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Autore: The Writer Of The Stars    11/01/2024    2 recensioni
Hai dentro la tua malattia
Hai dentro la tua cura
***
Ciao, ritorno dopo ormai 7 anni di assenza, ma il lupo perde il pelo ma non il vizio: Bulma, introspezione,alla fine sempre lì ritorno.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Hai dentro la tua malattia
Hai dentro la tua cura

 
                                                                                                              Dentro

“Hai finito il dentifricio.” Sbuffò. Lo sapeva perfettamente, Bulma, che continuare a spremere il tubetto di plastica ormai striminzito non le avrebbe offerto più neanche una goccia di pasta bianca. Aveva davvero bisogno di quella voce dentro di sé, uguale alla sua ma di un solo mezzo tono più alto – dunque più irritante- a redarguirla? Certo che no. Il problema di Bulma era proprio quello: non ne aveva bisogno, ma non riusciva proprio a zittire il suo inconscio atrocemente rompipalle. La cosa ironica, d’altra parte, era che non riusciva nemmeno a scovare il filo della matassa per sbrogliare e dipanare quel grumo confuso che aveva dentro, in testa: come aveva iniziato a sdoppiarsi e a farsi sgridare da una versione incorporea di se stessa?
 
La prima volta che l’aveva sentita era sopra la bilancia. Non stava ritta con la testa alta e la pancia tirata come faceva di solito, piuttosto si era accucciata, come un riccio addormentato: abbracciata su se stessa, con i piedi in bilico a mezzo centimetro da terra, le piante posate sulla fredda superficie di vetro fino ai talloni, che invece sporgevano fuori. Aveva letto il numero sul display un paio di minuti prima, poi aveva assunto quella posizione difensiva, da animale ferito. “Sapevi che il peso sarebbe aumentato, non puoi pensare di avere dentro un essere dal peso di un chicco d’uva, per quanto piccolo possa ancora essere. Stupida che sei, questa te la devi scordare per i prossimi mesi.” Aveva scoperto di essere incinta due settimane prima. Non era stato il ciclo in ritardo quel mese a darle il campanello d’allarme, a discapito di quanto aveva voluto far credere a se stessa: la frivola verità è che il dubbio le era sorto quando una mattina di novembre, scrutando il cielo plumbeo e carico di nembi, aveva pensato di colpo alla gonna lilla sepolta nel suo armadio, perché il colore era il suo unico modo di rispondere al grigiore di quella giornata.
E della sua esistenza, da quando Vegeta se ne era andato all’improvviso.

Insomma, quella mattina la gonna lilla, con quel suo tessuto lanuginoso e caldo, ma soprattutto cromaticamente viva, era il suo pensiero fisso da quando aveva sfiorato il pavimento gelido con i piccoli piedi pallidi. Non la indossava dallo scorso inverno, è vero, ma non la ricordava così stretta, così scomoda, così non sua. E allora aveva avuto un flash, e si era resa conto di non aver dovuto correre al supermercato quel mese per acquistare un pacco di assorbenti di emergenza all’ultimo minuto, perché da quando aveva 13 anni il suo geniale cervello non aveva mai trovato posto per ricordare di tenere sempre dei tampax in casa come scorta. Aveva poi pensato alla sera precedente, quando l’accostamento gastronomico di crema al cioccolato e nigiri avanzati dal pranzo non le era sembrata poi troppo vomitevole, anzi. Vero era poi che da qualche settimana le capitava di tanto in tanto di scoppiare a ridere istericamente senza un’apparente ragione, quando invece in gola deglutiva di continuo il groppo amaro dell’abbandono freddo e violento subito poco tempo prima. Aveva, per farla breve, acquistato infine un test di gravidanza, perché magari erano solo sue paranoie però chissà, tanto valeva confutare ogni dubbio, no?
Vegeta se ne era andato da 22 giorni e 12 ore, stando al calendario appeso al muro: lei aspettava un bambino da 1 mese circa, secondo il display dello stick stretto tra le sue dita.

Sebbene sapesse perfettamente che non avrebbe avuto alcun senso frequentare la bilancia in quei 9 mesi seguenti, Bulma continuava a rifugiarsi in essa ogni mattina. Inizialmente aveva pensato si trattasse di una brama ribelle dettata dall’ ossessione per il proprio corpo, un desiderio infantile di accertarsi che le cose, l’involucro esterno, non stessero cambiando in qualche modo, perché non era pronta a diventare madre di un bambino, figuriamoci del figlio di un essere più bestiale che umano.

E che era sparito.

