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Autore: TeKalliste    13/03/2024    0 recensioni
Un nome ha molto potere, soprattutto se sussurrato in un momento di passione, tra i fumi di droga e alcol. Angel lo imparerà a sue spese, e sarà Husk a prendersi cura delle conseguenze della furia di Valentino. Una piccola hurt/comfort con twist finale.
TW: linguaggio scurrile, allusioni sessuali, descrizione di abusi.
Genere: Angst, Comico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Angel Dust, Husk, Valentino
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Uno stupore elettrico cadde sul set, e l’ultimo ad accorgersene fu proprio colui che lo aveva scatenato. Angel Dust continuò a recitare la sua parte ancora per qualche secondo, gemendo in estasi simulata, prima di percepire il silenzio intorno a lui.
Quando alzò gli occhi al di sopra della spalla del partner con cui stava girando, incrociò quelli di Valentino, stretti in una fessura dardeggiante: «Che cazzo hai detto?».
«Niente, Val. Scusa» rispose Angel, mentre si affrettava a scrollarsi di dosso il demone che stava sopra di lui e ad infilarsi una vestaglia rosa, orlata di piume.
«Che. Cazzo. Hai. Detto?».
«Davvero, mi è scappato, non significa niente, te lo giuro».
«Chi è?».
«Cazzo, Val, nessuno, non so nemmeno a cosa stessi pensando, io… devo essere strafatto, tutto qua».
Valentino diede un tiro alla sigaretta che teneva con noncuranza tra le dita, e ne esalò il fumo rosso attraverso la stanza. Angel sentì immediatamente la morsa della catena, mentre questa si formava come un festone, un’elegante foulard rosso che andava dal suo collo al pugno del suo capo.
«Adesso tu vieni di là con me, mi spieghi chi cazzo hai chiamato, e forse, se mi soddisferai, stasera uscirai di qui con le tue sporche budella ancora al loro posto. Chiaro?».
«Val, aspetta ti prego». Ma la preghiera di Angel fu interrotta da uno strattone della catena, che gli tagliò il fiato e non gli lasciò altra via se non quella di seguire Valentino nella sua stanza, ancora una volta.

Dovevano già essere passate le tre di notte, qualsiasi cosa la parola “notte” voglia dire all’Inferno, quando Husk vide socchiudersi la porta d’ingresso, e una sottile sagoma con due paia di braccia sgattaiolare dentro l’Hotel.
«Ti preparo il tuo solito, se non hai già bevuto troppo». Angel Dust sussultò violentemente a quelle parole che venivano dal buio: il barista aveva spento le luci, ma non aveva lasciato il bancone.
«Husk! Me lo sarei versato da solo, ma se c’è il tuo brutto muso moralista a guardarmi non lo voglio più. Me ne vado a letto, micione». Il tempo passato all’Hazbin Hotel aveva fiaccato in Angel l’incredibile capacità di mentire. Husk percepì senza sforzo la fatica nella sua voce, nell’inutile, solito tentativo di suonare sornione e sarcastico.
«Dai, Angel, vieni a berti un drink, mi sembra proprio che tu ne abbia bisogno».
«Davvero, non mi va. Voglio solo dormire». Ogni leziosità nella voce era svanita. Fu allora che Husk riuscì a vedere Angel, illuminato dalla luce infernale che filtrava da una finestra della hall: un occhio nero, un livido sull’altra guancia, tremava reggendosi una spalla.
«Angel…».
«Lasciami stare» tagliò corto, prima di correre su per le scale con le sue lunghe gambe.
Husk, ancora dietro al bancone, non riuscì a tenergli dietro. Ma lasciarlo stare? La frazione di secondo in cui aveva visto Angel conciato per le feste, nella luce rossa, non si cancellava più dalla sua mente. E poi ormai non poteva più negarlo a sé stesso: era finito il tempo in cui avrebbe lasciato stare Angel. Soprattutto se avesse avuto bisogno di lui.
Afferrò una bottiglia di whisky forte e stagionato e salì al piano superiore. Con garbo, bussò alla porta di Angel Dust e si fermò per un istante a guardare la foto che li ritraeva insieme, abbracciati a Niffty e a Sir Pentious. Una fitta al cuore lo pervase al confronto tra il sorriso genuino nell’immagine e l’espressione che gli aveva visto fare poco prima che scappasse in camera.
