La Tua Musa Inquietante
"E se gli Alberghi appena costruiti
Ricoprono i tramonti
Tu non preoccuparti"
Vasco Brondi.
Mai avrei pensato di scrivere di lei.
E dopo non
mi resta che il corpo. Che ho imbrattato
mentre accennavo un sorriso con le labbra. La sigaretta. La mano sulla
gamba. Hai
presente la sensazione di smarrire il centro. L’orrore del
trapasso. Il dolore
di fluttuare nella materia inconsistente del ricordo. Hai presente cosa
vuol
dire morire ogni giorno e non avere pace. E quando dopo ti si chiudono
gli
occhi ma non riesci a crollare. Hai presente il risveglio dalle sbornie
e lui
che ti dice scopiamo e forse pensa a un’altra. Mi piaceva
quel silenzio. Una sigaretta.
Un trip. Mille luci e rulli di tamburi. Entra in scena la tragedia
settimanale.
Ed io che sono la regina. Il cuore che è un semaforo a
intermittenza. O così
devi credere. Perché per te andrei ad inchiodarmi alle
stelle. Ma non
preoccuparti. Dormi ancora. Pensa che ci sono sempre almeno mille luci
accese
oltre quei vetri spessi. Le finestre dei lavoratori. Delle casalinghe
disperate. Luci informi e opportuniste. Che ci schiacciamo come
lucertole sotto
i massi. E la città brilla nel nastro isolante. Hai presente
quando mi hai
stretto la mano dicendomi che non ero mai stata così bella.
Che dopo mi strappi
di dosso il vestito per spingermi ancora e più forte nella
bolgia degli
oppressi. La tua pelle che si colora di rosso. E non è
sangue quello che ti fa
incendiare le labbra. Come se non bastasse. Ho fumato fino a farmi
esplodere
gli occhi. Quelle puttane e tu che non riesci a tenerlo nei pantaloni.
Sotto la
tenda delle lenzuola a scriverti che ti odio ed è per questo
che ti amo. O forse
doveva essere il contrario. Non lo so. Sarà che mi brucia il
fegato. Che ho
bevuto fino a estinguermi. E non è colpa nostra se siamo
fatti di lattice. Così
si attutiscono gli urti. Perlomeno questo ci hanno insegnato a
replicare a chi
non si fa i cazzi suoi. E dopo vorrei imbottirmi di pillole. Mentre mi
stringo
nel pigiama troppo largo per sentirmi di nuovo piccola. Ma dopotutto
è colpa
mia che non dicevo mai di no. Dare per scontato l’amore
è pura follia. Ma ti
ripeto. Ero convinta che ci vedessi bene. Oltre lo stucco. Il trucco.
In quella
stanza dalle pareti di cartongesso in cui ci amavano senza far rumore.
Premere
la mano sulla bocca perché siamo come gli amanti
pornografici dei romanzi rosa.
E dei film che finiscono male. Il melodramma c’è
chi lo ha nel sangue. E vorrei
chiudermi in cantina e appendermi ai fili del bucato. E quando ti
incontro ho
come le vertigini lungo i tacchi. Sulla schiena
c’è ancora il segno delle tue
dita. E i messaggi in cui mi scrivevi puttanate. Per illudermi. Per
sconfiggermi.
Guarda come schiumo rabbia. Guarda come mi sono ridotta. Scoparmi il
tuo amico
imprecando nel buio. In un carcere di polistirolo che scivola per
peristalsi
lungo l’esofago. E spegnevo il telefono. Stesa sulla moquette
a cercare le
stelle. Oltre quella luce pallida che mi sputava in faccia sentenze e
giudizi. E
non ci vuole una parrucca per conferirle credibilità. Quando
mi si asciuga il
mascara sulle guance. Divento la tua bambola gonfiabile. Credici che mi
basterebbe poco per essere felice. Per pisciare in santa pace per lo
meno. Invece
ti ostini ad appestarmi. E mi si incrinano le costole. Tu e le tue
signorine
poco raccomandabili. Ma temo di aver perso in qualche vecchia locanda
da film
western la mia dignità. E non saranno parrucche a
rendermela. Come se dopo ci
volesse l’onore per farti venire. E mi spremo fino a bere il
succo dei miei perché
senza risposta. Tanto acido lisergico per dimenticarci. Ché
ormai ci droghiamo
quasi fosse niente. Ed era routine anche ansimarmi addosso. Cercavi
nuovi
orizzonti. Senza amarmi mi dicevi che ero io la tua ragazza. Cominciavo
a
sperarci. Ed ora sono nella tenda di lenzuola. A chiedermi cosa ne devo
fare
dei tuoi occhi. Quasi il filo spinato mi coprisse. Sarò la
tua regina delle
feste. E quando viene sera e fuori piove. Abbarbicata nei temporali la
nostra
casa sulle stelle. Osserva come mangio coriandoli. Sbrindellarmi le
unghie. Strappi
al miocardio. Alla valvola mitrale. Alle tue fottute parole. Mi si
conficcano
come chiodi quelle immagini. La pista da ballo. Noi completamente
stravolti. E apri
le dita per afferrare un metro cubo di quella che chiamavamo
felicità. Assaggiarla.
Crederci. Illudersi. E lo sapevo che sapeva di merda. Ma negli
abitacoli dei
cuori soli ci sono solo rimorsi. E forse un viso che non si
può cancellare. Non
come il battesimo delle sorelle minori registrato tu cassette da
quattro soldi.
Quello presto o tardi lo sostituirà un film porno da quattro
soldi. Glielo facevamo
vedere cosa significava darci dentro. Alle matrone russe. Alle
baldracche con i
seni troppo grossi. E poi scopro che preferisci le bionde. E tutti
sapevano
quanto fossi idiota. Ma l’imperfetto è un tempo
alquanto impreciso. Non mi
riferisco a te. l’idiota sono io dopotutto. Che si
è fatta deridere. Mi rigiravi
bene e mi sentivo una musa. Ero io la tua Musa Inquietante. E la
batteria del
cellulare scarica come se avesse da fare. Che poi fingi di pregarmi di
tornare.
E se ci penso. Vorrei risponderti. E forse lo farei. Ma che ne sarebbe
dei miei
cuori fragili. Che sono fusi e completamente inutili. Da quando mi hai
sporcato
le vene. Ci mancava che lo sapessi dal giornale. Come hai potuto farmi
questo,
cazzo. Non lo riesco a capire. E va bene divertirsi. Diventare
spastici. Ma lo
spasmodico bisogno di far detonare qualsiasi cosa. Non ci hanno
insegnato come
smantellare i problemi. E siamo estremi cubi di Rubik. Solo un genio
può
districarci. Ma per ora in questi appartamenti asfittici. Non mi resta
che
dimenticarti. Solo che mi chiamavi Capezzola. Ed ora non faccio che
ripetermi
che dovevo odiarti sin da allora. Già.
Provo così tanta rabbia da confondere l’odio con l’amore. Ma tanto a te cosa importa?
Sperando che faccia meno schifo di quello che fa a me.Depressione alle quattro di notte con Michelle.
Emme