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Autore: Ghostclimber    18/02/2024    1 recensioni
La partita decisiva contro il Ryonan è terminata con la vittoria dello Shohoku.
Mitsui, ancora con un piede nella fossa, realizzerà qualcosa di molto importante su Kogure.
Genere: Fluff, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hisashi Mitsui, Kiminobu Kogure
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mitsui si trascinò fuori dalla doccia.

Avevano vinto contro il Ryonan, si erano qualificati per il torneo nazionale, eppure lui stava uno schifo. E grazie al cazzo, si disse, sei letteralmente collassato sul fottuto parquet, testa di minchia che non sei altro.

“Kogure mi molla per venti minuti e io non mi ricordo neanche che quando si suda si deve bere…” bofonchiò a se stesso mentre valutava la fattibilità di quei dieci passi che lo separavano dall’area comune degli spogliatoi.

“In qualche modo devi uscire di qui, se non vuoi che venga il Gorilla a recuperarti e a farti un altro cazziatone,” si disse, poi si avviò.

Merda, la disidratazione era una gran puttana. Girava tutto, il mondo sembrava come friabile, come se la consistenza delle cose non fosse quella giusta.

“Ehi, Mitsui,” chiamò una voce tremante, “Come ti senti?” Kogure era ancora lì, seduto su una panchina, e Mitsui pensò che forse stava aspettando lui; il suo cuore fece una capriola che per poco non lo stese di nuovo. Doveva piantarla di farsi venire il batticuore con le cose che pensava; o almeno sarebbe stato il caso di limitarle a situazioni in cui era sano di mente e di corpo.

“Insomma, mi sembra di essere insieme sbronzo e in doposbronza,” rispose, “Che ci fai ancora qui? Ho sentito il Gori che diceva che stavate andando via.”

“Gli ho detto che mi ero dimenticato una cosa,” rispose Kogure, alzando appena la testa in quel movimento timido che era parte di lui per guardare di sottecchi Mitsui, uno sguardo appena accennato che però bruciava come il fuoco.

“Volevi assicurarti che io mi reggessi in piedi?” chiese Mitsui prima di potersi mordere la lingua. Dannata linguaccia.

Kogure gli rivolse quel mezzo sorriso che avrebbe sciolto un pupazzo di neve al Polo Nord: “No, o meglio… non solo.” guardò in basso di scatto, come se si fosse lasciato sfuggire troppo. Mitsui mollò il muro a cui si era appoggiato per lasciarsi cadere sulla panchina di fianco a Kogure. Con un immenso atto di coraggio allungò una mano e la posò sul suo ginocchio: “Ehi, Quattrocchi… che succede?”

Kogure non rispose per un bel po’; Mitsui non osava allontanarsi né interrompere il contatto, e l’ultima parte cosciente della sua mente disidratata ringraziò che facesse caldo e che non dovesse preoccuparsi di una bronchite anche se era ancora mezzo nudo.

Poi, Kogure distese le mani, che fino ad allora aveva tenuto giunte davanti al ventre; tremavano vistosamente.

“Non riesco a smettere di tremare,” disse, e anche la sua voce rifletteva gli spasmi delle sue mani. Mitsui esitò, poi allungò le braccia. Come se avesse aspettato solo quello, Kogure si voltò appena e allungò le mani per lasciare che Mitsui le prendesse.

Mitsui le strinse, fregandosene del fatto che fossero gelide e sudaticce, le strinse e ne accarezzò i palmi con i pollici. Kogure trasse un respiro umido, e Mitsui gli prese entrambi i polsi con una mano sola; col braccio libero lo trasse a sé.

“Cos’è successo?” chiese a voce bassa.

“Non lo so, è…” Kogure sbuffò appena, “Tutto quanto, credo. Il campionato nazionale, il coach che sta male, la partita…”

“Il coach Anzai si riprenderà,” disse Mitsui, strofinandogli la mano sulla schiena, “Tutto il resto direi che non è niente male, non pensi?”

“Penso che ho cercato di fare il coach e ho fallito,” rispose Kogure.

“Ma che dici?” chiese Mitsui, scostandosi.

“Vi ho lasciati in campo mentre tre di voi stavano collezionando falli, non ho notato che stavi male, non ho saputo prevedere…”

“Kogure-kun,” lo interruppe Mitsui, “Lo sai che abbiamo vinto, sì?”

“Sì, ma avremmo potuto…”

“Se dici che avremmo potuto vincere meglio m’incazzo, quindi attento a quel che dici.”

