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Autore: BlackPaperMouse86    31/03/2024    1 recensioni
Un viaggio nella coscienza di Alastor, destinato a indagare il rapporto che quest'ultimo ha con Lilith e, di conseguenza, con Charlie.
Il titolo di questa storia cita il brano "Wizard Of Meh" di Pogo e la Playlist che è nata da esso: https://www.youtube.com/playlist?list=PLRKM-zi_0_vejjdbcZDkihH3ULWwP6XXc
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alastor, Charlie Morningstar, Lilith
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il salotto dell’Hotel è allegro, stasera. I demoni ospiti di Charlie, cioè i soliti Angel, Sir Pentious, Husk e persino Nifty sono tutti impegnati nella stessa attività, attorno al tavolo centrale della sala, a lanciare grida entusiaste o a ridere. Quella che era partita come un’innocente partita a carte, grazie alla proposta di Husk “Ma perché non scommettiamo qualcosa?”, è diventata una vera e propria guerra all’ultimo sangue per accaparrarsi i soldi messi in palio. Non che i soldi siano fisicamente presenti sul tavolo – ma i perdenti dovranno pagare da bere ai vincitori nella prossima uscita notturna. Ultimamente il gruppo si diverte, a uscire insieme. Non che io abbia mai partecipato.

La piccola Charlie, tra l’altro, non si è fatta scappare l’occasione di sfruttare il loro entusiasmo per le carte e subito ha proposto: “Ma perché non giocate a squadre?”, con il probabile intento di far legare le coppie di combattenti tra loro. Sta funzionando piuttosto bene. Le due squadre sono affiatate, ormai vanno avanti a giocare da più di due ore, e non fanno che ridere. Vaggie, nel frattempo, è andata a letto, stanca di osservare la partita da fuori, mentre Charlie… Charlie. Dov’è finita Charlie?

“Alastor.” Mi chiama.
Riconosco la sua voce dietro le mie spalle. Non sento il bisogno di voltarmi per guardarla: so che sta venendo da me. Infatti, mi affianca subito dopo e per un po’ stiamo e basta, fermi in quell’angolino vicino alle scale che mi sono scelto per tenere d’occhio il salotto da lontano. “Non giochi neanche stasera?”
Ancora non la osservo, ma so che sta sorridendo nel dirmelo. La sua non è una vera domanda, è un invito – ben impacchettato e squisitamente sincero, tra l’altro. “No, mio tesoro, preferisco fare da arbitro in questi casi.” Le rispondo, tenendo gli occhi fissi sulla partita. “Quando sarà ora di dormire, avrò cura io stesso di interrompere il gioco e tu non dovrai disturbarti. Anzi, puoi anche coricarti adesso, se lo desideri. A loro penso io.”
Mi aspetto di trovarmi davanti i suoi occhi curiosi, grandissimi, quando infine sposto lo sguardo su di lei, ma con mio stupore, essi sono malinconici e il sorriso di lei somiglia più che altro a una smorfia triste. Mi sta fissando, ma non sembra concentrata su di me. Tiene il proprio telefono nella mano destra, abbandonato tra le dita stanche.
“C’è… Qualcosa che non va, mia cara?”
Piagnucola: “Si vede così tanto?”
“Beh, sì.” Alzo un sopracciglio, incuriosito. “Chiamata indesiderata?”
Sospira. “No, ma magari…” Si appoggia con la schiena alla parete dietro di noi. “Sono io che ho chiamato. E ancora nessuna risposta, dopo tutti questi anni di silenzio… Ma cosa devo fare con lei?”
“Con lei chi, tesoro?”
“Mia madre!” Sbotta. Io non reagisco alla sua rivelazione, evidentemente dando l’impressione di essere confuso, così alla principessa viene spontaneo specificarlo: “Lilith!”

