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Autore: Angel TR    16/02/2024    2 recensioni
It will take a lot for me to settle
Doja Cat - Paint The Town Red
Tre storie sul difficile rapporto tra i Mishima e la loro eredità. Perché il sangue (non) è acqua.
[Partecipa alla Challenge "Parole Intraducibili" indetta da Soly Dea su Efp]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Heihachi Mishima, Jin Kazama, Kazuya Mishima, Lars Alexandersson
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ultraviolence'
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Ratljóst: letteralmente significa “abbastanza luce per poter navigare”/“luce di orientamento” e si estende a significati più ampi come “prendere la giusta direzione”, “seguire la giusta strada” e “sapere dove si sta andando”.

#ClanMishima_Familia


Per diventare adulto, il figlio deve uccidere il padre.
Sigmund Freud, “Il complesso di Edipo”

Mi hanno fatto bene le offese
Lo sai che non porto rancore
Anche se papà mi richiederà di cambiare cognome

Mahmood - Tuta Gold


Heihachi

A casa aveva una moglie giovane e un figlio neonato.
Suo padre, Jinpachi, ormai anziano, aveva fondato un impero: una multinazionale che operava nel settore militare e tecnologico e che aveva da tempo completamente sbaragliato la concorrenza sull'isola. Heihachi, da degno figlio, aveva iniziato a lavorare nell'impresa da giovanissimo, quando aveva volontariamente seguito le impronte del padre decidendo di iscriversi a un corso di studi che potesse formarlo a dovere. Eppure, nonostante il suo impegno costante, Heihachi restava sempre il figlio di suo padre, il sottoposto, il Mishima numero due, schiacciato dalla pressione di una gerarchia che non gli concedeva ascese. Parlarne era vietato, era simbolo di debolezza.
Quando era appena un ragazzino, suo padre gli aveva mostrato una nuova scultura all'interno del lussureggiante giardino di Villa Mishima e gli aveva spiegato: «Quelle due lanterne laggiù sono state costruite dal miglior scalpellino del Giappone». Poi, si era avvicinato e, con un poderoso colpo di mano a taglio, aveva distrutto una delle preziose lanterne. Davanti allo sguardo attonito del figlio, aveva dichiarato: «Questa è una dimostrazione del grande potere dei Mishima: quello di costruire o di distruggere».
La lezione era servita: Heihachi aveva appreso che le chiacchiere erano la lingua dei deboli. Per regnare, per imporre il proprio dominio sugli altri, bisognava usare il pugno di ferro. L'altro lato della medaglia rivelava che, in quel mondo di formalismi eccessivi, inflessibilità, sangue e sudore, bastava poco affinché il ferro si usurasse e qualcun altro prendesse il sopravvento. Un altro Mishima, un Mishima numero due. Ma se ci fosse stato un unico Mishima al mondo, allora quella classifica non avrebbe avuto ragione di esistere: ecco spiegata la solitudine dei numeri primi.
Gli occhi serafici di sua moglie Kazumi l’osservavano girare in tondo per casa come una tigre in gabbia, comunicavano senza parlare; tra le sue braccia pallide, suo figlio riposava tranquillo. Heihachi lo trovava insopportabile: lui avrebbe dovuto ergersi come un pilastro di potenza e successo all'interno della sua famiglia e, invece, loro lo vedevano comportarsi come un suddito, accettando ordini e rimproveri come un ragazzetto qualunque.
«Quando sarà il momento prenderai il mio posto» gli aveva detto una notte, al termine dell'infinita giornata lavorativa, Jinpachi, captando il suo risentimento. Quel momento, tuttavia, non arrivava mai, bensì si stagliava lontano all'orizzonte e a Heihachi pareva di correre verso la pentola d'oro accarezzata dall'ultimo raggio dell'arcobaleno.
I Mishima avevano il potere di creare e distruggere: lui aveva creato una famiglia ma suo padre, con la sua sola presenza, la stava distruggendo. Attraverso la distruzione del figlio, suo padre creava ripetutamente se stesso e il suo impero. E allora qual era più importante: il potere di creare o di distruggere?
Una sera, osservando la tigre regalata a sua moglie leccare suo figlio Kazuya con i baffi ancora sporchi di sangue dopo la caccia, come se fosse il proprio cucciolo, Heihachi si diede una risposta. Anni più tardi, avrebbe dato sempre la stessa risposta.
Distruggendolo per creare se stesso, Heihachi avrebbe dimostrato a suo padre di essere un vero Mishima.