“Mitsui-kun, quando ti ho visto cadere a terra, io…”

“Oi,” disse Mitsui, prendendogli il viso tra le mani, “Lo sai che ho diciotto anni, vero?”

“Che vuol dire?”

“Che sono grande e vaccinato, se sono testa di cazzo non sei obbligato da contratto a ricordarmi come si sta al mondo,” disse Mitsui, sorridendo, “Insomma, non è che ho cominciato ieri, va bene che per un po’ non ho giocato ma ricordarsi di bere… le basi, proprio.”

“Ma proprio perché so che non te lo ricordi, io…”

“Kogure. Kiminobu.” Kogure alzò finalmente lo sguardo in quello di Mitsui, al suono del proprio nome; i suoi occhi luccicavano dietro agli occhiali un po’ appannati.

“Kiminobu, hai dato il meglio di te. E sei stato grandioso.”

“Io… non devi dirlo solo per farmi stare meglio.”

“Bene, perché non è quello che sto facendo,” rispose Mitsui, poi gli posò le mani sulle spalle: “Senti. Vuoi sapere come mi sentivo durante la partita, senza Anzai in panchina?”

“Come?” chiese Kogure, anche se era chiaro che temeva la risposta.

“Smarrito. Continuavo a pensare che avrebbe chiamato un time-out e ci avrebbe spiegato l’accidenti che dovevamo fare, poi mi voltavo e lui non c’era, e io continuavo a rigirarmi in testa l’idea che poteva essere per sempre, e a cercare di ripetermi che non è così, che deve stare a riposo solo qualche giorno e poi tornerà, ma niente, non faceva presa.” Kogure annuì, ascoltando; anche lui, logicamente, era d’accordo, anzi: Mitsui rifletté che Kogure aveva avuto il ruolo più ingrato tra tutti loro. Loro avevano il gioco su cui concentrarsi, dovevano essere presenti in campo, dovevano correre, segnare, evitare che Hanamichi Sakuragi ammazzasse qualcuno, mentre Kogure era lì in piedi a bordo campo, a sentire fisicamente l’assenza del coach, con Ayako che si consultava con lui e il gigantesco, pesantissimo compito di dovere in qualche modo sopperire all’assenza di Anzai.

Sembrava che tutti avessero deciso di tacito accordo che Kogure avrebbe fatto il coach per quel giorno, durante la partita che valeva l’eliminazione o il trionfo, e lui non aveva nemmeno avuto il piacere masochistico di poter pensare alla propria stanchezza fisica: solo il peso della responsabilità, e il timore che i compagni di squadra l’avrebbero biasimato se solo avesse commesso un errore.

Non che qualcuno si sarebbe azzardato a farlo, pensò Mitsui mentre accarezzava distrattamente uno zigomo di Kogure col dorso della mano: il tacito accordo non era una partita di palla avvelenata con un giocatore inconsapevole. Avevano messo Kogure a fare il coach perché era l’unico di cui si sarebbero fidati in quel ruolo.

“Poi però vedevo te, lì in piedi, pronto a scattare, che parlavi con Ayako e con i ragazzi… e si vedeva che stavi andando in panico, eppure te ne restavi lì, non sei scappato, non hai urlato, non hai pianto,” disse a bassa voce.

“Mi avrebbe sfottuto tutta la prefettura,” ribatté Kogure.

“Penso che Fujima ti avrebbe raggiunto per urlicchiare un po’ anche lui.”

“Dai, piantala.”

“No che non la pianto,” disse Mitsui, “Al posto tuo avrei dato di matto entro la metà del primo tempo, lo sai, vero?”

“Mitsui, io stavo dando di matto dalla metà del primo tempo,” protestò Kogure.

“Lo supponevo, ma non l’hai dato a vedere! Senti…” Mitsui gli prese nuovamente le mani: “Lo so che sembra che ti abbiamo rifilato il lavoro sporco, ma Kimi-kun…” Kogure sobbalzò, e Mitsui con lui. Ma non poteva lasciare a metà il discorso per mettersi a chiedere scusa e per spiegare cose che nemmeno a lui erano del tutto chiare.

“Nessun altro avrebbe saputo farlo bene quanto te,” concluse. Aveva voglia di cacciare un urlo e scappare, mezzo nudo com’era, fino all’estremità più lontana del Giappone e poi mettersi a nuotare fin quando non avrebbe incontrato i pinguini. Kogure non stava rispondendo, e Mitsui stava per impazzire.