Lilith.
Era inevitabile che prima o poi avremmo finito per parlarne, ma sentire questo nome pronunciato da lei, da Charlie stessa, mi coglie comunque impreparato. A turbarmi non è il fatto che l’ingenua principessa sta parlando dei suoi genitori con me - lei si apre con tutti su tutto, non è una novità. Ma l'argomento Lilith… Ecco, quello sì che è una vera rogna. Mi coinvolge troppo da vicino per evitare di reagire, e io odio non vere il controllo sulle mie reazioni. Sento che una delle dita che impugna il mio microfono ha iniziato a tremare. Irrigidisco tutta la mano affinché non si noti. Poi torno a fissare la partita a carte. Non devo darle l’impressione che la questione mi interessi.
“Sai, no, che lei non si vede più qui all’Inferno da anni…” Continua lei. “È passato così tanto tempo che ormai non mi ricordo neanche più…”
“Con questo fanno otto, se non sbaglio.”
“Otto anni! Otto anni lontano da sua figlia! Ma almeno rispondere al telefono mi sembra il minimo, no?! Io lo capisco che lei è impegnata, che lei ha un sacco da fare e tutto il resto… Ho cercato di essere comprensiva fino adesso… Però, cazzo almeno scambiare due parole con me… Tra l’altro non è che la chiamo per chiederle aiuto o qualcosa del genere. Vorrei solo dirle che l’Hotel sta andando bene. Che le cose vanno bene. Che Charlie, la sua Charlie sta bene.” Sospira, con un’amarezza che non le ho mai visto addosso. “Ma evidentemente per lei non è importante.”
No, decisamente non mi piace che stiamo parlando di Lilith. Non credevo che sarebbe successo, ma da quando la ragazzina ha introdotto questo argomento, un fastidioso rumore di statico ha iniziato a ronzarmi nelle orecchie.
Conosco fin troppo bene questo sintomo per non dedurne la causa. È paura. Gracchiante fastidiosa paura, identica a quella che ho sentito l'ultima volta, sette anni fa. Possibile che il solo fatto che stiamo parlando di Lilith mi faccia questo effetto? E di cosa ho paura, esattamente? Che Charlie possa intuire dal tono della mia voce, dalla mia mano rigidamente stretta al microfono o da qualsiasi altra mia espressione che io so qualcosa e non lo sto dicendo?
È strano. Di solito non ho problemi a mentire, né temo di essere scoperto. Me ne esco con una mezza risata e con un: “Ah, voi giovani di oggi siete tanto sensibili...”, cercando di apparirle più naturale possibile. La piccina non sembra dare troppo peso al mio intervento, perché continua a fissarsi i piedi con la stessa espressione sconsolata, finché chiede: “Tu non ne sai niente di lei, vero Alastor?”
Stringo i denti del mio sorriso. “Niente di cosa, cara?”
“Cosa le è successo… Dove se n’è andata per tutti questi anni, insomma…”
“Ah, come mi piacerebbe saperlo. Sarebbe senz’altro una storia avvincente. Disgraziatamente, i demoni potenti non parlano del loro privato con altri demoni potenti. È piuttosto raro anche solo che si incontrino, a dire il vero.”
Charlie sembra credermi, perché sprofonda in un lungo silenzio. Per un po’ tutto quello che facciamo è ascoltare gli schiamazzi dei giocatori alla partita. “E’ che io in questi anni sono cresciuta.” Prosegue poi. “E lei non mi ha visto crescere… Vorrei solo poterle dire chi sono, ora.”
Una frase mi scivola fuori dalle labbra senza la minima esitazione, naturale come il soffio di un respiro: “Forse lo stai già facendo.”
Solo ora che l’ho pronunciata realizzo la gravità del mio errore. La situazione è troppo, troppo delicata per lasciar trapelare anche la minima informazione, e io invece di starmene zitto, di cambiare discorso, ho appena consegnato a Charlie l'uscita più ambigua ed enigmatica possibile. E quel che è peggio è che non ci ho neanche pensato: mi è venuto spontaneo dirla e basta. Non ho saputo tenermela dentro. Ma che diavolo mi prende?
La principessa mi guarda, dapprima perplessa. Non faccio neanche in tempo a pensare a come correggermi che lei ha già allargato le labbra in un grande sorriso, socchiudendo gli occhi in una specie di commozione. “Grazie, Alastor.”
Ottimo. Deve aver pensato che la mia uscita fosse metaforica – una di quelle classiche storie dei genitori distanti che ti guardano dall’alto dei cieli, o simili. Oggi sarò anche instupidito ma se non altro sono fortunato. “Lo sai, forse l’Hotel sta facendo bene anche a te.”
“Questo non lo so, mia cara. Ma so che alla mia reputazione non gioverebbe far sapere ad altri che stasera ho cercato di confortarti. Perciò, lo scambio di oggi rimane fra noi. È chiaro?” Uso volutamente un tono minaccioso, porgendole la mano come per sigillare un contratto, ma lei ride scostandola via.
“Chiarissimo.” Si allontana, stiracchiandosi. Mi sembra decisamente più leggera di prima. “Buonanotte, Alastor.”
Il suono di statico ancora non va via.
 
Come promesso, al rintocco della mezzanotte interrompo io stesso la partita, con grande disappunto di tutti. Il ronzio prosegue a tormentarmi anche dopo che io e i demoni saliamo le scale… E anche dopo che ci avviamo nel corridoio, quando annuncio con aria sorniona “Buonanotte, peccatori!” e mi faccio mandare al diavolo da Husk, che ha sempre qualcosa da ridire quando mi diverto. Persiste anche quando chiudo a chiave la porta della camera e rimango solo con il mio giradischi, i miei mobili d'epoca e la mia Stanza Blu - quella dove di solito consumo i pasti. La ignoro, per dirigermi verso il mio letto. Mi sfilo la giacca, la poso su una sedia e stendo la mia schiena sul giaciglio. Scruto il soffitto sopra di me, nell'attesa che il rumore nelle orecchie si spenga. Solo dopo qualche secondo mi accorgo che sto ancora stringendo tra le dita il mio scettro, l'asta del microfono che ora è sdraiata con me. L’ho tenuta contro il petto fino a questo momento, come uno scudo indistruttibile contro ogni pericolo. Anche su questo gesto spontaneo non ho avuto il minimo controllo. Sorrido irritato.
“Questo non deve succedere.” Mi ripeto a denti stretti. Mi rialzo immediatamente per sistemare il microfono nella sua teca accanto al camino. “Questo non deve assolutamente succedere.”
Ma che cosa diavolo succede, esattamente? Perché il rumore di statico non si è ancora estinto? Charlie ha creduto alle mie parole, dopotutto - nemmeno la mia ultima frase l’ha insospettita. Per di più ora sono solo, senza nessuno che possa ancora mettermi in difficoltà, che possa parlarmi di lei… Di Lilith.
Allento il nodo del mio papillon e prendo un ultimo, profondo respiro. Lilith. È il pensiero di lei che mi provoca questa assurda agitazione. Non è Charlie, non è parlarne.
È pensare a Lilith che mi fa paura.

 
   
 
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