Chimes at Midnight
Non ero mai stata una persona a cui dispiace aspettare.
È solo una questione di trovarsi qualcosa da fare nel frattempo, mi dicevo sempre, e me lo ripetevo anche in quel momento. Ma l’attesa stava diventando davvero insopportabile.
Forse perché il mio vestito da Carnevale era troppo leggero per le nove di sera di febbraio, forse perché durante la notte a Venezia c’è sempre stata davvero troppa umidità, forse perché ero ferma nello stesso punto da circa venti minuti e Veronica non si vedeva ancora da nessuna parte.
Sospirai e il vapore del mio respiro fluttuò sopra la mia testa, illuminato dallo schermo azzurrino del mio telefono che restava fisso su quella schermata di WhatsApp che segnava solo la doppia spunta grigia del mio ultimo messaggio. Ero consapevole che non sarebbe mai diventata azzurra, ma continuai a osservare lo schermo nella speranza di vedere il suo “sta scrivendo”.
La musica proveniente dal palazzo veneziano sembrava frutto della mia immaginazione, eppure era lì, a pochi passi di distanza, e osservai la porta chiusa illuminata dalla lampada fissata all’arco che la sormontava. Fui tentata per un attimo di mordermi il labbro, ma il pensiero di rovinarmi anche di poco il make-up che avevo preparato per quella serata mi fece desistere.
Era da venti giorni che attendevo quel Giovedì Grasso. In attesa nel mio vestito lungo, chiaro e dal tessuto leggero e morbido, mi sembrava già di essere a pochi passi da una fiaba che mi aspettava all’interno di un favoloso palazzo veneziano appartenente a chissà quale Ca’ famosa di cui mi sfuggiva il nome in quel momento.
Ogni fiaba che si rispetti inizia con una festa, no? Fremevo così tanto per avere una storia tutta mia, per essere la protagonista di una storia, anche se ero consapevole che mi si confaceva più il ruolo di ‘migliore amica di’. Non che ci fosse qualcosa di male, e comunque io ero più che felice di essere amica di Veronica, ma il suo essere protagonista così facilmente, senza apparente sforzo, mi faceva chiedere se sbagliassi qualcosa nel mio modo di comportarmi.
Scossi la testa. Ecco, questo era la cosa peggiore da pensare, e lo sapevo bene – la mia psicologa me l’aveva ripetuto un sacco di volte che non dovevo paragonarmi agli altri. Ma era difficile applicarlo quando ci si sentiva così ‘non abbastanza’, anche se quel ‘non abbastanza’ non trovava risposta quando gli si chiedeva ‘rispetto a cosa?’.
Mi sembrò passata un’eternità e fu quando avevo perso quasi del tutto la speranza che dei passi mi distrassero, facendomi girare alla mia destra, lungo la calle immersa nella penombra, e dal ponte di metallo che collegava le due sponde del canale vidi un’alta figura avvolta da un cappotto e un cappuccio. Le mie mani sudarono quando per un attimo ebbi l’ansia che fosse qualche sconosciuto – cosa perfettamente probabile, dato che già alcune persone erano passate per di là da quando ero arrivata, per poi entrare alla festa, ma dopo pochi passi riconobbi subito Veronica e la tenaglia d’ansia che mi aveva avvolto in quell’ultima mezzora scomparve all’improvviso.
«Vero! Eccoti qui!»
Evitai di fare un commento sul suo ritardo. Non avevo voglia di fare polemica, e poi sapevo che lei si sarebbe limitata a scrollare le spalle e borbottare qualcosa del tipo “io nemmeno ci volevo venire a questa festa”.
«Ehi.»
Le sorrisi entusiasta mentre la osservavo, cercando di scorgere il suo costume, cosa piuttosto difficile considerando che come me era avvolta da un cappotto; riuscivo però a intravedere il suo trucco nella penombra e sentii una piccola fitta di gelosia nell’osservare i suoi stupendi occhi azzurri truccati in un make-up che ricordavano un taglio felino.
«Hai un trucco stupendo!»
Per quanto fossi stata gelosa, cercavo sempre di essere più sincera possibile con i complimenti. Il mio senso di inadeguatezza non era colpa sua, più un mio limite mentale che ignoravo con consumata abilità. E, comunque fosse, era anche il momento di smetterla di considerare gli occhi chiari più belli di quelli nocciola, o almeno questo è quello che mi ripetevo continuamente nella mia testa.
«Grazie.»
Veronica non era mai stata una di troppe parole, lo sapevo bene, ma ci rimasi comunque un po’ male per la sua risposta piuttosto arida.
«Sto morendo di freddo, entriamo subito, ti prego!» anche perché la festa era già iniziata, ma non lo dissi a voce alta «Hai il biglietto, vero?»
La mia amica si limitò a far ondeggiare il telefono di fronte a me – lo stesso che aveva tenuto tutto il tempo in mano ma con il quale comunque non mi aveva risposto. Ignorai quel pensiero che mi era passato rapido per la mente e la precedetti, assicurandomi con una breve occhiata che lei mi stesse seguendo.
La porta era più pesante di quanto pensassi e dopo un attimo di difficoltà sentii Veronica trattenere una risata e spingerla per me.
«E per fortuna dici di andare in palestra.» mi prese in giro.
«Ho meno forza di te perché sono bassa.»
Pronunciai quelle parole come se avessero un completo e ovvio senso logico, ignorando la sua occhiata dubbiosa e mi guardai attorno.