“Non l’ho fatto bene,” disse infine.

“Non puoi essere esperto come Anzai, ma eri lì e ci hai dato il supporto che ci serviva,” ribatté Mitsui. Se doveva stare lì per tre giorni a convincerlo, l’avrebbe fatto.

“Ma io…”

“Senti, te lo immagini Akagi al posto tuo? Gli sarebbero girati i coglioni in trenta secondi e avrebbe tirato fuori dal campo Hanamichi, saremmo rimasti senza un pivot e avremmo chiuso dopo dieci minuti per manifesta incapacità.” Kogure si lasciò sfuggire un piccolo sghignazzo.

“O Miyagi, si sarebbe messo a concordare con tutto quello che diceva Ayako, lo sai che è tanto un caro ragazzo ma quando lei è nel suo campo visivo diventa un morto di figa che non sa più come far funzionare i neuroni.” Kogure ridacchiò.

“Senza di te non saremmo arrivati fino a qui,” infierì Mitsui, “E tu lo sai.”

“Lo so?” chiese Kogure.

“Lo sai. E, per quel che vale, sono fiero di te.” Kogure alzò finalmente la testa, con un movimento così brusco che Mitsui sussultò.

“Che… che c’è, ho…?” biascicò.

“Davvero?” chiese Kogure.

“Certo. Smettila di dubitare di te stesso.”

“Come si fa?”

“Speravo che ci arrivassi tu per primo, così poi me lo spiegavi,” scherzò, anche se solo a metà, Mitsui. Kogure sorrise, un sorriso dolce e caldo che attorcigliò lo stomaco di Mitsui.

“Ti farò sapere, ma non aspettarmi alzato,” bisbigliò Kogure.

“Posso… posso dirti una cosa?” chiese Mitsui. Le mani di Kogure si rigirarono nelle sue, intrecciando le loro dita.

“Certo.”

“Sei la cosa migliore che mi sia mai capitata.”

“Hisa-kun…” il cuore di Mitsui ebbe un sussulto così forte che lui dovette fermarsi un attimo per accertarsi che non l’avrebbe vomitato.

Kogure tirò su col naso: “Alla prossima partita, puoi ricordarti di bere di più? Per me.”

“Per te, posso farlo,” rispose Mitsui, un po’ spiazzato.

“Perché a vederti lì steso a terra, io…” Kogure si interruppe, poi si sporse in avanti e appoggiò la fronte nell’incavo della spalla di Mitsui, che abbassò il mento per poterlo sfiorare senza tuttavia lasciargli le mani.

Immobile nello spogliatoio vuoto, col sole che finalmente cominciava a tramontare, Mitsui si rese conto di quanto fosse cambiata la sua vita dal fatidico giorno in cui aveva fatto irruzione in palestra con Tetsuo, Norio e gli altri, da quando Kogure aveva sfoderato un coraggio insospettabile. Tutti gli altri si erano limitati a insultarlo a caso, a dirgli di fermarsi, Hanamichi aveva come al solito detto puttanate e aveva menato le mani, e Mitsui non si era fatto scrupoli a rispondere a tutti con arroganza.

Ma quando Kogure aveva preso la parola e lui l’aveva schiaffeggiato in risposta, gli era sembrato di aver commesso un sacrilegio. E le sue parole, “Mitsui, è ora di crescere”, gli risuonavano ancora nella testa.

Ed era cambiato anche quel sentimento che aveva tanto a lungo albergato nel suo cuore, anche se era la prima volta che se ne rendeva conto a livello cosciente: in precedenza, aveva amato Kogure per come lo faceva sentire.

Averlo intorno sul campo da basket, percepire la sua emozione nell’averlo in squadra, poco più tardi sapere che sarebbe passato a trovarlo in ospedale portando i suoi snack preferiti era stato un balsamo per l’ego di Mitsui. E dopo, nei bui anni senza basket, vederlo tremare e cambiare strada, sapere che Kogure temeva il confronto, l’aveva fatto sentire stupidamente grande, idioticamente adulto, come un bambino che si mette la giacca del papà e finge di fare telefonate per giocare.

Ma ora.

Oh, ora era diverso. Ora che Kogure, per una volta, non aveva avuto il tempo per preoccuparsi di lui.

