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Autore: AthenaD    24/12/2023    0 recensioni
Non si può non amare Omero, eppure, talvolta si vorrebbe scendere più nel dettaglio dei sentimenti che provano i protagonisti. Uscire dall'epica e incontrare le persone. Mi domandavo se, dando accesso semplicemente alle passioni che animano i personaggi e qualche breve pennellata di contesto, fosse comunque chiaro al lettore di chi si sta parlando in questa storia.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ulisse
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Mi hanno detto di lasciarlo andare.
Me l’hanno fatto dire così, come ti comunicano sempre le cose. Come un ordine puro e semplice, che non tiene in alcun conto i tuoi sentimenti. Che cosa vuoi tu. Cosa ne sarà di te.
E non puoi dire loro neppure che ne morirai. Perché sanno bene che non è così.
Per quanto io sia polvere ai loro occhi, anch’io sono immortale.
Se n’è arrivato, il messaggero, come fa sempre, con quel sorriso cattivo che sembra dolce, sul viso bellissimo, che io trovo orrendo. 
Veniva dal mare, perfettamente asciutto e camminando non si bagnava i calzari dalle ali d’oro, né un granello di sabbia osava contaminare la perfetta pulizia dei suoi piedi. Quando vengono da me, non si curano mai di salvare le apparenze, di sembrare normali. Sanno che non ne vale la pena. Sembrano sempre quello che sono.
Pareva contento di portarmi una brutta notizia. Lo è invariabilmente, quando può spezzare un cuore. Aveva un sorriso divertito negli occhi di un viola impossibile. “Lo devi lasciare andare-mi ha detto, così, con tono incolore, come se non mi stesse strappando via l’anima-lo hai trattenuto per sette anni, ormai è tempo che lui torni alla sua isola. Da sua moglie.”
Non si è neppure preoccupato che io rispondessi sì o no o comunque qualcosa. Non si è preoccupato della mia bocca che si apriva per parlare, forse pregare, delle mie mani che gli cercavano, supplici, le ginocchia. “Lasciarlo andare dici? Perché? E che ne sarà di me? Tornerò a essere di nuovo sola! Sempre sola! In quest’isola dimenticata da tutti. Da tutti…persino dal tempo…Ti supplico no! Lasciatelo con me! Ancora un altro anno…un altro mese!” Caddi in ginocchio sulla sabbia e alzai verso di lui le mani, in gesto di preghiera.
Ma quando levai il capo per spiare se le mie parole avessero avuto un qualche, seppure minimo, effetto… niente. Non c’era più nessuno.
Lui se ne era già andato. Lasciando il solito vago profumo di iris.
Mi buttai sulla spiaggia in lacrime. Le onde di cristallo, azzurrine, trasparenti, appena orlate di schiuma, continuavano a scivolare sulla sabbia bianca. Sussurravano qualcosa che non capivo. Forse mi compativano. Il mare, in fondo, un poco mi vuole bene e veniva a lambirmi timidamente la mano, come un capretto addomesticato.
Mi rigirai sulla schiena ansimando. Il cielo era di un sereno implacabile. Mi sentivo soffocare.
Mi si chiedeva di strapparmi il cuore da sola. E gettarlo in mare.
Non so quanto piansi. Gridai, anche. Naturalmente nessuno venne in mio soccorso. Nessuno, perché non c’era nessuno. E forse, le mie grida avevano spaventato anche gli uccelli.
Non era rimasto che un silenzio di attesa.
Mi ripulii alla meglio. M’intrecciai i capelli. I miei capelli color sole, lunghi fino alle caviglie.
Belli, bellissimi. Inutili.
E andai in cerca del mio amante.
Lui era là. Seduto sullo scoglio rivolto a est. Il suo corpo nervoso pareva già proteso nel viaggio.
Era stato così anche per tutti i sette, brevissimi, anni del nostro amore; di rado lui era davvero con me.
La sua anima era eternamente in fuga come l’onda. Il suo cuore sempre rivolto al suo passato di guerra, città in fiamme, amori, compagni dispersi, divorati, uccisi, nemici e mostri sconfitti dalla sua astuzia o era già proteso nel suo futuro di avventure, attraverso il mare color del vino. Lontano. Lontano da me.
Scrutava l’orizzonte con quegli occhi scuri, dal multiforme ingegno, che tanto mi seducevano, quando vi affogavo nei momenti d’amore e che poi si staccavano e volavano via. Con le mani si tormentava la barba rossa, appena striata di grigio e con il naso aquilino, annusava la perfetta, perpetua brezza marina.
Pur così diversi, eravamo entrambi creature del mare. Entrambi appartenevamo ad un’isola.