Kazuya

A cinque anni, suo padre lo buttò giù da un dirupo: aveva scoperto che nelle sue vene scorreva lo stesso sangue di sua madre, sangue maledetto, sangue demoniaco. Per un Mishima, non c'era nulla di più importante del potere e, dunque, siccome l'esistenza stessa di Kazuya minava le fondamenta del dominio di suo padre, quest'ultimo aveva preferito eliminarlo quando era ancora una facile faccenda: era solo un cucciolo, non era ancora cresciuto e, dunque, ancora non aveva guadagnato consapevolezza di sé.
Kazuya non aveva mai urlato durante la caduta: il terrore gli aveva serrato la gola.
«Se sei mio figlio, sopravvivrai!» gli aveva sbraitato contro Heihachi, mentre scagliava il suo corpicino giù dalla dirupe.
Sono davvero figlio di mio padre, aveva realizzato con un ghigno Kazuya, anni dopo, davanti al manifesto di un Torneo che vantava come premio il possesso dell’infame Mishima Zaibatsu. Infame come il suo proprietario: si occupava di sviluppare armi e munizioni – un settore già discutibile di per sé – e, in più, si diceva che bazzicasse nel traffico illecito di organi per esperimenti genetici occulti – suo padre sapeva, aveva sempre saputo e bramava il Gene Devil come nessun altro al mondo.
Sbaragliare la concorrenza fu pressappoco un allenamento per Kazuya, nelle cui vene scorreva la benedizione del Diavolo. Solo per due momenti, in tutta la sua vita, la concorrenza tenne testa e mise in difficoltà Kazuya: il primo momento fu da attribuire al pugno di fuoco di uno statunitense. Mai nella vita avrebbe pensato che un egocentrico americano avrebbe potuto reggere i suoi colpi, eppure…
Il secondo momento durò molto più a lungo e gli costò molto di più – ma questa è tutta un'altra storia.
«Sei vivo, allora» constatò suo padre a braccia conserte, nel vederlo.
«E tu sei morto» rispose Kazuya.
Più di vent'anni dopo, Paul Phoenix, lo statunitense dai pugni di fuoco, avrebbe raccontato di quell'incontro al figlio di Kazuya Mishima con queste parole: «Kazuya possedeva una forza sovrumana, diabolica. Ridusse Heihachi in poltiglia. Ma sai, non fu questo a scioccarmi, quanto quello che gli disse. Aveva davanti il corpo privo di sensi di suo padre e prese a inveirgli contro. Sai, non giudico, ci sono davvero dei padri di merda in giro e probabilmente il vecchiaccio se lo meritava, ma fu comunque una scena da brividi.» Agitò una mano per sottolineare il concetto. «Gli disse che gli avrebbe portato via tutto quello che possedeva, compresa la Zaibatsu, e che aveva dimostrato al mondo intero che lui, il grande Heihachi Mishima, non era niente.»
Il povero ragazzo, erede di una famiglia perversa, spalancò gli occhi come due piattini da tè davanti a quella valanga di informazioni. «E poi?» chiese, innocentemente.
Gli occhi dell'americano si velarono. «Kazuya buttò suo padre da una rupe» concluse.
A cinque anni, il figlio era stato buttato giù da una rupe dal padre. A ventisei, il figlio buttò il padre da quella stessa rupe: gli aveva dimostrato di essere un vero Mishima.