L’atrio di quel palazzo veneziano era spettacolare – non che avessi dubbi, considerando che era una festa a numero limitato e quindi abbastanza esclusiva. Avevo fatto carte false per ottenere questi biglietti, uno per me e uno per Veronica, tra cui promettere gli appunti dell’intero corso di Micro e Macroeconomia a un’idiota che aveva la sola fortuna di essere veneziano di nascita e di avere mille conoscenze che gli assicuravano le feste più esclusive.
Mi guardai intorno, notando il pavimento in mosaico veneziano dai motivi geometrici, sopra il quale si intravedeva l’impronta di qualche scarpa; l’ambiente era illuminato dagli alti faretti fissati alle colonne rivestite di marmo come le pareti. In quel punto la musica giungeva soffusa, attutita dalla distanza.
Prima della scalinata che portava ai piani superiori sostavano due uomini dall’aria piuttosto massiccia, uno seduto di fronte a un tavolo e l’altro in corrispondenza del primo scalino.
«Buonasera!» trillai entusiasta, ma evidentemente loro erano già stanchi di ciò che gli si prospettava davanti perché si limitarono a un distaccato ‘buonasera, biglietti?’. Di fianco a me, Veronica sembrava stanca quanto loro e in qualche modo mi sentii in colpa per averla trascinata fin là.
«Veronica e…» disse l’uomo seduto al tavolo, cercando di leggere meglio il nome sul biglietto digitale. Mi accorsi che il mio schermo si era spento nel frattempo e lo riaccesi subito.
«Iris.» lo anticipai con un sorriso. Lui guardò lo schermo del tablet di fronte a sé e annuì.
«Bene. Allora, il guardaroba è al primo piano, costa sette euro a persona. Se dovete fumare ci sono le apposite zone. Non fumate nei bagni, non assumete droghe dentro il palazzo, se fate casino sarete accompagnate all’uscita e fine della festa, va bene?»
Mi limitai ad annuire e ad assumere un’espressione che mi facesse sembrare la persona più innocente del mondo.
Ci fecero passare appena dopo aver dato un’occhiata al contenuto delle borse e superato l’omone mi misi quasi a correre su per le scale di marmo, i tacchi bassi che si percepivano a stento mentre la musica aumentava in concomitanza con gli scalini.
«Sette euro per un guardaroba? Sono dei ladri.»
Feci un mezzo sorriso al commento di Veronica.
«In effetti… Ma almeno è un free drink.»
«Sì, beh, con quello che costa il biglietto ci mancherebbe solo che ci facessero pagare anche quelli.» borbottò ancora.
Non le davo tutti i torti, non era stato particolarmente economico. Ma era da un’eternità che sognavo un evento del genere, e non appena avevo saputo chi ci sarebbe stato… Insomma, perdere quella festa non la consideravo un’opzione valida, e sono sempre stata una piuttosto ostinata quando voleva.
Arrivate al primo piano, la musica si era già fatta abbastanza intensa, ma non abbastanza da impedirci di sentire i discorsi delle persone vicino a noi. Dei cartelli indicavano una sala per il guardaroba e anticipai Veronica che, come sempre, si limitò a seguirmi. C’erano due file distinte da dei cordoni rossi e mi fermai di fronte ad esse, cercando di capire in quale ci fosse il minor tempo di attesa, ma finii per sceglierne una a caso dato che, per fortuna, non sembrava esserci da aspettare in nessuna delle due.
«Oddio, non vedo l’ora di entrare!» mi lasciai sfuggire entusiasta e mi voltai verso Veronica con un sorriso. Era ancora più alta del solito grazie ai tacchi.
«A chi lo dici.»
Feci una smorfia.
«Dai, Vero! Ti divertirai anche tu, fidati di me!»
«In mezzo a ventenni ubriachi impegnati a limonare in ogni singolo divanetto disponibile? Di sicuro.» la palese ironia stonava con il suo volto, ancora impassibile.
Sbuffai.
Iniziavo a sentire davvero caldo avvolta com’ero nel mio cappotto, ma mi sentii improvvisamente in imbarazzo a togliermelo e a mostrare il mio abito.
Non mi vergognavo, assolutamente. Avevo solo paura che sembrasse… Troppo? Troppo poco? Non lo sapevo nemmeno io.
Mi guardai attorno, e le ragazze di fronte a me erano già senza giacca, ridenti e all’apparenza appena un po’ brille – cosa che invidiavo, dato che uno spritz sarebbe stato perfetto per eliminare quel senso di inadeguatezza. Erano tutte bellissime e tremendamente sexy e improvvisamente l’idea che il mio vestito fosse troppo poco audace mi investì in pieno.
E se magari pensasse che-
«Qua dentro c’è da morire di caldo.»
Mi voltai verso Veronica e la vidi fare una smorfia di fastidio prima di iniziare a levarsi sciarpa, cappuccio e cappotto uno strato dopo l’altro. Fu inevitabile perdermi a osservare com’era vestita.
Indossava un miniabito nero, che si apriva dalla vita in giù in una gonna opaca che terminava un po’ più sopra il ginocchio, mentre le maniche rivestite in pizzo facevano intravedere la pelle abbronzata; in vita e sul seno era stretta da un corpetto lucido di pelle con mille lacci, che le stringeva il decolté mettendolo ben in mostra senza sembrare volgare. Gli stivali che superavano il ginocchio compensavano le gambe nude. Insieme al make-up nero che enfatizzava ancora di più i suoi occhi azzurri e gli accessori argento che davano luminosità al tutto, era innegabilmente meravigliosa. E anche molto seducente.