Mitsui si rese conto, e la consapevolezza quasi lo schiacciò, che non cercava Kogure per avere accanto qualcuno che pendeva dalle sue labbra: aveva scioccamente creduto di bearsi nelle sensazioni che sembrava in grado di suscitare in Kogure, e invece era lui a cercare di smuovere qualcosa nel compagno, non era più la ricerca di una dopamina illusoria, bensì il tentativo, a volte quasi spasmodico, di lenire la paura e la sofferenza che sapeva essere una costante della brillante mente di Kogure.

“Oh,” si lasciò sfuggire.

“Che c’è?” chiese Kogure, sollevando la testa per guardarlo negli occhi.

Senza esitazione, senza pensare, Mitsui disse: “Ho capito, ora.” Kogure scosse la testa e aggrottò le sopracciglia, una muta richiesta di spiegazioni.

“Ero convinto che tu fossi innamorato di me,” disse, e le mani di Kogure si contrassero nervose nelle sue. Ma Mitsui non lo lasciò andare, “E invece sono io ad amare te.”

“...che?” la voce di Kogure uscì come un pigolio. Le sue guance erano rosse, la sua bocca una delicata “o” di stupore, i suoi occhiali erano come sempre scivolati lungo il naso.

Con un gesto affettuoso che nascondeva una carezza, Mitsui glieli sospinse a posto.

“Non importa se non ricambi,” disse, “Importa solo che io sia capace di farti stare un pochino meglio, anche soltanto per un paio di minuti.”

Kogure ritirò la mano che ancora era stretta a quella di Mitsui, che si sentì morire. Anima ardente un corno, non si sentiva meno piccolo e indifeso di Simba che cerca di cavarsi fuori un ruggito decente al Cimitero degli Elefanti.

Poi, le mani di Kogure si posarono sulle sue ginocchia.

Il suo viso si avvicinò, tanto da diventare sfocato, e Mitsui chiuse gli occhi per combattere le vertigini. Poi, le labbra di Kogure, morbide e umide, così diverse da quelle sottili e screpolate di Mitsui, si posarono lievi sulle sue.

Un tocco delicato, casto, quasi insignificante nella sua piccolezza, che tuttavià ribaltò il mondo intero di Mitsui, catapultandolo in un vortice di sensazioni così intense da fargli pensare che qualcuno l’avesse scaraventato nell’iperspazio, dove lui ora viaggiava alla velocità della luce mentre le stelle e i pianeti gli sfrecciavano accanto.

E, sopra ad ogni cosa, un solo pensiero: “Resterà! Avrò un altro giorno per renderlo felice!”

Mitsui sporse le labbra e catturò di nuovo quelle di Kogure, che si stavano già allontanando, timide, e le trattenne ancora un pochino.

Poi, con uno schiocco lieve che sembrò echeggiare nel vuoto dello spogliatoio, si divisero. Gli occhi castani di Kogure brillavano, ed erano sgranati dallo stupore; Mitsui pensò che probabilmente anche lui non era messo meglio.

“Non sono molto bravo in queste cose,” disse, la voce arrochita dall’emozione, “Ma vorresti stare con me, Kiminobu-kun?” Kogure rispose con un’esplosione di stelle.

Mitsui ricordava di aver sentito parlare, forse proprio da Kogure, di una teoria secondo cui esisterebbe una sorta di opposto dei buchi neri, una conseguenza di essi: buchi bianchi, agglomerati di materia troppo densa per non collassare su se stessa, che ardevano per poche frazioni di secondo mentre esplodevano, spingendo la materia che avevano così alacremente rastrellato agli angoli più distanti dell’universo.

Così sembrò a Mitsui il sorriso di Kogure, un bagliore indescrivibile e accecante, raro e così imprevedibile da essere quasi impossibile da osservare.

Per un istante, si disse che se non avesse mai trovato uno scopo concreto alla propria vita, non se ne sarebbe avuto a male: essere stato capace di far nascere quel sorriso era abbastanza da fargli considerare se stesso un uomo di successo.

“Sì, voglio stare con te, Hisashi-kun,” rispose Kogure, con la voce che vibrava di emozione.

Mitsui sorrise di rimando, e gli sovvenne quel che i teorici sostengono succeda dopo l’esplosione di un buco bianco: la materia, spinta così violentemente, dopo un po’ rallenta, prende a galleggiare pigramente nell’universo, raccogliendo ogni tanto altra materia. Cosa sarebbero diventate, poi, queste particelle che si univano l’una all’altra? Pianeti, stelle, asteroidi, comete… Mitsui prese la mano di Kogure e la baciò, consapevole di una cosa soltanto: qualsiasi cosa fossero diventati, non vedeva l’ora di esserci.

