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Autore: DonVito009    29/10/2023    0 recensioni
Niccolò Tasso, afflitto da una malattia mentale contro cui fatica a combattere, decide di intraprendere il suo percorso universitario in America, ottenendo l'opportunità di frequentare Yale. La scelta di varcare l'oceano nella speranza di trovare una via d'uscita dalla sua afflizione si rivela meno efficace del previsto, poiché deve adattarsi a un nuovo stile di vita e alla possibilità di evitare gli errori del passato. Accompagnato da una tutor, la cui presenza innescherà un effetto domino inarrestabile, il giovane Tasso avrà modo di incontrare numerose persone, scoprendo che non è così diverso da loro e che tutti condividono le proprie sfide e il proprio percorso di crescita
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Niccolò Tasso non era più un individuo distinto, bensì un palcoscenico in cui la malattia metteva in scena la sua crudele performance. 
L'amore di due genitori presenti spesso si dimostra insufficiente a salvare un figlio; il denaro, in molteplici occasioni, non plasma il futuro e la vita in un ambiente agiato non garantisce la possibilità di giocare al pari con gli altri. Le preghiere non lavano via la sofferenza, le lacrime non perdonano un peccato e il corpo non cancella il passato.

La malattia colpisce senza rivolgere sguardo alcuno, palesando la sua ferocia in maniera graduale, scavando dentro la carne come goccia cinese che cade. Infermabile era, essa che dal nulla era emersa, piccola e innocua agli occhi di colui che il pericolo non scorge, annebbiato da una certezza le cui fondamenta erano da tempo cedute. Il tempo l’aveva fatta crescere, mentre il cieco sempre cieco rimaneva, e solo ora che il tempo si era consumato, la vista gli tornava, e null’altro poté vedere se non la propria impotenza.

E mentre il tempo privava di numeri l’orologio, una dolce melodia gli risuonava nei meandri di una testa sempre più irrequieta. L’armonia di un’eterna fine, la libertà possibile da sfiorare, un’unica possibilità di riprendere il controllo, nulla di tutto ciò  era diverso dalla morte travestita da amica. Dolce era la sua presenza, incantevole il suono, portatrice di pace laddove questa era stata sradicata. Poco avrebbe richiesto per abbracciarla, per liberarsi da tutto, per smettere di soffrire, così come altri prima di lui.Tuttavia, la razionalità di Niccolò era fissa, ma non nella misura in cui credeva; poteva attenuare la melodia, ma mai cancellarla completamente.

Sciocco era il giovane che,  aggrappandosi alla propria razionalità, spinse quel che rimaneva della propria essenza dentro un vuoto, la cui luce non si poteva creare, le cui uscite non sarebbero mai esistite e mai qualcuno sarebbe stato in grado di accedervi. La mente iniziava a lavorare e lavorare e lavorare, e tanta era la ferocia da risultare una sinfonia dissonante, un caotico grumolo di rumori tutti diversi; alcuni lontani, altri vicini, alti e bassi, taluni emanavano il medesimo suono, giorno dopo giorno. Il caos regnava in quel vuoto, la cui pace sembrava sempre più sbiadire, fino a quando di lei non sarebbe rimasto altro che un desiderio morboso, l’irrealizzabile di un folle.

In solitudine si era costruito una prigione che contrastava con la liberazione potenziale che la morte poteva offrirgli. Un giovane che, per liberarsi di un veleno, ne ingerisce un altro. L'essere umano nella sua interezza, fragile e imperfetto, conscio dei suoi limiti e deciso a superarli.
Il sonno iniziava a non presentarsi, i farmaci ad aumentare, la mente a cedere;  il tempo accelerava, la vita appassiva, il mondo diveniva sempre più astratto, incomprensibile agli occhi di un incompreso, un nome ora privo di significato, distorto dalla nostalgia, rimasto invariato agli occhi di altri: Niccolò oramai iniziava a cessare di esistere, lasciandosi appresso un ricordo di ciò che aveva sempre creduto di essere.