«Stai da Dio.» mi sfuggì mentre spalancavo gli occhi «Sei vestita da…» mi interruppi, un attimo dubbiosa, ma i simboli dei suoi gioielli mi diedero un piccolo suggerimento «Strega?»
Non ero molto sicura, avevo più tirato a indovinare che altro.
«Non sono vestita da niente. Non avevo voglia di comprare nuovi vestiti per stasera e ho riadattato cose che avevo a casa.» lo disse mentre con una mano si sistemava distratta il caschetto nero.
Ecco cosa intendevo dire quando parlavo di ‘essere protagonista senza sforzo’. Conoscendola, probabilmente aveva preso le prime cose nell’armadio, eppure era riuscita a risultare meravigliosa e adatta senza troppo impegno.
Le mancava solo una cosa.
«Sapevo che te la saresti dimenticata, per fortuna ci ho pensato io!»
Lei mi guardò confusa mentre io trafficavo nella mia borsetta alla ricerca di…
«Una maschera? Non pensavo fosse obbligatoria.» commentò Veronica.
«Non lo è, ma che festa in maschera è senza averne una?»
Le avevo ordinate su internet qualche giorno prima, una nera per Veronica (anche senza sapere il suo costume non avevo avuto molti dubbi) e una bianca per me. Peccato che ci fosse stato un problema con l’ordine e ne fosse arrivata una nera e una rosso scuro – bordeaux, sarebbe più corretto dire.
Fissai sconsolata la seconda, che perlomeno non era completamente inadatta al mio outfit.
«Non hai caldo? Potresti toglierti il cappotto anche tu, fra poco tocca a noi.»
Mi voltai e, in effetti, di fronte a noi c’era solo quel gruppo di ragazze bellissime.
«Sì, hai ragione.» balbettai appena e dopo qualche momento di confusione, in cui Veronica finì per prendermi dalle mani borsa, maschere e telefono per darmi una mano, riuscii anche io a levarmi il cappotto. Sentii subito un brivido lungo la schiena per la differenza di temperatura, ma mi abituai in fretta.
Guardai in basso, verso la parte inferiore del vestito, di un delicato rosa pallido e composta da una sottoveste più corta e uno strato più leggero, che sfiorava appena il pavimento e a ogni movimento rivelava dei piccoli fiori ricamati lungo tutto il tratto della gonna. Sulla vita era stretta da una cintura in tessuto della stessa tonalità di rosa chiaro, legata con un fiocco sul lato sinistro, e il corpetto risaliva riprendendo in maniera più fitta i ricami della gonna in una decorazione floreale dai colori pastello. La scollatura era piuttosto accentuata e terminava in una V lungo i seni, l’unico elemento marcatamente sensuale del vestito, mentre le maniche a sbuffo si distaccavano dal tessuto del corpetto per continuare in uno strato quasi trasparente fino ai polsi.
Poteva sembrare un vestito da fata dei fiori qualunque, se non per un elemento ben preciso che mi ero assicurata fosse ricorrente: un melograno ricamato per tutto il corpetto, ben visibile tra i fiori, una collana dorata con tante piccole pietre che ricordavano dei chicchi di melograno (che avevo finito per trovare per pura fortuna in un negozietto di Murano), e per terminare una spilla con il medesimo frutto che spuntava ben visibile nei miei capelli raccolti, appena mossi e castano chiaro.
«Bel vestito.» commentò Veronica «Sei…» si interruppe, per potermi dare un’occhiata più attenta.
La guardai con un sorrisone.
«Una ninfa?» terminò dubbiosa.
Il mio sorriso si spense immediatamente.
«Ma no! Dai, guarda, ci sono i melograni, è palese che-»
«Ragazze, tocca a voi!»
La voce spazientita di una donna mi interruppe e mi voltai di scatto, quasi spaventata.
«Sì, sì.» mugugnò Veronica, e si avvicinò al bancone.
Rimasi in silenzio mentre ascoltavo con un solo orecchio la donna che ci spiegava di non perdere assolutamente il biglietto con scritto il numero di riferimento dei nostri cappotti – “Se non lo avete, considerate pure le vostre cose perse, avete capito?” – piuttosto mi concentrai sul mio vestito di cui, in quel momento, non ero più sicura.
«Dio, quanto si lamentava quella.» borbottava Veronica mentre, per la prima volta, mi precedeva lungo le scale al secondo piano.
Non dissi nulla, osservando la sua figura che con sicurezza saliva i gradini, le luci che si abbassavano sempre di più al contrario della musica, che si faceva sempre più alta e nascondeva del tutto il ticchettio delle nostre scarpe. Il vociare giunse appena dopo e un attimo prima di iniziare a vedere sempre più persone che affollavano il luogo.
Il secondo piano era da un atrio che si apriva immediatamente su una sala enorme, caratterizzata da faretti alti, luci soffuse di diversi colori e penombra. C’erano ampie finestre, tutte che riflettevano le sagome mascherate delle persone all’interno e le luci multicolori che roteavano creando un caleidoscopio sul soffitto ampio, fatto di travi a vista che poco si intravedevano nell’oscurità. C’era odore di alcol zuccherato e un miscuglio di profumi di diverso genere che mi tolsero dal torpore di inadeguatezza che mi stava perseguitando.