«Vattene, Husk».
«Sono Charlie» rispose Husk, imitando una voce femminile con un improbabile falsetto.
Da dentro la stanza sentì una risatina soffocata, ma Angel rincarò comunque: «Non sono in vena, non voglio bere, non voglio parlare. Va’ a dormire».
«Sai… non devi per forza parlare. Non devi fare niente per forza, neanche aprire la porta. Lo rispetterò. Ma sei messo peggio del solito stasera, voglio solo vedere come stai».
Un breve singhiozzo, poi la porta si aprì: «Niente “per forza”?».
«Mai, mai “per forza”».
Angel lo lasciò entrare. Sotto la luce diretta, i lividi apparvero più scuri e tumefatti. Husk notò che questi non si limitavano al viso, ma ne aveva anche sul collo, striature nere che avevano tutta l’aria di essere state inflitte da delle dita.
«Quel bastardo…».
«Ti prego, non parlare. Aiutami solo con questa, fa malissimo». Angel si tolse il maglione rosa chiaro che indossava, rivelando una bruciatura piuttosto estesa subito al di sotto della sua clavicola: «Mi ha spento la sigaretta addosso, più volte, sempre nello stesso punto. Il kit di pronto soccorso è nell’armadio»
Husk non rispose nulla, sapendo che ogni commento sarebbe stato superfluo e doloroso per Angel. Aprì le ante dell’armadio, e cercò il necessario, ignorando ogni sorta di dildo, sex toy e attrezzatura BDSM, che sbucavano da tutte le parti.
Il whisky rivelò un’utilità diversa da quella che Husk aveva previsto. Dopo aver disinfettato la bruciatura, la cosparse di pomata e la fasciò con delicatezza, passando la garza intorno al collo e al braccio di Angel, per assicurarsi che non si muovesse durante la notte. Angel faceva smorfie di dolore, ma per tutto il tempo non emise un fiato.
Husk prese un po’ di ghiaccio dal frigobar che il suo amico teneva in camera, e, avvoltolo in un panno, lo poggiò sopra lo zigomo di Angel, che ancora evitava il suo sguardo.
«Ti va se rimango qui finché non ti addormenti?». Angel annuì, poi si sdraiò sul letto e si girò dall’altra parte. Husk si sedette vicino a lui, senza sfiorarlo, assorto nei suoi pensieri: l’attrezzatura medica che Angel Dust teneva nascosta tra i suoi attrezzi di scena la diceva lunga sul tipo di vita che doveva fare da anni. La diceva ancora più lunga il fatto che, nonostante non stesse mai zitto e fosse sempre inopportuno, adesso preferisse tacere piuttosto che commentare qualsiasi cosa gli fosse accaduta sul set.
Ma Angel lo sorprese, iniziando a raccontare: «Io non volevo neanche tornarci oggi, a lavoro. Sapevo che sarebbe stato un inferno, dopo le ferie che mi sono preso. Val voleva che io tornassi subito dopo lo sterminio, ma sapeva che non era nella posizione per costringermi. In quei giorni ero un eroe. Passami il whisky».
Husk gli porse la bottiglia, da cui l’altro trasse un lungo sorso. Angel si tirò a sedere e si strinse le ginocchia al petto con un paio di braccia, mentre con l’altro continuava a raccontare e gesticolare: «Avevo paura di oggi. Ho avuto ancora più paura quando ho scoperto che dovevo girare una cosa a tre con Tiffany Tuttatette, mi mette sempre in soggezione, quella troia. Val si è accorto che ero tesissimo, e non mi concentravo. Porca puttana, non riuscivo neanche a fare dei gemiti credibili».
Husk alzò una zampa per sfiorargli la testa, ed Angel si ritrasse istintivamente, come per sfuggire a un colpo. Ma quando vide che la sua zampa restava ben ferma, in attesa semplicemente di accarezzarlo, vi appoggiò la testa. Mentre Husk lo accarezzava, Angel piangeva, e le sue lacrime cadevano sulla coperta: «Val mi ha portato a fare un giro, sai, come fa lui, il bastone e la carota, e quando è gentile sai sempre che devi aspettarti il peggio. Mi ha offerto un po’ di polvere, mi ha detto “dai, fatti, poi torna sul set, pensa a qualcuno che ti piace e dacci dentro”».