Dovette sentirmi arrivare, ma non si voltò neppure. Gli toccai la spalla e poi mi sedetti ad abbracciarlo da dietro. Non mi respinse. Anzi coprì la mia mano con la sua. Callosa come una suola, grande, forte, nodosa. Una mano che tante volte aveva brandito la spada di bronzo. Una mano che non temeva di uccidere. Una mano che sapeva così bene amare.
“Puoi andare, se proprio lo desideri…” Dissi.
Tutto il mio essere pregava, supplicava, sperava che lui scuotesse il capo, che lui dicesse, no. Resto.
Lui si volse di scatto “Quando?”
Le lacrime mi scorrevano sul volto, irrefrenabili, quasi non riuscivo a parlare.
“Quando?” Ripeté lui e pareva che a stento si trattenesse dallo scuotermi.
“Quando vuoi…ho sperato che mi amassi. Ho pregato che mi amassi. Ho perduto. Lo devo accettare.”
Distrattamente mi accarezzò i capelli. “Ti ho amata. Ti amo. Ma amo la libertà di più. Se davvero mi ami, amami per come sono. Libero.”
“Oh, sì, libero. E lontano.”
Il suo volto cotto dal sole era una fitta rete di rughe. Sembrava più vecchio dei suoi anni, sembrava più vecchio anche se, da quando era con me, non era invecchiato di un giorno. Ma i suoi occhi…oh, cos’era la magia dei suoi occhi! Mutevoli come la fiamma, avvincenti come le sue avventure, che mi aveva raccontato tante volte, stringendomi tra le braccia, davanti al fuoco.
La prima volta che lo guardai in quegli occhi, seppi di non avere mai vissuto prima.
E di non avere mai amato.
“Lontano, si. Forse per sempre. Forse no. Non si può sapere. L’amore può sopravvivere a qualunque distanza. Ma non può vivere prigioniero. Sono felice che tu lo abbia compreso”
Entrambi fingemmo di pensare che lasciarlo andare fosse una mia scelta e gli fui grata perché, con questa finzione, mi lasciava un minimo di dignità.
Quella notte facemmo l’amore sulla spiaggia. La luna era piena, immensa, pareva giorno. Lui, finalmente felice, era appassionato come non era da anni. Il suo corpo pesante di muscoli sopra di me, la sua virilità robusta, furiosa, mi davano ondate di dolore e piacere che sembravano volermi punire della lunga prigionia e insieme ripagare. Ma la verità è che lui era già altrove. Mentre io, persa in un continuo ripetermi che era la mia ultima gioia, a stento riuscivo a godere. Vedevo che mi attendeva uno spazio infinito pieno soltanto della mia inutile bellezza. Del mio inutile paradiso.  Del perpetuo silenzio.
Sarei stata di nuovo disperatamente sola. Quando altrove, creature meno belle di me, meno dolci di me, meno amabili di me, vivevano le loro vite a fianco degli uomini e delle donne che amavano e poi, finalmente, morivano. Quando in una petrosa isola, una donna, di certo ormai vecchia e brutta, sedeva al telaio, mentre l’amore della mia vita rinunciava all’immortalità per tornare da lei.
Senza battere ciglio.
Costruimmo una zattera, in quei giorni. Lo guardavo abbattere gli alberi con l’ascia, con un vigore gioioso, era quasi una danza. A tratti si fermava per detergersi dalla fronte il sudore. Talvolta lo sorprendevo a fissarmi con sospetto. Come se non fosse del tutto certo che, davvero, non potessi cambiare idea e pertanto fosse necessario procedere il più speditamente possibile.
E procedette spedito, oh, se procedette! In meno di quindici giorni la zattera era pronta. Quando non faceva l’amore con me, cuciva insieme lenzuola per farne vele, saggiava la tenuta delle assi, spalmava lo scafo di una sostanza impermeabile di sua creazione.  Misurava. Aggiustava. Legava.
All’alba del quindicesimo giorno, quando tutto fu pronto, lo aiutai a caricare acqua dolce e frutta e tutto ciò che era in mio potere dargli.
Insieme spingemmo la zattera in mare.
Non ci dicemmo più nulla, poiché non vi era più nulla da dire.
Lui salì sulla zattera e aggiustò brevemente la vela, poi si volse e alzò la mano in segno di saluto.
Io gettai un piccolo mazzo di fiori ai suoi piedi, legato con una mia lunga treccia.
Sorridevo.
Non avevo pianto neppure quell’ultima notte.
Volevo che almeno mi ricordasse bella.
Se mai mi avesse ricordata.
Dopotutto, lo sapevo. Per piangere mi restava l’eternità.
  
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