La verità, invece, la scoprì solo col tempo. L’ossessione per il peso non era dettata da una vanità egoriferita, ma da un latente bisogno di controllo verso l’essere che le cresceva dentro; bisogno di controllare che stesse continuando a crescere, che vivesse in lei. Il rigetto terrorizzato della prima settimana si era trasformato in una spasmodica cura per il feto che stava diventando creatura, che cresceva, diventava a mano a mano un poco più grande, un poco più pesante, un poco più vivo. Controllava e annotava con rigore quasi quotidiano il proprio peso corporeo, pensando che quella nuova cifra settimanale non fosse solo un numero, ma il peso di ciò che aveva dentro. La sensazione di possedere qualcosa in sé era stata uno schiaffo violento, che col tempo stava diventando però una carezza gentile e timorosa. Poi era arrivata la voce. Non era la prima volta che parlava con se stessa, figuriamoci, le conversazioni più interessanti della sua giovane vita fino ad allora erano avvenute tutte di fronte allo specchio del suo bagno. Ma sentirla dentro di sé, così chiara e potente da sembrare quasi quella di un corpo estraneo, era stato destabilizzante. Bulma si era resa conto di aver pensato così tanto all’essere che le cresceva dentro, solitario nel suo grembo, che il suo inconscio sembrava aver trasposto una propria versione virtuale che potesse far compagnia al suo bambino, proprio lì, dentro di lei. La dimensione caotica della sua vita le imponeva la necessità di trovare uno spazio di serenità per la futura madre che sarebbe divenuta, per abituarsi a nutrire quel legame simbiotico che non si sarebbe spezzato, come il cordone ombelicale, nel giro di pochi mesi. Quello spazio, fino ad allora, era dentro di lei. Non aveva un compagno che le carezzasse il ventre gravido; abbracciava lei la propria pancia. Non aveva qualcuno che le scostasse i capelli dalla fronte quando si riversava sul gabinetto a causa delle nausee; indossava da sola una fascia per capelli in spugna blu. Suo figlio avrebbe avuto dei nonni da chiamare come tali, ma forse non avrebbe imparato a pronunciare la parola “Papà” per chissà quanto tempo.
Se mai l’avesse imparato.

Aveva dentro la sua malattia, ma anche la sua cura.
Ora però, a mezzanotte inoltrata di una frizzante sera di fine marzo, Bulma aveva bisogno di un dentifricio e no, non aveva nessuno che potesse procurarglielo. Lanciò uno sguardo stanco allo specchio di fronte a sé, abbandonando le braccia pesanti sul bordo del lavandino; le occhiaie nere come antracite le solcavano il volto diafano come un aratro su di un campo di grano. Sospirò e sbuffò, spegnendo la luce: avrebbe mangiato una mentina per quella sera, al diavolo tutto. Aprì la porta della camera da letto con la mano sinistra, mentre la destra carezzava distrattamente il pancione ormai al termine del sesto mese di gravidanza; cullava suo figlio, mentre la propria voce interiore cantava lui una ninna nanna. Un sussulto rubò al suo cuore due battiti e mezzo quando accese la luce: la finestra di fronte a lei, appannata per il contrasto tra il bollore della sua stanza e il vento freddo della notte, non le impedì di riconoscere la figura appollaiata sul davanzale esterno.
Vegeta non era cambiato per niente. Era più muscoloso, questo era evidente, ma la sua espressione nervosa e cupa gli solcava ancora con forza i tratti del volto induriti dalla fatica degli allenamenti. Bulma si avvicinò piano, non staccò mai le proprie iridi cerulee dalle sue di pece; l’origine dell’universo si sarebbe potuta riscoprire nel fondo di quelle pozze infinite. Gli occhi di Vegeta scattarono solo per un momento verso il ventre della donna e per un secondo infinitesimale, ma tangibile, Bulma giurò di aver visto una scintilla guizzare nell’umor aqueo di quell’uomo a metà che aveva appena realizzato di aver generato la vita. Bulma non parlò, ma si avvicinò sempre di più al vetro umido, incatenando i loro sguardi con corde più dure di quelle con cui Freezer legava i propri prigionieri: non avrebbe mai dimenticato l’unica confessione personale ottenuta da Vegeta, proprio nel letto alle sue spalle, forse quella stessa notte in cui avevano concepito il figlio che ora, senza saperlo, si trovava davanti al proprio padre, dentro di lei. Bulma allungò la mano, deglutì con fatica, afferrò la maniglia della finestra. Poi sospirò:

“Fa freddo fuori, vuoi venire dentro?”

 

Nota autrice:
Ciao, qualcuno diceva “a volte ritornano” e io per una volta sono tornata. Non scrivevo qui, o in generale su questo sito o per un piacere personale, dal 2017. Avevo voglia di ributtare giù qualcosa e sgranchirmi un po’; per farlo non potevo che rivolgermi al terreno che più ho sondato nei miei anni qui su EFP; ennesima Bulma e Vegeta, periodo pre cyborg, lo so, ma volevo riprendere a camminare a piccoli passi. Grazie di avermi ridato fiducia anche solo aprendo e leggendo fino a qui questa storia.
Un abbraccio,
 
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