«Vero, tieni!» dovetti alzare la voce per farmi sentire, e dopo aver dato la maschera nera alla mia amica mi occupai di indossare la mia – il fatto che nascondesse il make-up luminoso che avevo accuratamente preparato mi intristì un po’, l’obiettivo iniziale infatti era avere una maschera bianca che illuminasse l’outfit.
«Ho bisogno di un drink.» sentii la mia amica pronunciare quelle parole e quasi sorrisi isterica.
«Anche io, decisamente.»
«Dove diavolo è il bar in questo posto?»
La osservai guardarsi intorno, mentre io nemmeno tentai di trovare il bancone – l’essere alta solo 1.63 in una folla del genere era un po’ inutile, invece Veronica dalla sua parte aveva dei tacchi oltre al suo metro e settanta e qualcosa. Piuttosto mi fissai sulle persone, alla ricerca di qualcuno che conoscessi.
Sarà già arrivato? E chi lo trova più in questa folla.
«Ecco!»
Veronica mi afferrò per la manica e si fece strada tra la folla di gente, tra persone che si muovevano a ritmo di musica e altre che chiacchieravano a voce altissima pur di farsi sentire. Non dovetti spintonare qualcuno per passare, per fortuna, e guardandomi intorno riuscii ad intuire che la zona in cui si ballava era più avanti, vicina al dj set. Riuscii a notare anche altre porte che conducevano ad altre stanze, ma non feci in tempo a guardarmi ulteriormente intorno perché arrivammo di fronte al bancone.
Era già umido di condensa e feci attenzione a non poggiarmi mentre fissavo gli abili bartender che si prodigavano in alcune acrobazie nella preparazione dei drink. Mi persi a fissare un giovane moro che faceva roteare la bottiglia con consumata abilità, già arresa a dover aspettare un po’ prima di ricevere un minimo di attenzione – non avevo considerato la carta ‘Veronica’.
«Ragazze, cosa volete?»
Il barman di fronte a me aveva una dentatura perfetta che spiccava nella pelle nera e il suo sorriso affascinante era tutto riservato a Veronica.
«Un gin tonic.» affermò lapidaria.
«Uno spritz campari.»
Meglio andarci cauti, pensai mentre sorridevo al bartender. Il mio obiettivo era sì essere un po’ brilla, ma mi conoscevo da ubriaca: spesso e volentieri perdevo completamente il controllo, e la serata era ancora lunga. Veronica invece aveva la fortuna di essere completamente ubriaca ed ingannare chiunque – me lo aveva rivelato lei una serata, quando all’ennesimo amaro l’avevo supplicata per sapere il suo segreto.
«Bene, e ora?» mi chiese Veronica dopo aver preso un bel sorso dal suo drink.
Io mi guardai intorno.
A essere completamente onesta, il mio obiettivo per quella serata era trovare qualcuno. Quel qualcuno non era una persona a caso, ovviamente, ma un mio compagno di corso – l’unico ragazzo appartenente alla facoltà di Economia e Management che non si vestiva come un tizio di Wall Street, probabilmente, e le cui uniche conversazioni fino a quel momento si erano limitate a commenti su prof, appunti e aule introvabili.
In poche parole, il mio obiettivo era trovare Giacomo, il ragazzo per cui mi ero presa una cotta negli ultimi due mesi.
Ovviamente Veronica non ne aveva idea, perché se avesse saputo che volevo andare a quella festa solo per un ragazzo mi avrebbe volentieri defenestrata – riteneva che l’unica cosa che valesse la pena inseguire fosse un buon parrucchiere, dato che era difficile trovarne uno. Un ragazzo? Assolutamente no. Se per piacere a qualcuno avesse dovuto inseguirlo allora sarebbe rimasta volentieri sola, diceva sempre. Rimaneva realmente sola? Certo che no, quelle come lei non si dovevano nemmeno impegnare e la cosa più assurda era che i ragazzi sembravano felici di essere trattati così.
Io, in compenso, ero quella che si potrebbe facilmente identificare come una sottona.
«Andiamo un po’ a ballare? La musica non è male.» accennai un sorriso incoraggiante e lei, dopo un altro sorso di gin tonic, annuì arrendevole.
Il tragitto verso la pista da ballo fu particolarmente ostico per me: la scelta di un abito lungo non era stata particolarmente intelligente, dato che chiunque camminava senza guardare dove metteva i piedi, e dovetti fare tutto il tragitto sollevandomi il vestito. La maggior parte delle ragazze intorno a me aveva, molto più saggiamente a quanto pareva, indossato miniabiti, gonne o pantaloni di diversa lunghezza in un insieme di outfit che mi ricordava più Halloween che Carnevale.
Dovetti trangugiare quasi tutto lo spritz prima di riuscire a muovermi senza sentirmi ridicola, mentre Veronica di fronte a me già si era lasciata andare al ritmo, gli occhi chiusi e un’aurea da dea che la circondava. Io, del canto mio, mi sentivo rigida a causa dell’imbarazzo, ma dopo essermi ripetuta più volte che nessuno mi stava guardando riuscii a lasciarmi andare, muovendo i fianchi e perdendomi nelle luci colorate che illuminavano le pareti in un connubio tra antico e moderno strano ma piacevole agli occhi.
Il mio reale obiettivo era però sempre lì, fisso nella mia mente, e non perdevo occasione di guardarmi attorno.
Passavano veloci i minuti, ma in quel marasma di persone che aumentava sempre di più era difficile individuare chiunque. Ogni persona aveva qualche caratteristica che mi faceva voltare di scatto, convinta di averlo trovato: prima era qualcuno alto come lui, poi qualcuno con gli stessi capelli neri, poi ancora un altro con il suo stesso sorriso.
