“L’ha fatto, e io ho sopportato con un sorriso,” disse Kogure, dando una dimostrazione in diretta, “Ma ti avverto, non tollererò lo stesso trattamento da parte tua. Se mi devi dire in faccia che sono un deviato e un pervertito che vuole solo prendere cazzi su per il culo, puoi anche andare a casa, io torno a scuola e mi faccio dare il modulo per cambiare classe e quello per mollare il club.”

 

“No, Kogure, non…” Akagi lo prese per le spalle, “Senti. Sono molto confuso. Tutto quello che lui mi ha detto, e in cui credevo, io…”

 

“Inutile che aspetti, Akagi, stavolta non finirò la frase al posto tuo.”

 

“Io credo che non sia vero. Non è quello che sento.” Kogure lo tirò per la manica; quando fu certo che Akagi l’avrebbe seguito, fece strada verso un parchetto quasi invisibile tra alti palazzi cadenti e si sedette su una panchina; Akagi lo imitò, sussultando al tocco delle loro ginocchia che si sfioravano.

 

“Non c’è tutta quella voglia di sesso, innanzitutto,” disse Akagi, senza bisogno di essere incitato, “Sembra più… voglia che quella persona stia bene, bisogno di spianargli la strada se posso, bisogno di stargli al fianco oggi e per tutti gli altri giorni della vita, il pensiero di lui quasi ossessivo quando vedo una cosa che potrebbe piacergli, la sua voce nella testa che commenta i piccoli avvenimenti della mia giornata, la voglia, il bisogno, che quel tuo sorriso arrivi finalmente fino agli occhi e le mani che prudono quando vedo Mitsui perché so che è tutta colpa sua se non sorridi più come una volta.” Akagi prese il respiro, poi sobbalzò.

 

Sperava di essersi immaginato di aver parlato alla seconda persona singolare, ma il rossore sulle guance di Kogure, e i suoi occhiali tondi alla John Lennon che come prevedibile gli erano di nuovo scivolati fino alla punta del naso non lasciavano adito a fraintendimenti.

 

Akagi Takenori si era appena dichiarato.

 

Entrò in modalità "avvistamento grossi ungulati" e si immobilizzò, fingendosi morto e probabilmente già in rigor lì sulla panchina.

Kogure si spinse gli occhiali su per il naso, come suo solito usando la mano aperta, la punta del pollice e quella dell'anulare sulla piega che connetteva le stanghette alle lenti; si schiarì la voce.

 

"Beh," disse. Le lenti gli si appannarono: cominciava a fare freschino e le sue guance erano probabilmente vicine al punto di autocombustione.

 

"Scusa, non volevo," borbottò Akagi. La tecnica del morto comunque non era garantita e gli era sempre sembrata un modo veloce per farsi mangiare vivo senza sprecare gli ultimi minuti della propria esistenza correndo inseguito da un orso.

 

"Oh, no, Akagi, hai frainteso," disse Kogure, allungando una mano a toccargli un ginocchio, un altro gesto così suo che per un attimo Akagi si sentì prendere dal panico: cosa avrebbe fatto se tutto quello gli fosse stato tolto?

 

Kogure proseguì: "Hai detto delle cose veramente bellissime, anche se non penso di meritarmi così tanto."

 

"E allora cos'è che ti meriti?" chiese Akagi, "Quel rottinculo di Mitsui e i suoi amici criminali?"

 

"Non lo so, io…" Kogure tentò di ridacchiare, "Magari una via di mezzo."

 

Akagi esitò, poi disse piano: "Magari invece meriti tutto e io non potrei mai esserne in grado." Sapeva che la frase gli era uscita di bocca in maniera men che chiara, ma sperava che Kogure capisse comunque.

 

"Magari invece non potrei mai accettare qualcuno che mi dia tutto, e quel che voglio è solo un amico speciale con cui parlare di basket e di biologia e al cui fianco addormentarmi tutte le sere," disse Kogure.

 

Akagi alzò gli occhi nei suoi, e per un istante rimase disorientato: c'erano delle piccole pieghe, al lato esterno degli occhi di Kogure, come delle rughe, quasi come… cercò una prospettiva più ampia, e vide che Kogure stava sorridendo, e stavolta per davvero.

I suoi occhi castani rilucevano nel bagliore rossastra del tramonto, ed era bello come la nascita di una stella, in tutto l'abbacinante fulgore di quel sorriso genuino.

 

Bastò poco, veramente, il coraggio di una foglia di acero che si tuffa dal ramo nella sua danza autunnale: Akagi si sporse in avanti e cozzò con le labbra contro quelle di Kogure, rude, inesperto, impacciato.

