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Autore: Fata_Morgana 78    18/11/2023    1 recensioni
Novembre.
Mese dedicato alla consapevolezza sulla prematurità, sono Chiara mamma di Rebecca nata per gestosi a 29w+5d nell'aprile 2010. Alla nascita pesava circa 1090gr ed era lunga 36cm.
#worldprematurityday
#nascerea29settimanepiu5giorni
#piccoliguerriericrescono
#pernondimenticaremai
#proudofyou
#ilovemyfamily
#solocosebelle
Condivido con voi una storia, la base è stata scritta da mia figlia Rebecca per un compito di italiano di seconda media, altre parti le abbiamo aggiunte io e il papà per farla partecipare ad un concorso...
🙂 Buona lettura....
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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TORNARE: predicato verbale; prima coniugazione; modo infinito, tempo presente. (Persona: indefinita; genere: intransitivo; forma: attiva)
A: preposizione semplice
CASA: nome comune di cosa; femminile; singolare (individuale; primitivo; concreto)
Se vi dicessi che non tutti i super-eroi indossano costumi per nascondere la loro identità e non hanno super-poteri mi credereste? No, vero? Eppure eccomi qua…
Mi chiamo Rebecca, ho 12 anni, e questa è la mia storia:
sono nata nell’aprile del 2010, anche se tutti mi aspettavano per luglio, il giorno della mia nascita è stato bello e spaventoso al tempo stesso per la mia famiglia, soprattutto per i miei genitori, perché sono nata a 6 mesi e ½. Alla nascita pesavo circa un kilogrammo, come un pacco di zucchero, ed ero così piccolina che anche il pannolino per prematuri mi stava ascellare “modello Fantozzi”.
Mamma dice sempre che quando mi hanno tirata fuori dalla sua pancia, la mia prima Casa, ho urlato così forte che tutta la sala operatoria si è zittita. Ho dimostrato da subito di avere un carattere tosto ma, nonostante questo, nascere così presto è stato complicato: ero troppo piccola per affrontare il mondo esterno e, per i primi 51 giorni della mia vita, “Casa” è stata “l’astronave” una tecnologica incubatrice.
Tutto sommato mi sembrava di averci guadagnato nel cambio: quella strana scatola era calda ed accogliente, avevo molto spazio tutto per me senza doverlo condividere con gli organi interni di mamma, era silenziosa, con un materasso adatto alle mie esigenze e dagli oblò potevo ricevere le coccole ed ascoltare musica e belle storie.
Per i primi giorni ero certa che fosse abbastanza, che non potesse esserci qualcosa di meglio o adatto a me e mi crogiolavo nel tepore della termoculla senza dare troppo peso alle chiacchiere degli infermieri e dei medici che sentivo parlare mentre mi passavano accanto.
Un giorno, dopo essere stata sottoposta a terapie e pulizia dell’incubatrice, i miei genitori iniziarono a raccontarmi del mondo esterno: dei suoi colori, dei suoni, della musica e di tutte le avventure che mi aspettavano una volta che fossi stata abbastanza “grande” per lasciare l’ospedale; la parola che ripetevano più spesso era “Casa” e, a forza di sentirla ripetere, aveva iniziato ad attirare la mia attenzione…
Tra una desaturazione, un vomito “murales” (solo per ribadire che quel latte non mi piaceva) e un sondino gastrico sfilato, la parola “Casa” continuava a rimbalzarmi tra cuore e cervello, tanto da farmi iniziare a chiedere se quello che avevo non fosse abbastanza, magari c’era qualcosa di meglio ad aspettarmi là fuori dalla mia “astronave”…
Casa… Tra una canzone e una filastrocca, durante il cambio del pannolino o un pasto, il tono entusiasta usato da mamma e papà quando ne parlavano mi portò a pensare che quel luogo valeva la pena di essere visitato, soprattutto se pieno di quelle meraviglie di cui mi parlavano sempre: zero tubicini, nessuna fastidiosa terapia, solo coccole tutte per me…
La prima volta che ho potuto stare in braccio ai miei genitori, durante le sedute di “marsupio-terapia”, avvolta dall’odore e dal calore di mamma e papà ho continuato a chiedermi che luogo fosse Casa, se avesse un odore diverso da quello dei medicinali e del disinfettante, se avesse lo stesso odore “di buono” che aveva la loro pelle e se, soprattutto, fosse abbastanza accogliente per me che stavo crescendo.