«Cerchi qualcuno?»
Sobbalzai alla domanda improvvisa di Veronica.
«No!» mi sfuggii veloce «Pensavo solo di voler un altro spritz.»
«Io ho appena finito il mio gin tonic, andiamo?»
Non aspettò il mio assenso, come prima mi prese per la manica e mi trascinò verso il bancone. Questa volta c’era più gente in fila e dovemmo aspettare qualche minuto – minuti nel quale io mi persi di nuovo a osservare la folla, notando come ci fosse una migliore visuale da quella posizione.
«Un altro spritz?» la voce di Veronica mi richiamò all’attenzione.
«Sì, grazie.» risposi distratta.
Mi arrivò il bicchiere tra le mani prima che potessi realmente rendermene conto e forse fu l’ansia di non trovare Giacomo, o forse fu perché ero a stomaco vuoto e il primo spritz lo sentivo già nella testa, ma terminai il secondo dopo pochi sorsi.
«Un altro.» mi girai verso Veronica che, in silenzio, mi osservava di sottecchi.
«Tutto bene?»
Trattenni una smorfia.
«Sì, tutto alla grande.» mi limitai a dire, sforzando un sorriso.
Possibile che non sia venuto?
Mi costrinsi a fare un respiro profondo mentre Veronica riusciva a fare un cenno al barista per chiedere il terzo spritz. Non aveva senso farmi prendere dalla preoccupazione, considerando che era passata solo – diedi una rapida occhiata al telefono – circa un’ora. Erano solo le dieci e mezza e, in effetti, poteva essere arrivato in ritardo. O poteva essere già lì e io non me n’ero semplicemente accorta.
Il punto era che per me era fondamentale trovarlo lì, perché sapevo che sarebbe stata la mia unica possibilità di intavolare una conversazione più casuale che non coinvolgesse l’università – e forse lui mi avrebbe notata.
«Ehi ragazze.»
La voce di un giovane catturò la nostra attenzione e fu inevitabile sperare che fosse Giacomo.
Non ero così fortunata, ovviamente.
«Ci conosciamo?»
Veronica gli lanciò un’occhiata indifferente e il ragazzo – alto, mascherato da pirata e piuttosto affascinante – sembrò deliziato.
«No, ma ti ho vista e mi sono chiesto se fossi una ladra. Perché hai rubato il mio cuore.»
Fu difficile trattenere la risata e quasi mi strozzai con lo spritz. La mia amica, d’altro canto, lo guardò senza proferire parola per un paio di secondi.
« Iris, andiamo.»
E per la terza volta nella serata, sentii Veronica afferrarmi per la manica e trascinarmi via. Tossii un paio di volte per riprendermi.
«Non era male.» ironizzai tra un sorso e l’altro.
La vidi alzare gli occhi al cielo.
«Sì, se ti piace lo stile anni ’90 e le pick-up line squallide.»
Scoppiai a ridere, quella volta apertamente.
«Non sentivo una frase del genere da quando ancora usavo Facebook.» dissi tra una risata e l’altra, le lacrime agli occhi mentre ripensavo alla scena a cui avevo appena assistito.
«Dio, ho bisogno di una sigaretta.» gemette Veronica, per poi guardarsi attorno «Dove cavolo si può fumare qui dentro?»
Mi guardai intorno proprio mentre un’idea geniale mi sfrecciava nella mente.
Giacomo fuma! Ecco dove potrei trovarlo!
L’ansia che mi stava accompagnando fino a quel momento scomparve come un palloncino ad elio nel cielo. Sorrisi luminosa.
«La sala fumatori, è vero!» mi sfuggì entusiasta, e prima di lasciare il tempo a Veronica di dire alcunché mi lanciai tra la folla, dirigendomi verso la porta che avevo vista in precedenza.
«Aspetta, Iris!»
Veronica mi afferrò la mano appena prima di perdermi tra le persone, mentre io spintonavo qualcuno che iniziava a essere un po’ troppo brillo per rendersi conto di ciò che lo circondava.
Capii ben presto però che non avevo la minima idea di dove stessi andando, e mi ritrovai in un’altra sala, un po’ più piccola della precedente ma nella quale potevo intravedere la presenza di alcuni balconi. Fu Veronica a prendere in mano la situazione, afferrando per la spalla la prima persona che vide e chiedendole della sala fumatori.
«Si può uscire in quei balconi.» fu la risposta sbiascicata di un ragazzo vestito da… Non riuscivo a capire da cosa fosse vestito.
Veronica fuggì prima ancora che il ragazzo potesse dire un’altra parola, o almeno così sembrava intenzionato a fare.
Eravamo a poca distanza dai balconi, potevo già scorgere in lontananza la sagoma del vetro e il riflesso che impediva di vedere l’esterno, e lo notai immediatamente.
Riconobbi subito la folta chioma riccia e scura di Giacomo, il suo sorriso che si apriva in una risata mentre apriva la portafinestra dello stesso balcone in cui eravamo dirette anche io e Veronica, la mano ricoperta in un guanto che reggeva la porta per far passare il suo amico e poi seguirlo.
Lo raggiungemmo prima di quanto mi aspettassi grazie a Veronica che faceva spostare chiunque nel nostro cammino.