«E poi cos’è successo?» Husk non riuscì a trattenere la domanda.
Angel arrossì con violenza e infilò la testa tra le ginocchia: «Mi ha detto di pensare a qualcuno che mi piace, e l’ho fatto. Non ci capivo più un cazzo a quel punto. Ho urlato il nome sbagliato».
«Hai chiamato l’altra pornostar col nome di Valentino?».
«No! Non con il nome di Val, è stato questo il problema!».
Husk avrebbe voluto chiedergli che nome avesse detto, ma Angel sembrava sul punto di scoppiare. Vederlo imbarazzato era rarissimo, ma vederlo così mortificato era una scena talmente unica che a Husk quasi scappò da ridere. Quasi, perché Angel alzò la testa di scatto e all’improvviso sgranò gli occhi: «Non posso tornare al lavoro domani. Non posso, cazzo, non ci riesco. Io non ce la faccio».
Si alzò bruscamente, nel panico, e cominciò a girare in tondo nella stanza, cercando il suo maialino: «Husk, non ce la faccio, non posso, non voglio vivere di nuovo un altro giorno così, preferisco morire».
Senza pensarci due volte, Husk si alzò e lo abbracciò, fermando la sua frenesia. Lo teneva stretto: «Se non vuoi, non devi. Mai “per forza”, abbiamo detto».
Per un momento, il battito del cuore di Angel accelerò e il suo respiro si fece ancora più corto: «Come faccio a eludere il patto? Io sono ai suoi ordini per dodici ore al giorno, e riesce comunque a fottermi anche il resto del tempo libero, con quello che mi fa passare. Spero solo di morire di nuovo».
Husk sapeva che la situazione di Angel era al momento senza speranza, ma forse poteva fargli guadagnare un po’ di tempo: «Comunque sia, non puoi andare al lavoro con questa faccia e queste ferite. A questo deve arrendersi anche Valentino. Tu domani resti qui, al sicuro, e se Valentino ti manda a dire qualcosa, ci siamo noi a proteggerti».
«Ma è un signore supremo…».
«Anche Alastor, e non credo che gli faccia piacere avere quel farfallone che molesta i clienti del suo Hotel».
Il panico di Angel si calmò. Si staccò dall’abbraccio di Husk, che non aveva ancora smesso di accarezzargli la testa, e mandò giù un’altra sorsata di whisky.
«Grazie, Husky. Ho perso il conto di quante mi hai salvato il culo».
«Ci lavori, con il culo, ci guadagni un bel po’, e con quel bel po’ mi paghi un bel po’ di drink. Guarda che lo faccio per me».
Angel rise per la prima volta: «Vuoi ancora rimanere qui finché non mi addormento?».

Husk stava finendo di pulire le tazze della colazione, tutte, meno quella di Angel: quando quella mattina lo aveva svegliato, lui aveva deciso di rimanere a letto un po’ di più, abbracciato al suo maialino. Quella scena gli aveva rasserenato il cuore. Pensando a lui, Husk quasi non fece caso alle botte furiose che qualcuno stava tirando al portone dell’Hotel. La hall era deserta, quindi alzò gli occhi al cielo, scavalcò il bancone e andò ad aprire.
Sulla soglia, la figura torreggiante e vermiglia di Valentino lo sovrastò. Brandiva una pistola dorata, col calcio zebrato. Sobria, davvero.
«Mandami qui Angel. Subito».
«Mi hai scambiato per la cameriera?».
«Ti ho scambiato per uno stronzo con un buco in petto, se non mi fai passare. Chi cazzo ti credi di essere?».
«Sono Husk, il concierge e barista dell’Hazbin Hotel».
«Husk? Husk! Allora sei tu il pezzo di merda». Valentino rise isterico: «Sei morto, cazzo». Poi si lanciò improvvisamente addosso a lui. Husk lo schivò, e si alzò in volo, fuori dalla porta.
«Torna qui brutta testa di cazzo, ti devo ammazzare».
Una pallottola fischiò accanto all’orecchio di Husk, ma lui non aveva paura. Anzi, se la rideva. Aveva capito che nome aveva gridato Angel il giorno prima.

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Nota dell'autrice: questa storia partecipa all'iniziativa Easter Advent Calendar della pagina Facebook Hurt/Comfort Italia - Fanart e Fanfiction.
   
 
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