Jin

Da bambino, Jin si era chiesto spesso che tipo di persona fosse suo padre. Siccome non conosceva il mondo e, di conseguenza, non era ancora pratico dell'antica arte del “leggere l'aria” – un modo di dire dei giapponesi per indicare la capacità di capire quale fosse il momento giusto per aprire o chiudere la bocca –, aveva rivolto quella curiosità verso la mamma, porgendole spesso la fatidica domanda: «E papà?»
Puntualmente, lei cambiava argomento. Era chiaro: la mamma non aveva piacere di parlare del papà.
«Tu avevi rinnegato lo stile Mishima!»
Jin batté gli occhi.
Adesso non era più un ragazzino e sapeva captare il momento giusto o sbagliato per chiudere o aprire la bocca. Anche la sua curiosità riguardo al padre era stata soddisfatta e adesso capiva perché, a volte, l'ignoranza era una benedizione.
Perché lui, mamma?
Una volta, durante il suo primo Torneo, si era chiesto a chi somigliasse di più tra i due, se era più un Mishima o un Kazama. Per tutta la sua vita, non aveva avuto dubbi: lui era un Kazama, nato e cresciuto sotto la stella degli insegnamenti della mamma. La stessa mamma, però, aveva sganciato su di lui una bomba quando gli aveva ordinato di andare da suo nonno, Heihachi Mishima. E allora Jin si era costantemente chiesto: Come sono?
Era come suo padre Kazuya, altero e superbo, il ghigno crudele a piegargli le labbra sensuali? O aveva ereditato la grazia e la dolcezza di sua madre e chiunque poteva cogliere la sua bontà d'animo? O forse non era che un miscuglio mal assemblato dei due, un pezzo di carne deforme senza alcuna identità che arrancava in un mare di incertezze e sfuggiva allo sguardo altrui per non rivelare il vuoto che aveva dentro e la consapevolezza di non poter trovare il suo posto nel mondo?
Chi era lui?
Prima della morte della mamma, pensava di saperlo: era Jin Kazama. Ma, poi, l'eredità dei Mishima l'aveva privato di quella certezza e lui, per anni, si era sentito solo molto confuso, come se stesse brancolando nel buio alla ricerca della propria identità.
Ma adesso l’ho trovata.
Fu per quello che seppe rispondere a suo padre: «Non rinnegherò più ciò che sono, non rinnegherò più la mia eredità.»
Sono un Kazama ma anche un Mishima. Questo potere serve per proteggere chi mi è caro.
«Voltagabbana; proprio un vero Mishima» commentò il padre, sputando un grumo di sangue sulle rocce bagnate dalla pioggia, prima di scagliarsi su di lui.
Di Mishima al mondo ce ne poteva essere soltanto uno ma, in quel momento, ce n'erano per lo meno tre. Jin avrebbe dovuto soddisfare il desiderio del sangue paterno un'ultima, dolorosa volta affinché la maledizione fosse spezzata; avrebbe dovuto agire da vero Mishima affinché i Mishima fossero liberi una volta per tutte.
Il padre sollevò il pugno per sferrarlo dritto verso il suo volto e il figlio fece altrettanto. E, finalmente, alla fine, il padre cadde – forse solo momentaneamente – e il figlio restò in piedi.