Vorrei poter dire che la prima cosa a cui pensai fu la straordinaria bellezza di Giacomo mentre con un gesto abitudinario si accendeva una sigaretta, ma in realtà fu semplicemente ‘Cazzo, che freddo’ – quel vestitino era davvero troppo leggero per la temperatura esterna, e di sicuro non ero la solita a pensarlo dato che la maggior parte dei pochi coraggiosi lì fuori cercava di non tremare in maniera troppo vistosa.
Veronica non era tra quelle, e una volta fuori si chinò appena per tirare fuori dal bordo dello stivale il pacchetto di sigarette e un vecchio accendino. Inarcai un sopracciglio senza volerlo a quella scena, senza parole, ma lei sembrava così abituata che non ebbi davvero la forza di dirle niente. In compenso, si trovò piuttosto in difficoltà nel momento in cui si accorse che l’accendino non aveva alcuna intenzione di collaborare.
«Merda.» mugugnò. Notai subito il suo sguardo che si perdeva tra le persone, alla ricerca di qualcuno a cui chiedere l’accendino in prestito – qualcuno di inoffensivo, conoscendola, magari una ragazza – ma quell’occasione era troppo perfetta per farla sfuggire via così.
La fortuna è dalla mia parte, pensai vittoriosa mentre, trattenendo i violenti brividi che mi scuotevano, le sfioravo il gomito.
«Ehi, c’è un mio compagno di corso lì. Ti va se ci avviciniamo a salutarlo? Ha anche un accendino.»
Tentai di sembrare più innocente possibile e in quel caso ringraziai il totale disinteresse di Veronica per la mia vita sentimentale – e quella di qualsiasi altra persona – che non le fece accorgere di nulla.
«Chi?»
«Il ragazzo moro e riccio, lo vedi? Che parla con quel tipo con la maglia rossa.»
Veronica lo individuò dopo un paio di secondi di confusione.
«Oh, beh, ok.» rispose scrollando le spalle.
Fu sufficiente. Mi stampai in faccia il sorriso più tranquillo e al contempo affascinante che sapessi fare e, dopo aver raddrizzato le spalle, mi incamminai verso Giacomo.
Mi notò quasi subito.
«…Iris?»
Dovevo ammettere che se il suo obiettivo era quello di non sembrare sorpreso, fallì terribilmente perché la sua espressione era quasi esilarante dallo stupore.
«Giacomo, ciao!» sapevo che dovevo sorridere meno, che avrei dovuto sembrare più composta, più disinteressata, ma non riuscivo proprio a trattenere l’euforia di quel momento.
«Che ci fai qui?»
Non ero sicura se dovessi sentirmi offesa per quella domanda o meno, ma sentii le guance andare a fuoco mentre abbassavo per un istante gli occhi in imbarazzo.
«Ho comprato i biglietti per la festa, come tutti gli altri immagino.» scherzai, ma l’imbarazzo non voleva abbandonarmi e mentre con le mani improvvisamente sudate mi lisciavo la gonna del vestito mi sentii sfiorare da Veronica, in silenzio dietro di me.
«Hai un accendino per la mia amica?» feci la domanda di getto, indicando con un cenno Veronica il cui viso abbronzato non sembrava turbato dall’aria gelida.
Solo in quel momento si rese conto che non ero da sola e sollevò lo sguardo verso Veronica.
Quello che successe era stato il timore che mi aveva accompagnato dallo stesso istante in cui avevo comprato quei biglietti – ci avevo sperato fino all’ultimo che non accadesse, ma una parte di me sapeva già che sarebbe stata una partita persa in partenza.
Perché conoscevo fin troppo bene quelli come Giacomo: affascinanti senza sforzo, sicuri di sé e con quel modo di fare un po’ stronzo che trovavano la loro controparte in quelle come Veronica. Li si vede sempre nei film, nelle serie tv, ma anche nella vita reale: inseguono sempre quella ragazza che non ci prova nemmeno a conquistarli, punti nell’orgoglio di quella sconfitta e decisi a fare il possibile per farle cambiare idea.
Le sorrise – quel sorriso che gli avevo visto solo un paio di altre volte, non in mia direzione, e lo capii subito.
«Oh, ciao. Io sono Giacomo, tu sei…?»
Le porse la mano con naturalezza e in quel momento capitò la cosa che meno mi aspettavo.
Veronica lo fissò da sotto le ciglia scure, indecisa solo per un istante prima di aprirsi in un sorriso accennato e ricambiare la stretta.
«Veronica.» disse solo.
Un lieve colpo di tosse mi fece voltare verso l’altro ragazzo, quello con la maglia rossa.
«Io sono Nicola, piacere.»
Veronica strinse la mano dell’altro ragazzo con più freddezza prima che il giovane la porgesse verso di me. Mi sforzai di sorridere.
«Sei una nostra compagna di corso? Non ti ho mai vista a lezione.» continuò Giacomo mentre tirava fuori l’accendino dalla tasca. Se non fossi stata già completamente infreddolita, il sangue mi si sarebbe gelato al notare come le si avvicinasse per accenderle la sigaretta già sulle labbra tinte di una cupa tonalità di viola.
«No.»
«Emh, io e Veronica ci siamo conosciute in biblioteca, lei studia lingue orientali.» mi inserii nel discorso e Giacomo si voltò per un secondo verso di me prima di dedicare la sua attenzione di nuovo alla mia amica.
«Oh, lingue. E quali, se posso sapere?»
Veronica tirò un lungo e lento tiro alla sigaretta, per poi fissare la nube di fumo che si sollevò dalle sue labbra prima di rispondere.
«Cinese e thailandese.» disse solo.
Avrei dovuto dirglielo, pensai solo.