I giorni continuavano a passare, dentro l’incubatrice sembravano tutti uguali e noiosi, mi sembrava di essere finita in un limbo: terapie, controlli, pulizia e la presenza di mamma (papà era al lavoro) per i pasti e per farmi le coccole…
Mentre lei si prendeva cura di me, canticchiando con voce stonata ed emozionata brandelli di canzoni di quando era bambina (Noi siamo piccoli, ma cresceremo e allora virgola ce la vedremo. Chiusa parentesi, riporto sei. Noi siamo piccoli ma dateci del lei!), la parola “Casa” continuava a rimbombare nella mia testa con lo stesso ritmo del suo cuore e delle sue carezze.
Qualcosa, però, mi teneva bloccata dentro l’incubatrice, non sto parlando di infezioni o altro, ma di un sentimento di cui non conoscevo il nome, forse era paura… Paura di lasciare quel porto sicuro, quella culla calda che era l’unica Casa che avessi mai conosciuto. Ero preda di mille dubbi: e se quel posto, senza terapie e tubicini, non lo avessi sentito mio? E se non mi fossi trovata bene tra persone di cui non conoscevo niente, nemmeno l’odore della pelle?
Così, mentre il tempo passava lento e i miei genitori continuavano a mormorare delle meraviglie che mi aspettavano fuori dall’Ospedale nella mia Casa, qualcosa in reparto cambiò: in un attimo le giornate cadenzate dai suoni delle varie incubatrici presenti, delle voci dei genitori e dei pianti dei bambini, fu pervaso da una strana eccitazione, come una scossa elettrica, e d’improvviso quei suoni che mi avevano fatto compagnia dal mio primo giorno di vita, si zittirono.
I miei compagni di viaggio, gli altri micro super-eroi ed eroine, che si erano affacciati alla vita troppo presto come me, avevano raggiunto il peso/età gestazionale adatta per essere dimessi. Il vociare felice ed emozionato dei loro genitori fu qualcosa che rimbalzò tra le pareti della mia termoculla e, mentre gli altri (coi loro bei vestitini dentro le carrozzine) lasciavano il reparto per andare a Casa, io restavo sola.
Sola nel silenzio assordante del reparto, interrotto solo dai suoni dei monitor ai quali ero collegata, una delle infermiere ha infilato le mani dentro gli oblò della mia incubatrice dicendo:
“Forza gnappetta, sbrigati a crescere. Non hai voglia di andare a Casa anche tu?”
Sorpresa, ho aperto gli occhi e, attraverso il velo che non mi permetteva di mettere bene a fuoco le cose che avevo attorno, ho iniziato a riflettere: stare in reparto da sola, seppur stra-coccolata dagli infermieri ma lontano dai miei genitori e da Casa, iniziava a “starmi stretto”.
Volevo conoscere il mondo, vedere coi miei occhi ed ascoltare con le mie orecchie tutte le sue meraviglie. Volevo vedere il mare, sentire com’è fredda la neve e capire una volta per tutte cosa fossero le fusa di un gatto. La spiegazione di mamma “il ron-ron che sentivi quando eri dentro la mia pancia”, non era riuscita a colmare la mia curiosità.