Cogito ergo sum. -Cartesio.

Se noi siamo, cosa siamo? Nomi propri, carni mortali, flusso inesorabile del tempo. Non ci sarò nome che non avrà varcato l’arco dei secoli, né carne che si distinguerà da un’altra e tantomeno tempo che non giungerà a conclusione.
Niccolò era, ma cos’era? Tra le mani teneva la propria essenza; essa era leggera come fosse brezza, trasparente, a tratti sfuggente. Niccolò esisteva, ma in lui nulla si celava. Come uno spirito in cerca di quiete, che vagabonda tra quello che un tempo considerava proprio, così Niccolò vagava tra le strade di Bologna, riconoscendo le strade, ma non i ricordi che il tempo aveva scolpito. Essere cresciuto in quella città o essere viandante, la differenza era insignificante.
Che vuoto, che malinconia provava il giovane Niccolò, che seduto tra gli amici, smarrito si sentiva. I discorsi, le risate, i desideri, nulla con loro condivideva, poco era l’interesse, molta era l’indifferenza. Cinque anni passati con loro o appena un istante, nulla cambiava.
Il nulla permeava il corpo ai tratti dei piaceri, quasi fosse la carne di un morto che, in silenzio, aspettava di essere seppellito, bruciato, cancellato dagli sguardi altrui. Il cuore non sussultava, spesso batteva sul filo del rasoio, in bilico tra la decisione di smettere o continuare. A persistere era solamente l'ossessivo desiderio di comprendere perché il corpo di una lei non gli donava alcun interesse, se ciò che provava  un tempo poteva essere considerato reale. Che lei fosse l’amore di una vita o una cacciatrice della notte, nulla cambiava.

Tutto in lui si era spento: occhi piccoli e verdi, scoloriti e privati da qualsiasi emozione, talvolta coperti dai capelli castani, mossi e spettinati, lunghi abbastanza che potergli coprire le orecchie. Carnagione olivastra, sbiadita, rendeva il viso giovane di natura come fosse malato, in procinto di perire. Naso e bocca erano piccoli, quest’ultima con una sfumatura rosata, raramente capace dii arricciava in un sorriso sincero. Che misera era la condizione di quel Niccolò, ombra della sua stessa esistenza. 

Un cuore fragile, sbilanciato, produttore di dolore, incatenato all’ansia, la cui presenza paralizzava il corpo, spezzava il respiro e lo abbandonava in balia del caos, dominato dal desiderio di crollare. Niccolò crollava, non riusciva a fare altrimenti se non abbandonarsi al dolore, lasciare che la malattia trionfasse, sperare che i minuti potessero scivolare in una maniera meno oppressiva, che il loro peso risultasse minore. Ferreo era il desiderio che per una volta potesse soffrire di meno. La sofferenza raggiungeva la mente, che con pesantezza si poggiava, inerme. La testa pulsava, la vista si annebbiava, l’energia si dissolveva. Quando terminava gli occhi bruciavano dalle troppe lacrime, le mani tremavano, il cuore lentamente decelerava e mai il sollievo era totale. 
I tranquillanti diventano necessari, gocce capaci di attenuare quell’intensità del tormento, ma incapaci di cancellarlo del tutto. Fu in quel momento che Niccolò comprese di non essere più il padrone di sé, di essere divenuto carne da macello di una malattia avida, sadica, che mai sarebbe stata capace di regalargli una flebile fiamma di gentil pace. 

Accettarla, farla parte di sé: non esisteva altra soluzione. Iniziò a bramare la conoscenza, allontanarsi da quel suolo freddo, e, acconsentendo al consiglio del padre, partì, lasciando che l’inizio dell’era universitaria avvenisse in America. Niccolò rimase ancorato alle terre italiane, mentre Tasso le abbandonò.

   
 
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