Lo vedeva riflesso dentro lo specchio, sui finestrini sporchi, su occhiali da vista e nei denti bianchi e lucidi di un sorriso sguainato.
Allora voltava lo sguardo, annodava ciocche di capelli con le dita, lisciava la camicetta azzurra con i palmi sudate, si bagnava le labbra asciutte e inclinava il viso arricciando il naso.
Lo sentiva persino.
E nuovamente si malediva si contorceva e si muoveva dentro quel dolore e quella incapacità di capienza del suo corpo che traboccava e rigettava fuori scatti e smorfie e strette e morsi.
Li lasciava cadere sui pavimenti di piastrelle in terracotta, spostava il peso da un piede all’altro e ripartiva e camminava nella disinvoltura e goffaggine e riservatezza di sempre.
Pezzi di tessere con cui realizzare figure e ombre vivaci e dolci e piene di amore, stracci macchiati di lacrime squassanti e aspettative soffocate nel silenzio obbligato che scendevano in gola e tappavano il respiro.
Li lasciava cadere sui pavimenti di piastrelle in terracotta proprio perché, si diceva, di quelle cose di quell’insieme di cose ( giorni parole canzoni sorrisi e baci e abbracci e sole, per Dio ) ecco, lei non se ne faceva più niente.
E allora lasciava strascichi di anima in pavimenti di piastrelle in terracotta perché tanto, si ripeteva, nessuno se ne sarebbe accorto.
Così voltava lo sguardo, inclinava il viso e accarezzava la guancia di una qualsiasi ragazza gentile e timida e felice forse.
« Come stai oggi? »
« Benissimo grazie »
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