Così, spinta dalla voglia di lasciare la mia “astronave”, ho iniziato a fare meno dispetti ai miei infermieri e mi sono messa d’impegno per crescere: finalmente avevo scelto di scendere dall’ottovolante della prematurità, di prendermi una pausa per esplorare il mondo grata a quella “scatola magica”, la mia “seconda Casa” che mi aveva accompagnata fedelmente per tutti quei giorni.
Mentre l’estate si affacciava titubante, ai miei genitori vennero comunicate le mie imminenti dimissioni: ero nervosa ed eccitata anche io, finalmente avrei potuto conoscere “Casa” e tutti i suoi abitanti.
Il 16 giugno 2010 (ancora oggi festeggiamo il mio “non-compleanno”), ho lasciato definitamente il reparto di Patologia Neonatale ed ho salutato non solo le persone che si sono prese cura di me con amorevole cura; ma anche l’incubatrice che mi ha visto crescere. Lei, dopo la pancia di mamma, mi ha fatto da Casa per 51 lunghissimi giorni.
Lasciare l’ospedale, la sicurezza della culla termica e le mani esperte del personale che si è preso cura di me per così tanti giorni, non è stato facile. Avevo timore che non mi sarei trovata bene nel nuovo ambiente, che magari i racconti dei miei genitori mi avevano fatto credere che c’era qualcosa di meglio del mio rifugio sicuro e, mentre dei dubbi si facevano strada dentro di me rendendo il mio sonno più agitato, sono stata caricata in macchina ed ho iniziato il mio viaggio verso Casa dicendomi che sarei potuta tornare in ospedale se quella soluzione non faceva per me.
Cullata dalla macchina, ho dormito per tutto il viaggio e, una volta varcato il cancello di Casa, ho trovato ad attendermi la sorella minore di papà, zia Lucia.
Alla dimissione non avevo ancora raggiunto il peso di un neonato nato a termine, ero sempre “piccolina” (1 kg e 890gr di “gnappetta”) la prima volta che zia ha potuto prendermi tra le sue braccia. Credo che quel momento nessuno di noi lo scorderà mai: mamma mi ha passato alla zia in cerca di aiuto per portare in Casa il resto dei bagagli e la zia non vedeva l’ora di potermi stringere dolcemente in un abbraccio, quell’abbraccio che, a causa della mia nascita prematura, aveva tardato tanto ad arrivare.
Lei non stava più nella pelle dal desiderio di vedermi da vicino e di potermi prendere in braccio, durante quel lungo ricovero nessuno, tranne i miei genitori, era potuto entrare in reparto: il resto della famiglia aveva potuto vedermi solo attraverso i vetri. È stato emozionante essere tra le sue braccia. La zia aveva un profumo buono, ma completamente diverso da quello dei miei genitori: sapeva di biscotti, matite e gomma da cancellare. Odorava di Casa.
La sua voce si è fatta strada nella ragnatela di novità che stavo vivendo, mi sono sentita amata ed ho pensato che, tutto sommato, valeva la pena dare un’occasione a quella nuova realtà che stavo vivendo.
A Casa non c’erano gli odori e i suoni ai quali mi ero abituata, le mani che mi toccavano erano diverse, un po’ impacciate ma meno frettolose, non dovevo più rispettare degli orari e non c’erano più visite di controllo o terapie ad orari prestabiliti.
Tutto aveva assunto una sfumatura diversa: c’era la mia famiglia e Penelope la gatta, una culla colorata tutta per me, ma senza monitor e sensori a registrare i miei parametri. C’era un orsetto che suonava una dolce ninna-ninna ed un’altalena con melodie e animaletti sempre pronta a cullarmi e farmi stare bene. C’erano, soprattutto, le braccia di mamma e papà e il battito costante del loro cuore, anche la notte.