“Adesso puoi cazziarmi se non bevo abbastanza,” disse, per sdrammatizzare.

“Lo faccio già,” ribatté Kogure, poi una risatina isterica lo scosse.

“E io posso farmi perdonare con un bacio,” aggiunse Mitsui, sporgendosi in avanti per pagare pegno; ma Kogure lo fermò: “Prima ti vesti,” disse, “Ti ho già trattenuto abbastanza, se domani hai un’infreddatura sarà colpa mia.” Mitsui si alzò e andò al proprio armadietto, quasi saltellando. Gli pareva che la debolezza di poche ore prima fosse tutta svanita, lasciando al proprio posto un’energia incontenibile. Si infilò alla svelta calze e mutande, poi recuperò un fagotto di stoffa appallottolato che un tempo era stato un paio di pantaloni; se li mise, cogliendo con la coda dell’occhio Kogure che guardava discretamente da un’altra parte, un po’ rosso in viso. Forse stava scendendo a patti con il fatto che, in un futuro indefinito, entrambi avrebbero potuto desiderare di vedere, e forse anche toccare, quelle parti del corpo che Mitsui aveva appena ricoperto; dovette trattenere un sussulto di eccitazione.

Kogure parve percepirlo, o forse si trovò nella stessa situazione, perché quando Mitsui riemerse dalla t-shirt del club di basket Kogure stava fissando intento una spaccatura su una piastrella della parete.

Mitsui lo raggiunse e lo abbracciò da dietro, posandogli le braccia sulle spalle: “Vorrà dire che se domani avrò un’infreddatura, ti farai perdonare facendomi le coccole,” gli sussurrò.

Kogure girò la testa, con un sorriso ancora un po’ incredulo a incurvargli le labbra, e disse: “Sai, più ne parliamo e più le condizioni di questo rapporto mi piacciono.”

“Allora è proprio vero che sono uno stronzo fortunato,” scherzò Mitsui, ondeggiando un po’ e portando con sé nel movimento anche Kogure, che rise e si voltò nella sua stretta.

“Non sei l’unico,” ribatté, alzando il viso per baciarlo, “Non sei l’unico.”

 

“MITSUI! Sei ancora qui, stai bene, ti senti male, non ti ho visto alla fermata e…” Norio si interruppe, e con lui anche Kogure e Mitsui, l’uno tra le braccia dell’altro, colti in fallo.

“Se permetti, io stavo limonando,” disse Mitsui, incerto se farlo nero di botte o semplicemente lanciarsi dalla finestra e darsi alla macchia.

Il silenzio si dilatò, poi Norio sbraitò: “E io che ne potevo sapere? L’ultima volta che ti ho visto sembravi pronto per l’imbalsamazione!”

“Questo non vuol dire che non si usa più bussare, ma guarda te, ha ragione mia madre quando dice che sei un cafone!”

Norio roteò gli occhi e rispose con una boccaccia. Poi, sempre nello stesso tono un po’ burbero, disse: “Forza, muovetevi. Se camminiamo in fretta facciamo in tempo a prendere l’ultimo treno.”

Tenne aperta la porta mentre Kogure e Mitsui recuperavano i borsoni; passandogli davanti, Kogure gli rivolse un timido sorriso, e Norio gli batté una pacca sulla spalla.

A Mitsui, invece, rifilò una manata violenta sulla schiena, che suscitò un’altra ondata di minacce vuote.

E nella luce morente del giorno più bello e faticoso della loro vita, Mitsui e Kogure si incamminarono verso un futuro condiviso, scortati da un improbabile cavalier cortese.





Mitsui dalla regia: "Mi piace quando non mi tratti male!"
Ebbene, raga, dopo aver dichiarato che avevo bisogno di Ruhana mi sono seduta e ho partorito una MitKo. Ma dopotutto l'ha detto Stephen King, uno scrittore è qualcuno che ha insegnato alla propria mente a comportarsi male.
Spero abbiate gradito, battete un colpo per il sì e tenetevi le vostre opinioni per il no, lo so che questa storia è pucciosa e da diabete, stavolta non me la date a bere!
Mitsui dalla regia: "Vinci una gara in palestra e te la meni per un mese..."
Ghost: "DISSE QUELLO CHE SI VANTA DA ANNI DEL TITOLO DI MVP DELLE MEDIE"

 

   
 
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