Lars

Solo perché era stato concepito come una sottospecie di esperimento significava forse che non aveva diritto a una vita piena e dignitosa? Lars si rifiutava di accettare una tale visione della sua prima e ultima esistenza. Ora che aveva chiaro il motivo del suo concepimento – suo padre aveva voluto “testare” quale fosse la fonte primaria del Gene Devil, incontrando una donna straniera –, ora che aveva chiaro il motivo della sua innata predisposizione al comando, alle arti marziali, all'essere seguito invece che seguire – il sangue Mishima non poteva mai essere diluito –, Lars aveva intenzione di utilizzare tutte le risorse a sua disposizione per far del bene, per contrastare la stessa famiglia alla quale apparteneva.
Purtroppo per lui, non aveva idea di quale maledizione stesse per calare su di lui nel momento stesso in cui aveva messo piede in Giappone e aveva deciso di approfondire le proprie origini paterne. Sua madre non aveva mai osato obiettare, lasciava che il figlio seguisse il proprio destino.
E suo padre?
A volte Lars guardava Jin e si chiedeva se entrambi avessero nutrito delle speranze nei confronti dell'altra persona che aveva contribuito a metterli al mondo e, da come gli occhi del ragazzo s’incendiavano quando Kazuya veniva nominato, ne deduceva proprio di sì.
Erano stati uguali, una volta – o forse lo erano ancora.
E, proprio perché uguali, le loro innocenti speranze si erano presto ammuffite e, dalla muffa, come uno sciame di moscerini, si era sollevata una nuvola d'odio, tanto odio e tanto disprezzo ma solo perché le loro aspettative erano state disattese: il naturale affetto e amore che ci si aspetta da un genitore spazzato via dal ghigno scaltro e menefreghista di chi vuole mettere alla prova la propria progenie affinché dimostri di essere veramente un Mishima. Quale altra famiglia metteva in atto pratiche del genere?
Lars non lo sapeva.
Non sapeva nemmeno quale demone l'avesse posseduto quando, quella sera di un anno fa, aveva impugnato una pistola e l'aveva puntata alla tempia di suo padre per premere il grilletto.
«Ti ammazzo, bastardo!» aveva urlato, la voce un rombo irriconoscibile, così intrisa di furia, invece che della gentilezza di cui la infondeva normalmente, da suonare aliena persino alle sue orecchie, da far tremare le mura dell'antica Villa Mishima.
Nemmeno il dolce scudo di Alisa – uno scudo che aveva eretto per Lars, per proteggerlo da suo padre e non il contrario, e il vecchio l'aveva capito, per questo aveva sghignazzato – aveva fatto presa su di lui. Aveva premuto il grilletto, aveva sparato il proiettile, eppure…
Aveva fallito. Aveva fallito laddove Kazuya, seppur dopo tre tentativi, era riuscito. E forse proprio per quel motivo la maledizione dei Mishima non si era abbattuta su di lui, come non si era abbattuta su Jin. Entrambi avevano fallito nell’uccidere i propri padri, entrambi avevano scelto, volenti o nolenti, di imboccare la via della redenzione, del cambiamento, della convivenza. Lui aveva, anche se non volontariamente, deciso di convivere con la presenza maligna di suo padre ed era per quella ragione che, insieme a Jin, avrebbe rifondato il clan Mishima, dandogli una direzione diversa.
Avrebbe dimostrato di essere un nuovo Mishima.


Reina

No, qua non troverete strane riflessioni, giri di parole, vaneggiamenti frutto di cervelli lambiccati e stressati, “uccidere il padre” e sciocchezze da maschietti pappamolle del genere.
Io non mi sono mai posta queste domande perché la mia identità non ha mai traballato, non ho mai avuto dubbi e, soprattutto, non ho mai avuto bisogno di uccidere mio padre per affermare me stessa – questa ridicola gara la lascio al cromosoma Y – perché ho convissuto con la sua presenza, guardando alla sua schiena come un traguardo da raggiungere e poi, finalmente, superare affinché lui guardasse la mia, di schiena, con orgoglio.
Io sono me stessa, sono la figlia di mio padre, sono una Mishima ma non una qualunque, sono la loro regina.
E, presto, loro si inchineranno al mio cospetto.


Di un padre e una madre
Dopo che li perderai
Ti guarderò non più da bambino
Mahmood - Stella Cadente


N/D: i Mishima, mia croce e delizia! Girano voci di una possibile story dlc e io sono qui a invocarla ad alta voce!!! Alla fine le nuove generazioni daranno la loro impronta: chi si discosterà completamente dalla tradizione e chi invece la porterà avanti ma con un nuovo twist.
Alcune frasi sono state riprese da altre mie storie per una questione di continuità.
Sono contenta delle recensioni, oddei, finalmente qualcosa si muove in questo fandom! Leggerò anche le altre storie, datemi tempo!
Baci, Angel <3
P. S. Mahmood!

  
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