C’era Casa ad avvolgermi e proteggermi, stavo bene e mi sono abituata facilmente alla tranquillità ed alla dolcezza delle mura domestiche, ho iniziato a crescere ed imparare cose nuove godendomi le coccole della mia famiglia e la compagnia del mio cuginetto; ma poi… Qualcosa dentro di me è scattato, non so spiegare ma che è come se fossi caduta vittima di una strana malinconia…
Casa mi dava tutto quello di cui avevo bisogno: giochi, amore, buon cibo ma sentivo la mancanza di quel posto protetto dal resto del mondo, fatto di suoni ovattati e monitor squillanti, ho pensato a quelle mani esperte che si prendevano cura di me ed ho iniziato a chiedermi se non avessi commesso un errore a farmi dimettere… Forse lì sarebbero stati ancora più bravi a prendersi cura di me e delle mie necessità, avrebbero saputo seguirmi meglio, e così… Così ho cercato un modo per farmi riportare in quel reparto ed ho pensato bene di far prendere un bello spavento a tutta la mia famiglia (non solo mamma e papà, eh, perché o le cose si fanno per bene o non si fanno per niente) ed ho provato l’ebrezza di essere trasportata in Ospedale in ambulanza con una certa urgenza.
Arrivai in Pronto Soccorso accompagnata dalla dicitura “convulsioni febbrili”, e mi trasferirono in reparto dove venni ricoverata per “scrupolo”, solo per monitorare la situazione.
Tornare in Ospedale non è stato assolutamente divertente come avevo immaginato; ovviamente non fui riportata in Patologia Neonatale ma fui ricoverata in Pediatria e quell’anonima stanza non mi piacque per niente.
Non aveva un buon odore come Casa, sapeva solo di medicinali e dolore, mi sentivo a disagio e lontano dalle mie cose, non capivo perché non potevo stare contemporaneamente con mamma e papà, mi sembrava una punizione e riuscivo a farmi entrare in testa quell’assurda (ai miei occhi di bambina quasi unenne) regola che decretava che: in reparto poteva sostare solo un genitore alla volta.
Di quel ricovero conservo un ricordo vago, ero ancora molto piccola ma so che il momento delle dimissioni è stato bello anche per me: finalmente salutavo quella stanza anonima e priva di odori, potevo tornare a Casa, sentire il sole sulla pelle, usare i miei giochi, seguire i miei ritmi e fare i dispetti al mio cuginetto ed alla mia gattina Penelope.
Ho continuato a crescere e sperimentare, ho trascorso felicemente i miei primi anni di vita e, grazie ai miei progressi ed alla mia voglia di imparare, ho sperimentato l’asilo nido e la scuola materna.
Al nido ed alla materna, ho avuto la fortuna di incontrare delle brave insegnanti: con loro ho fatto molte esperienze e mi hanno accompagnato nelle fasi della crescita, mi sentivo serena ed i miei genitori erano felici; ma, come già successo, un giorno una grande nostalgia si è impadronita di me.
Nonostante la presenza di un micro-gatto, Flash il mio “fratellino peloso” di circa 4 mesi, d’improvviso Casa non mi bastava più… Sentivo la mancanza di qualcosa ed il mio corpo ha risposto con un malessere fisico come a rispondere al mio desiderio di rivedere le persone che si erano prese cura di me alla mia nascita.
Grazie all’occhio attento del Neonatologo che mi ha vista nascere, i miei genitori mi hanno portato a fare degli accertamenti e, dopo aver ottenuto risultati allarmanti, ho fatto la mia seconda corsa in ambulanza verso Pisa, nel reparto di Oncoematologia Pediatrica per Trombocitopenia Immune.
Questo secondo ricovero lo ricordo meglio, avevo sei anni e una consapevolezza più concentra delle cose che mi stavano attorno. I volontari dell’ambulanza erano molto gentili e simpatici, il mezzo con il quale mi hanno trasferito da un ospedale all’altro era studiato per i bambini, pieno di colori rassicuranti e bellissimi pupazzi. Ma io… beh… in quel momento stavo male e, nonostante la presenza di mamma sull’ambulanza, non potevo impedirmi di avere paura.