 

Si staccò dopo pochi istanti, sentendosi il viso in fiamme. Borbottò: "Scusa, non so come si fa."

 

"Nemmeno io," rispose Kogure, la voce flebile e incredula, "Vorrà dire che impareremo."

 

*****

 

Era passato poco meno di un anno da quel fugace bacio al parco.

 

Ce n'erano stati altri, da allora, moltissimi, e come Kogure aveva previsto avevano entrambi imparato, e si erano spinti anche oltre; per quanto Akagi non avesse degli appetiti sessuali proprio insaziabili, non gli dispiaceva nulla di ciò che avevano sperimentato, anche se sospettava che senza Kogure avrebbe tranquillamente lasciato perdere.

 

Come previsto, nonostante l'arrivo di Miyagi Ryota, un promettente playmaker del primo anno, il campionato nazionale non l'avevano visto nemmeno con il binocolo. Per non parlare poi di quello invernale: con Miyagi in ospedale in seguito a un brutto incidente, avevano ripiegato su Yasuda, un caro ragazzo e un playmaker niente male, che però sembrava molto più felice di starsene in panchina, lontano da sguardi indiscreti.

 

Quell'anno, però, forse avevano una piccola possibilità.

 

Dal suo angolino, Akagi guardò Miyagi che spiegava le finte a Sakuragi; dietro di loro c'era Rukawa che scartava avversari immaginari, come a prendere per il culo il rosso.

 

Akagi chiuse la borraccia accompagnando il gesto con un sospiro, pronto a intervenire, consapevole che il sedicente Genio del Basket aveva una pazienza molto limitata, in particolare quando si trattava di Rukawa.

 

Iniziò il conto alla rovescia e si scrocchiò preventivamente le nocche, poi la porta della palestra si spalancò e apparve in controluce la figura di un bel ragazzo, alto e slanciato, con i capelli tagliati di fresco.

 

"Oh, è arrivato il delinquente!" disse Sakuragi. Miyagi sbuffò: "Finalmente hai tagliato quei cazzo di capelli."

 

Lo sguardo di Akagi corse verso Kogure, che distolse gli occhi da Mitsui per guardare verso di lui.

 

Col tempo, Akagi aveva saputo della loro breve ma intensa esperienza a letto, di quanto Kogure avesse sofferto in nome di un amore che non aveva mai avuto l'occasione di crescere, e temeva profondamente il ritorno di Mitsui in squadra.

 

"Ehi, Quattrocchi," disse Mitsui, "C'è un pallone anche per me?"

 

"Cer…"

 

"Comincia con venti giri di corsa," ringhiò Akagi, "Avanti, marsch." Mitsui sembrò meditare se opporsi, poi partì a passo veloce.

 

"Takenori, non…" cominciò Kogure, poi un fracasso assordante li fece sobbalzare entrambi.

 

"Ho Ho Ho," rise il coach, mentre Sakuragi cominciava ad accapigliarsi con Rukawa.

 

"RAZZA DI DEFICIENTE, NON DISTRARTI! FONDAMENTALI, ADESSO!"

 

"MA GORI, HA COMINCIATO LUI!"

 

"Non è vero," dichiarò Rukawa, allontanandosi a corsetta.

 

"Io me ne chiamo fuori," disse Miyagi, accodandosi a Mitsui che gli passava di fronte.

 

"Sei in ansia per Mitsui," disse Kogure.

 

"No, sono in ansia perché ho una squadra formata da esaurimenti nervosi in forma umana."

 

"Takenori…"

 

"Sì, va bene, sono in ansia per Mitsui, sono geloso, posso essere geloso?"

 

"Puoi, ma è inutile," disse Kogure, e finalmente Akagi lo guardò negli occhi.

 

"Lo sai che ti amo, sì?" chiese Kogure.

 

"Lo so," borbottò Akagi distogliendo lo sguardo, cercando di non arrossire mentre metteva su un bel broncio da bambino viziato.

 

"Nessuno mi porterà mai via da te, Takenori," aggiunse Kogure con dolcezza, "Assolutamente nessuno."

 

Akagi guardò di nuovo Kogure, che gli sorrise. Aprì la bocca per rispondere qualcosa, qualsiasi cosa, poi si udì un fragore come di una trentina di palloni che venivano rovesciati addosso a un talentuoso quindicenne con la peggior resting bitch face della storia.

 

Akagi prese un bel respiro e tuonò: "SAKURAGI PER LA MISERIA!"

 

   
 
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