Avrei dovuto dirle di Giacomo, di come mi piaceva, pensavo in un unico e ininterrotto pensiero mentre osservavo la scena paralizzata, il battito che seguiva il ritmo folle della musica proveniente dall’interno. Faceva freddo, eppure all’improvviso non avevo mai sentito così caldo.
In quell’istante di disperazione che mi stava cogliendo nel rendermi conto che il ragazzo che mi piaceva ci stava provando con la mia amica, mi ero completamente dimenticata del mio vestito e di come esso strisciasse per terra, lungo il pavimento marmoreo del balcone. Una mia disattenzione, chiaramente – mi ero improvvisamente dimenticata delle persone attorno a me, la maggior parte probabilmente brille, e come nessuna di loro fosse incline a guardare dove metteva i piedi. Del tutto immersa e spettatrice di quella scena che si svolgeva di fronte ai miei occhi, il mio cervello recepì in ritardo il rumore dello strappo del vestito, ma percepii chiaramente qualcosa che mi tirava, sbilanciandomi all’indietro mentre istintivamente afferravo il braccio di Veronica per non cadere.
Veronica si girò appena in tempo per vedere una ragazza dietro di me che, impegnata in una risata che sapeva di alcol, si rendeva conto in ritardo di cosa aveva calpestato. Si girò verso di me proprio mentre io mi voltavo, la sorda consapevolezza di ciò che era successo gelida quanto la temperatura esterna, e nessuna delle due previde la seconda cosa che stava per succede: il suo bicchiere colmo di qualcosa che, a causa della penombra, non riuscii a riconoscere, scontrò contro il mio braccio e lei perse la presa. Più precisamente, tutto il suo contenuto volò sull’intero corsetto del mio vestito.
Sentii improvvisamente qualcosa di freddo e umido addosso, oltre l’odore intenso del vino rosso che si mischiava a quello più frizzante dello spritz che, nonostante fosse stato tenuto saldamente dalla mia mano destra, a causa del mancato equilibrio era schizzato sulla manica e sul bordo del mio vestito.
Per un paio di secondi non sentii né la musica né le voci intorno a me – come se qualcuno avesse spento la radio, rimaneva solo un leggero fischio nelle orecchie.
Riuscivo a pensare a solo una cosa.
Il mio vestito è rovinato.
«Iris!»
La voce di Veronica mi risvegliò dal momento di stasi in cui ero caduta.
«Ti sei fatta male?»
«Oddio! Mi dispiace tantissimo, stai bene?»
Da una parte la voce di Veronica, gli occhi azzurri spalancati in preoccupazione, dall’altra la ragazza del vino che si portava alla bocca una mano guantata, lo sguardo colmo di imbarazzo.
Sbattei gli occhi un paio di volte, non riuscendo a parlare – sto bene? Sì, beh, non mi sono fatta male – e solo dopo essermi resa conto che intorno a me diverse persone si erano perse a fissare la scena riuscii a scuotermi.
«Io…» tacqui un attimo e sentii immediatamente le lacrime agli occhi.
Fu con un’incredibile forza di volontà e freddezza che mi costrinsi a ridere.
«Oddio, che paura!» dissi tra le risate – forzate, ma mentre la gola mi doleva dallo sforzo di trattenermi pregai che non si notasse «Sto benissimo, ragazze, non preoccupatevi!» lo dissi mentre afferravo il fazzoletto che mi porgeva una terza ragazza e mi asciugai lei mani.
Erano terribilmente appiccicose.
«È solo un po’ di vino, che sarà mai.» mi interruppi appena in tempo per evitare che il nodo alla gola si sentisse. Deglutii e sollevai lo sguardo verso Veronica – pessima idea, dato che un velo di lacrime mi appannò la vista quasi istantaneamente. Sbattei le palpebre, furiosa, cercando di farle sparire, e mi sforzai in un altro sorriso in direzione di Giacomo che mi osservava con la bocca semiaperta.
«Tanto è buio, nemmeno si vede.» continuavo a blaterare senza sentire realmente ciò che dicevo, sorridendo a destra e a manca per tranquillizzare le persone intorno a me.
E invece si vedeva eccome. Il rosso emergeva come una macchia fin troppo riconoscibile sul corpetto chiaro e abbassando lo sguardo notai che continuava a colare sullo strato trasparente della gonna, che aveva il lato sinistro squarciato dallo strappo.
Notando quello una lacrima sfuggì al mio controllo, ma fui fortunata perché rimase intrappolata nella trama della maschera che celava in parte la mia espressione.
«Iris…» per l’ennesima volta, la voce di Veronica mi richiamò.
Feci un profondo respiro prima di voltarmi in sua direzione. Gli occhi azzurri erano corrucciati in un velo di preoccupazione, ma oltre questo sembrava confusa, incerta su come comportarsi.
Forse non era la scelta migliore, ma mi venne automatico levarle il peso di quell’incertezza.
«Sta tranquilla, non è successo nulla.» ripetendolo, forse me lo sarei messa in testa anche io «Faccio giusto un salto in bagno a lavarmi le mani – anzi, forse riesco a nascondere un po’ la macchia, ma comunque non si nota chissà quanto.» blateravo e gesticolavo contemporaneamente, un mezzo sorriso sul volto che sentivo arrossarsi dal disagio.
«Vengo con te.»
«No.» mi uscì più categorico di quanto volessi e mi morsi un labbro notando la sua occhiata confusa. Mi schiarii la gola.