Avevo capito che l’ambulanza mi avrebbe portato in un nuovo posto, un luogo diverso da Casa dove delle persone preparate e, speravo, gentili si sarebbero prese cura di me e della mia patologia.
Attraverso le loro mani, le loro carezze, sentivo la paura di mamma e papà, ero troppo piccola per capire tutte le parole delle dottoresse, ma era successo qualcosa di grave al mio corpo, dovevo fare degli esami e provare una terapia, insomma, dovevo impegnarmi parecchio per lasciare presto l’Ospedale e tornare a Casa al più presto.
Anche stavolta, i miei genitori non sono potuti stare in stanza con me nello stesso momento e, mentre papà ci salutava e tornava a Casa coi nonni, io e mamma ci siamo preparate ad affrontare la prima notte in ospedale. Ho fatto rapidamente gli esami necessari e, dopo una flebo di antibiotici, ho iniziato la cura sperando che facesse effetto velocemente. Non solo perché volevo tornare nel calore della mia Casa, ma perché non volevo perdermi la recita dell’asilo: quell’anno avrei salutato la Scuola Materna per andare nella “scuola dei grandi”, volevo indossare la toga con il tocco e cantare a squarciagola coi miei compagni.
Volevo vedere gli occhi dei miei famigliari brillare di mille emozioni ed abbracciare stretta-stretta-stretta la maestra Pamela che mi aveva condotto, non senza difficoltà, fino al mio terzo anno di Materna insegnandomi tante cose con passione e pazienza.
Fortunatamente, la cura che ho fatto è stata risolutiva: nel giro di qualche giorno, i miei valori sono rientrati, io sono tornata ad essere la bambina vivace e curiosa di sempre; ho fatto amicizia con le dottoresse e le infermiere del reparto e, tra un gioco ed un cartone animato, ho gioito quando ci hanno detto di iniziare a prendere le nostre cose perché potevo tornare a Casa.
Casa, quando ho sentito quella parola mi si sono illuminati gli occhi, totalmente consapevole (finalmente oserei dire) di quanto nel corso degli anni fosse diventata importante per me e la mia famiglia!
Il rientro a Casa è stata una grande festa: amici e parenti mi aspettavano con la stessa eccitazione e felicità di quando sono stata dimessa dalla Patologia Neonatale.
Con il cuore che batteva forte nel petto, quando sono scesa dalla macchina, ho provato un’emozione fortissima: è stato così bello tornare a Casa e trovarla lì pronta ad avvolgermi tra le sue mura accoglienti, ad ascoltare la mia voce ed i miei racconti, a cullare i miei sogni e i miei giochi “a fare finta” ed asciugare le mie lacrime e mostrare con fierezza i miei disegni…
Osservandola stagliarsi contro il cielo azzurro, un enorme sorriso mi ha illuminato gli occhi: mi sono sentita accolta, mi sono sentita amata.
Finalmente, mi sono sentita a CASA e quel senso di “inadeguatezza” di “mancanza” avevano abbandonato il mio cuore per sempre perché avevo capito che Casa è Amore ed io ne ero stata sommersa anche stavolta.
Grazie alle cure che ho fatto, ho potuto partecipare alla festa della Scuola Materna dove ho salutato gli amici che sapevo che non avrei rivisto alla Primaria il prossimo anno. Nonostante tutto ero felice: felice di essere lì, di aver cantato e recitato con i miei compagni, di aver potuto salutare personalmente la mia maestra e di aver potuto giocare in quel grande giardino un’ultima volta.
Crescendo, ho capito che Casa è dove sta il tuo cuore. Io sono fortunata perché il mio batte in sincrono con quello dei miei genitori e, ovunque la vita ci porterà, finché mi staranno vicini io mi sentirò a Casa.
Che suono dolce ha la parola Casa: sa di mamma, papà, amore e coccole.
  
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