Feci un profondo respiro e sorrisi a lei, a Giacomo e anche a Nicola, la cui sigaretta era appesa al labbro fumandosi da sola.
«No, tranquilla, vado da sola.» continuai a dire mentre gesticolavo in direzione dell’interno «Poi, di sicuro ci sarà una marea di gente in bagno e so che non ti piace fare la fila, mi occupo io di questo e ci becchiamo fra dieci minuti.»
Riuscii ad aspettare solo il suo cenno incerto prima di scappare dentro tra la folla, lo sguardo tenuto basso per non incrociare quello di nessun altro e ondate di calore che mi attanagliavano le guance e il collo e il petto. Sollevavo il vestito meccanicamente mentre in un angolo della mia testa pensavo a quanto ormai fosse inutile, e continuai a camminare tra la gente, ricevendo qualche spintone di tanto in tanto.
Alzai lo sguardo solo una volta arrivata vicino alla scalinata e mi guardai intorno, confusa su dove dovessi andare. Le scale che conducevano al piano superiore attirarono il mio sguardo e prima ancora che potessi valutare la cosa – era permesso salire o no? – mi precipitai su, lasciando che la musica si affievolisse dietro di me insieme al vociare delle persone che ballavano e bevevano.
Avevo il fiatone una volta arrivata al terzo piano e mi guardai attorno, notando qualche coppia che si baciava e altri pochi gruppetti che parlottavano tra di loro. Mi inoltrai tra le stanze, la maggior parte di esse tenute al buio e illuminate appena dalla luce che proveniva da fuori, mentre in sottofondo qualche risatina e lo schiocco di un bacio mi ricordava che non ero sola.
Fu quasi per caso che incrociai un cartello con su scritto ‘toilette’ e una freccia sottostante che mi indicava la sinistra.
Se avessi pensato di trovare parecchia gente mi sarei sbagliata, perché in quella penombra non c’era nessuno – probabilmente c’erano degli altri bagni al piano di sotto, molto più affollati, notò una piccola parte della mia mente.
C’erano due porte, una di fronte all’altra, e prima che potessi capire in quale dovessi entrare quella a sinistra si spalancò e ne uscì una ragazza. Si fermò interdetta, quasi stupita di vedermi lì, e notai immediatamente gli occhi lucidi che risaltavano nel trucco verde-acqua che ricordava delle squame di pesce. Ma durò solo un secondo: abbassò lo sguardo in imbarazzo e mi superò in un fruscio del vestito dello stesso colore del trucco e mi persi a osservarla mentre si perdeva in direzione delle scale.
Non sono l’unica che si passa una brutta serata, pensai laconica.
Mi limitai a sospirare ed entrai dalla stessa porta in cui era uscita la ragazza.
Il bagno era straordinariamente pulito e non molto illuminato, ma i miei occhi abituati all’oscurità precedente individuarono subito i due lavelli, gli specchi sopra ciascuno di essi, e i tre bagni dalla porta chiusa.
Il silenzio sarebbe stato assoluto se la musica del piano di sotto non fosse giunta fino a lì e ringraziai di essere da sola.
Almeno potevo piangere.
Mi tolsi la maschera e con passi lenti mi trascinai di fronte a uno dei due specchi.
Il riflesso mi restituì la mia immagine che ormai era molto diversa da quella che avevo visto qualche ora prima, quando ancora ero a casa e mi rimiravo allo specchio alla ricerca di imperfezioni.
Ormai di imperfezioni, in quel momento, ce n’erano anche troppe.
Sul corpetto si estendeva una vistosa macchia rossastra, mentre alcuni schizzi tinteggiavano le maniche, e su una di esse si notava il rosso del Campari che avevo fatto ondeggiare poco prima e che avevo abbandonato in mano a Veronica. Con quella luce impietosa lo strappo del vestito era ancora più vistoso e la gonna cascava da un lato senza forma, segnata anch’essa da rivoli di vino che avevano raggiungo ormai il livello delle ginocchia.
Sembrava la pallida e ridicola imitazione di una macchia di sangue e quella volta, finalmente da sola, non riuscii a trattenere le lacrime che iniziarono a scivolarmi lungo le guance, arrossandole e creando delle scie nere dove il mascara non reggeva.
Ero orribile.
Ero orribile e Giacomo mi aveva visto in quelle condizioni.
Ero orribile e il ragazzo che mi piaceva ci stava provando con la mia amica.
Ero orribile e non potevo farci assolutamente nulla.
Non era nemmeno mezzanotte e la mia fiaba era già finita – sì, era un po’ ridicolo definire quella serata ‘una fiaba’, ma avevo bisogno di essere drammatica in quel momento e mentre singhiozzavo rendendomi conto che, per quanto mi sforzassi, non riuscivo proprio a essere la protagonista di nessuna storia, non mi resi proprio conto della porta di uno dei bagni che si apriva, né tantomeno della persona che uscì da essa.
«Ne hai ancora per molto?»
Se ne avessi avuto le forze avrei strillato, ma in quelle condizioni la prima reazione spontanea fu quella di voltarmi spaventata verso colui che aveva parlato.
Mi ricorderò per sempre la sua espressione annoiata, la sigaretta che si rigirava distratto tra le dita, gli occhi rossi che scivolavano sul mio vestito, stringendosi al notare le condizioni in cui versava.
Poi però mi guardò dritto negli occhi.
«Sai, questo è il bagno dei ragazzi.»
Solo a posteriori considerai che, in effetti, non tutte le storie sono delle fiabe.